Nello skyline di Dubai svetta il Burj Khalifa, ma per l’Expo 2020 sarà superato dalla torre più alta del mondo, la Creek Tower progettata da Santiago Calatrava

Expo da mille e una notte

Fabiana Giacomotti

Il grattacielo più alto del mondo, i mall infiniti, le piste da sci indoor: gli Emirati sono quasi pronti per il 2020. Non vedono l’ora che arrivino i visitatori stranieri, e magari si fermino a vivere lì

Agosto 2018. Giorno uno dell’istruttoria di questo articolo. Intervista telefonica fissata con Marwal Al Serkal, presidente esecutivo della Sharjah Investment and Development Authority, a grandi linee l’equivalente del Fondo Strategico Italiano del piccolo e ricchissimo emirato. “Le spiace se ci risentiamo? Mi scusi, sono su un cantiere”. Giorno due dell’istruttoria. “Posso richiamarla? Sono giornate cruciali”. Giorno tre eccetera. Squilla il cellulare. Sono le otto di sera in Italia, le dieci a Sharjah. “Mi scusi ancora, ci sono: di che cosa vogliamo parlare?”. L’Expo 2020 di Dubai è cosa di domani, soprattutto perché gli emiri si sono ripromessi di chiudere tutti i cantieri entro il 2019 per consentirsi il lusso di apportare ritocchi e migliorie per un anno intero, un passo che non si sa se dovrebbe far ridere o piangere noi italiani che nel 2015 nascondemmo gli ultimi sacchi di materiale di scarto del solo sito Expo di Rho un’ora prima dell’inaugurazione, posso dirlo per aver visto con i miei occhi i volontari affannarsi a sistemare le aree di passaggio del sito mentre Matteo Renzi ne varcava l’ingresso. A quali condizioni gli emiratini riusciranno a togliere le impalcature alle decine di mega cantieri aperti ovunque e comprensivi di un treno hyperloop, un aeroporto da 160 milioni di passeggeri, il futuro grattacielo più alto del mondo firmato Calatrava, un’eccentrica struttura a forma di cornice con parco sopraelevato che si chiamerà appunto The Frame e tutti i mall, le piste da sci indoor, i centri, gli alberghi grandi, medi e di charme, è oggetto di speculazioni sulle quali si fa periodicamente sentire l’associazione non governativa Human Right Watch con denunce sulle condizioni di lavoro della manovalanza, perlopiù indiana e bengalese.

 

Si sono ripromessi di chiudere i cantieri entro il 2019 per consentirsi il lusso di apportare ritocchi e migliorie per un anno intero

Di sicuro, o forse in compenso, non si può dire che gli emirati non stiano prestando attenzione alle origini delle tele, degli oggetti e degli elementi di arredo di cui vanno arricchendo musei e alberghi. Un amico antiquario del ristrettissimo circolo che vende quel genere di oggetti che si definisce “qualità museo” alle grandi fondazioni mondiali, dice che nessuno dei conservatori o dei compratori emiratini, a partire dal Louvre di Abu Dhabi, acquista beni di cui non sia certa e comprovabile la proprietà fra il 1933 e la fine della Seconda guerra mondiale. Non vogliono questioni con eventuali vestigia di spoliazioni naziste, esigono la tracciabilità totale, e questo ci porta al cuore della questione Expo Dubai 2020 che non è certo, e non solo, il lungo elenco di interventi nell’immobiliare di cui si va parlando ormai da tempo accorpandovi sensazionali cifre miliardarie in dollari (il solo sito dell’Expo Dubai ne costerà tre), quanto l’impostazione, essendo giornalisti diremmo il taglio editoriale, che gli emirati intendono dare all’evento. Il titolo scelto, “Connecting minds, creating the future”, unire intelligenze, creare il futuro, dovrebbe già offrire qualche indizio sull’obiettivo principale, che è quello di riposizionare l’area del Golfo Persico e la sua percezione per attrarre un pubblico ricco o comunque interessato alla regione, ma innanzitutto sofisticato, colto. A fronte di un’economia che, negli ultimi anni, ha segnato il passo, gli emirati con i loro nove milioni di cittadini, di cui una parte non irrilevante straniera, hanno necessità di attrarre talenti e possibilmente a tempo indefinito: il tipo di gente davvero in gamba che, fino a oggi, ha ritenuto Dubai l’hub perfetto per fermarsi a fare acquisti nelle soste dei voli a lungo raggio verso l’estremo oriente (due terzi dei viaggiatori mondiali fanno scalo a Dubai-Al-Maktoum) o, al limite, per un investimento immobiliare in uno dei tanti centri residenziali, senza mai prenderne però in considerazione i musei, i centri di ricerca, le università. Cultura e sviluppo che soppiantino via via l’economia periclitante del petrolio: ecco di che cosa c’è bisogno nel Golfo che non a caso, due mesi fa ha emanato un decreto che permette agli stranieri il controllo totale delle società aperte negli Emirati, fino ad oggi vietato, offrendo in aggiunta un permesso di residenza fino a dieci anni a specialisti nel campo medico, scientifico, ricercatori in discipline tecniche e studenti di altissimo profilo.

