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La crisi da palpeggiamento hollywoodiano fa quasi tornare in simpatia il Nobel

Giuliano Ferrara

La storia delle molestie toglie un po' di snobismo al premio comminato dall'Accademia di Stoccolma

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Senza ricorrere alla frequentatissima scemenza della freddura da treno (il premio Ignobel) qui da tempo abbiamo cercato di far uso delicato della lingua italiana, scrivendo sempre che il Nobel di solito viene “comminato”, insomma è come una pena. I letterati in attesa fervorosa o ardente della sentenza annuale 2018 devono soprassedere, e aspettare forse il suo raddoppio nel 2019, oddio, due Nobel con un solo verdetto. Resta misterioso il collegamento tra tutta questa devastazione protocollare e il palpeggiamento di principessa, la graziosa Vittoria, avvenuto si dice nel 2006, in occasione di un ricevimento, da parte di un fotografo franco-svedese, Jean-Claude Arnault, imparentato con una poeta dell’Accademia di Stoccolma e parte dell’inner circle, evidentemente molto inner, del giro grosso della giuria.

 

Come ogni premio e classificazione, il Nobel è esposto al pettegolezzo, e spesso allontana i nominati dalla gloria, che ha le sue vie. Sembrava che con i capricci di Bob Dylan, quel rifiuto non proprio rifiuto e molto peggio che un rifiuto, la cosa fosse risolta, et pour cause, invece c’è voluto quello che i fantasisti della definizione cronistica già chiamano il “Weinstein svedese”. Tanti anni fa Jean-Paul Sartre veniva inseguito nel bianco e nero televisivo da importuni che gli domandavano circa il suo rigetto del premio, di cui era stato onorato, ma si capiva che, magari incerto sul destino delle sue opere filosofiche, ma non sul panache del public intellectual della Rive Gauche, l’esistenzialista aveva cercato riparo sicuro in un diniego che gli assicurava l’originalità assoluta. Sono simili atti di superbia che procurano quel tanto di inaccessibilità alle classificazioni della Reale Accademia indispensabile per la glorificazione in vita. Se non riesci a non meritarlo, almeno evitalo.

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Il fatto è che il Nobel non è caviale, è un succedaneo. Ti fa entrare in una lista e le liste sono pericolose, distribuiscono la fama secondo una logica di calendario stagionale, per quanto ben scritte siano le motivazioni universalistiche elaborate come certificati di buona condotta letteraria, per quanto autorevoli siano i componenti dell’Accademia, i loro consulenti e traduttori e traffichini. Non è che non stia bene comparire insieme a Elfriede Jelineck o a Dario Fo, ma se per questo a tanti altri altissimi poeti, per non parlare delle immense risorse “nobilari” delle letterature venute da luoghi estranei al canone occidentale: todos caballeros sembra un dictum fatto apposta per la consacrazione nella casa, eppoi non si deve star lì a farla tanto difficile e l’assegno è anche cospicuo. Tutto è inoltre organizzato per bene, le cerimonie sono esempi di stile, la regalità conferisce una naturale autorevolezza che altri premi molto ambiti sostituiscono con un di più di professionalità, con una rete meno ingombrante di discipline coinvolte, con un’allure più limitata e magari anch’essa commercialmente appetibile.

 

Ora siamo alla più grave crisi dalla fondazione, nel 1901, ben centodiciassette anni di vita del premio, salvo pause in guerra, e questo per un palpeggiamento che introduce una punta di volgarità hollywoodiana in un mondo che più diverso dalla cartapesta e dalla pellicola non potrebbe essere. Per simpatia verso la casa reale e la sua tormentosa decisione di rinvio verrebbe voglia di smetterla con quel “premio comminato” e farla finita con lo snobismo anti Nobel. Ma come si fa?

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