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Chuck Close, ultimo nella lista di artisti appesi al muro (al posto dei quadri)

Giuliano Ferrara

Il ritrattista condannato dal moralismo pansessuale. Ma solo la responsabilità penale personale può essere dirimente, non le campagne fondate sulla diceria, sull’incantamento ideologico malsano

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Chuck Close è un formidabile ritrattista dagli anni Sessanta. Gli hanno annullato una mostra alla National Portrait Gallery di Washington. Woody Allen è da mezzo secolo l’interprete leggendario della nostra epoca da tutti conosciuto. Amazon gli ritira la distribuzione dell’ultimo film, mentre molte star che hanno reso possibile la vasta produzione di Allen si rammaricano di aver lavorato con lui e in alcuni casi devolvono i guadagni al movimento #MeToo. Capo d’accusa per la censura di entrambi: molestie sessuali, vere o presunte non importa, non ci sono processi, condanne, certezze, e nel caso di Allen prevale su tutto una faida familiare atroce. Gli americani sono decisamente impazziti. Vero che avevano censurato James Joyce e Henry Miller, entrambi per oscenità, ma erano i tempi del proibizionismo, e i discendenti dei puritani allora si ubriacavano rigorosamente in segreto, di contrabbando, la sbronza peggiore. Ora dovrebbero vendere sottocosto tutti i loro “misogini” Picasso, i Caravaggio e gli Egon Schiele pittati da due assassini, e chissà quante altre opere, e le sculture di Benvenuto Cellini e i quadri di Balthus, e gli archivi di Hollywood probabilmente devono essere tutti bruciati senza eccezione, come hanno fatto con le scene girate da Kevin Spacey, sostituite come in un brutto scenario di George Orwell da un attore sostituto. D’altra parte a forza di predicare diversità, identità, indifferenza di genere, aborto come diritto pianificato, affirmative action, safe spaces nelle università drogate di studi decostruzionisti, e altre tragiche cazzate fatte con la complicità culturale degli artisti ora alla gogna, hanno eletto Donald Trump presidente, l’impostore del politicamente scorretto ha compiuto l’opera di devastazione dell’intelligenza iniziatasi in epoca ultraliberal, può succedere di tutto.

 

Ora qui in America si dice che bisogna forse separare l’arte dall’artista e dalla sua condotta personale nella vita, e un accademico del Bard College, Tom Eccles, confida desolato al New York Times che ad applicare i criteri censori che hanno ucciso Chuck Close “i muri resterebbero vuoti”. Nel mondo cinematografico si guarda con perplessità alla civiltà europea che nel suo apparente cinismo ha consentito a Roman Polanski, che sessanta anni fa ebbe una relazione con una tredicenne, in piena epoca pansessualista, di continuare a girare e creare nonostante la sua condizione di reietto e di latitante per la giustizia americana. Ma non è così. La questione non sta nel popolare i luoghi dell’arte di artisti-gentiluomini, nel pubblicare solo libri scritti da incensurabili, nel riscrivere la storia eliminando Founding Fathers proprietari di schiavi e politici fatali ma inclini alla manovra parlamentare corruttiva come Lincoln, vaste programme, la questione sta nell’accettare il fatto che arte e vita, storia e vita, hanno relazioni reciproche complicate, bene e male sono intrinsecamente legati alla condizione umana, si sia o no credenti nel peccato originale biblico. Solo la responsabilità penale personale può essere dirimente, non le campagne moralistiche fondate sulla diceria, sull’incantamento ideologico malsano, sulle testimonianze senza prove e sulla dittatura sentimentale delle vittime o sulla propagazione del senso di colpa. Nell’epoca del “chi sono io per giudicare?”, diventato un segno liberatorio della morale corrente per opera del capo della chiesa cattolica, tutti in realtà giudicano ed emettono sentenze sociali, le più costrittive e assurde, totalmente sbagliate.

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