 

Il console generale degli Emirati parla del programma che dovrebbe accogliere per i sei mesi dell’Expo 30 mila ragazzi di ogni nazionalità

Non è dunque solo in ragione della loro struttura giuridico-politica di federazione che gli emirati abbiano scelto di presentarsi come entità unica all’appuntamento del 2020, perfino nel logo che ormai appongono orgogliosamente in calce alle comunicazioni, quanto per massimizzare l’impatto di ogni singolo emirato in relazione con gli altri. Lo stanno facendo in modo spiccato Abu Dhabi, la capitale, al tempo stesso istituzionale e familiare, dominata com’è dalla grande moschea dedicata al fondatore degli Emirati, lo sceicco Zayed; Dubai, il centro finanziario governato dai potentissimi al Maktoum; e il piccolo, antichissimo Sharjah, sito Unesco, centro di traffici millenari e di un centro archeologico eco-sostenibile progettato da un team della Dabbagh architects di Dubai intorno all’edificio funerario primitivo più rilevante della zona, la tomba circolare Umm an-Nar dell’Età del bronzo, che certamente meriterebbe una valorizzazione turistica maggiore.

 

“E’ un momento cruciale per gli Emirati, che richiede la partecipazione di tutti nel sostegno a Dubai”, mi ha detto qualche ora prima del colloquio con Al Serkal il presidente della Camera di commercio di Abu Dhabi , Mohamed Helal Al Mheiri. Dall’Evento, definito rigorosamente in maiuscola, ci si aspettano venticinque milioni di visitatori, di cui il 70 per cento almeno di stranieri che, negli obiettivi, dovrebbero rimanere sufficientemente intrigati da sceglierli come residenza o, almeno, tornarvi per visite più approfondite. Vanno in questa direzione perfino i colossali investimenti nei mall, i centri dello shopping e del divertimento. Mentre la moda mondiale si interroga sull’evoluzione del business nell’online e dei servizi one to one, negli Emirati la parola mall, in Europa mai veramente attecchita e negli Usa ormai fonte di grandi problemi, sembra infatti avere ancora un senso. Dopotutto, come osserva Giovanni Bozzetti, ex assessore del comune di Milano e della regione Lombardia, ora presidente di Efg Consulting, società di consulenza strategica specializzata nell’internazionalizzazione delle eccellenze italiane nei mercati del Golfo, “in paesi dove la temperatura, in estate, può toccare i cinquanta gradi, il centro commerciale rappresenta l’unico luogo frequentabile al di fuori delle mura di casa” e dunque deve prevedere l’intrattenimento per l’intera famiglia, oltre al cosiddetto “shopping spree” di livello. La sensazione dell’aperto al chiuso, del tutto straniante per noi europei che ci aggiriamo per queste città del consumo e dello svago con la perdurante inquietudine di non riuscire a uscirne mai, risulta invece perfettamente logica per chi ha mezzi e creatività tali da aggirare il problema nella sua forma più eclatante, quella della stazione di sci al chiuso che, dopo il celeberrimo Ski Dubai nel Mall of the Emirates (quando aprì, nel 2005, noi giornalisti di lifestyle ci precipitammo a scattarvi servizi di moda: in un ambiente chiuso, la neve illuminata dall’alto a luce fredda aveva dei riverberi surreali) verrà replicata ad Abu Dhabi, presso il Reem Mall: un investimento di un miliardo di dollari per 450 negozi, fra cui la prima filiale di Macy’s negli Emirati e il più grande parco giochi nella neve indoor del mondo.

 

Prestano attenzione alle origini delle tele, degli oggetti e degli arredi di cui vanno arricchendo musei e alberghi: non vogliono controversie

Intervistato di recente su un mensile locale, il direttore generale, Shane Eldstom, ha messo l’accento sulla “dimensione familiare” del progetto. Il messaggio che gli Emirati intendono far passare è chiaro: qui si vive bene, protetti, tranquilli, fra servizi di eccellenza che pochi altri possono permettersi. Il console generale degli Emirati Arabi Uniti, Abdalla Alshamsi, di ritorno da una vacanza in Europa, mi parla a lungo del tema dell’inclusione e dell’“ambizioso programma di volontari” che dovrebbe accogliere per i sei mesi dell’Expo 30 mila ragazzi di ogni nazionalità. Dunque, apertura e integrazione contro qualunque sospetto di integralismo che, peraltro, negli Emirati viene combattuto anche a norma di legge: nel 2015 è stata approvata una legge contro la discriminazione religiosa, e dare dell’infedele a un cattolico o un buddhista comporta una pena pecuniaria significativa e, nei casi più gravi, il carcere. Come per gli acquisti di opere d’arte, il tema è evidente: non vogliamo controversie. Qui si viene per fare affari, godersi il (purtroppo, non sempre bellissimo) mare, fare sport, dedicarsi shopping. E poi, avvicinarsi all’arte islamica, classica e contemporanea. Per questo, c’è Abu Dhabi. E vuole esserci anche Sharjah.

 

Lo scopo: riposizionare l’area del Golfo e la sua percezione per attrarre un pubblico ricco, ma innanzitutto sofisticato, colto

Marwal al Serkal ha trentotto anni; è stato posto a capo del veicolo finanziario-immobiliare dell’emiro Sultan bin Mohammed al Qasimi due mesi fa, e da pochissimo è stato premiato come uno dei migliori manager degli emirati. Infatti, sa subito dove andare a parare anche con la sconosciuta intervistatrice del paese che ha ospitato l’Expo 2015 e al quale Al Serkal dedica le parole di encomio attese, oltre a una valutazione estremamente positiva sul cambio di passo della città di Milano dopo l’Expo, che è quanto anche gli emirati si prefiggono. In quindici minuti, prima di rimettersi presumibilmente al lavoro, anticipa il grande investimento di restauro delle vecchie stazioni carovaniere dell’Ottocento nel deserto e la loro progressiva trasformazione in “piccoli hotel di charme”, un dato inedito in una regione dove la media degli hotel di lusso viaggia sulle cinquecento stanze; quindi affronta il programma di valorizzazione in corso per il Museo della civiltà islamica, gli scambi e le partecipazioni internazionali degli artisti contemporanei emiratini (“Rock, paper, scissors: positions in play“, il progetto presentato dagli Emirati all’Arsenale durante la Biennale d’arte di Venezia del 2017 lasciò i visitatori stupefatti: nessuno si aspettava un volo di aeroplanini di carta al posto delle attese grandi opere plastiche. Il curatore, Hammad Nasar, disse di aver notato uno “spirito giocoso” nell’ultima generazione di artisti autoctoni: nessuno fiatò), e la progressiva internazionalizzazione dell’American University of Sharjah e la Sharjah University, entrambe fondate nel 1997 e in via di rapida scalata nel ranking accademico mondiale (la American University è attualmente alla 411esima posizione): “Accogliamo molti studenti dall’Iran, dall’Arabia Saudita, anche dagli Stati Uniti”. Arabi-americani, naturalmente, che il presidente Usa Donald Trump guarda ufficialmente con sospetto. In realtà, il 6 giugno scorso, più o meno negli stessi giorni in cui veniva emanato il “muslim ban” che impedisce l’accesso negli Usa a cittadini di diversi paesi a maggioranza islamica fra cui Iran, Libia, Somalia, Siria e Yemen, Washington annunciava che la multinazionale del fund raising Big Thing Group sarà il suo partner ufficiale per la costruzione del Padiglione Usa a Expo Dubai 2020, con l’obiettivo di raccogliere 60 milioni di dollari, cash, “per valorizzare i cinquanta stati americani”.

 

Forse l’Islam non amerà gli Stati Uniti, come diceva Trump in campagna elettorale, ma quello emiratino dev’essere un Islam meno uguale degli altri: da 3M a Camco e Bank of America, l’elenco delle società americane con filiale a Dubai è abbastanza lunga da giustificare un progetto impegnativo come questo e Trump, oltre che ai minatori del Minnesota, deve rispondere anche all’elettorato degli affari. Il cambiamento nella legislazione societaria, molto più aperto anche nella richiesta di una sede fisica, avrà certamente un impatto positivo sulla bilancia commerciale del Golfo, come fa notare ancora Bozzetti, che nel Golfo lavora principalmente con imprese del design, dell’impiantistica e della moda. Abu Dhabi ha da poco approvato un’estensione del suo licence package ai residenti dell’area del Golfo e degli Emirati che permette di aprire attività individuali in oltre cento categorie merceologiche senza l’obbligo di aprire in contemporanea un ufficio: “Vogliamo che i nostri nuovi imprenditori si focalizzino sullo sviluppo del business, senza perdere tempo e denaro in attività collaterali nel momento del lancio” dicono dall’Abu Dhabi Department of Economic Development. Il package si chiama Tajer Abu Dhabi. Grafia e fonetica suonano identiche alla definizione di business in spagnolo. Intrigante mistero.

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