Il caso
Oltre mezzo milione di danni: così i pro Pal hanno tolto risorse agli atenei
Dalla Sapienza a Padova, fino a Milano e Torino. La conta dei costi delle occupazioni in molte università è ancora in corso. Ma sicuramente sforerà i 500 mila euro. E molti rettori non sanno dove recuperare le risorse
Oltre mezzo milione di euro. Con il rischio che si arrivi fino a un milione. E’ questa la stima che le principali università italiane hanno fatto (o stanno ancora completando) dei danni dell’intifada studentesca. Ovvero la rete di occupazioni pro Palestina allestita nei diversi atenei lungo tutto lo stivale. Il conto più preciso per ora l’ha redatto l’Università La Sapienza di Roma, che in un documento diffuso internamente ha parlato di 330 mila euro spesi per il ripristino della didattica nel campus, tra pulizia e riparazione di alcune infrastrutture e infissi, come quello divelto in occasione della contestazione rivolta al giornalista David Parenzo. Secondo la rettrice Antonella Polimeni “i costi prodotti dai danni che sono stati generati da questa volontà distruttrice dovranno essere coperti a scapito delle altre attività e azioni particolarmente utili e richieste con urgenza da varie componenti della nostra comunità, a partire da quella studentesca”. Un po’ quel che si è visto anche a Padova, dove i vertici dell’università hanno dovuto subire settimane di occupazione a Palazzo Bo, sede centrale dell’Università risalente al 1400. Alla fine la conta dei danni è salita a circa 110 mila euro, per fortuna non intaccando il patrimonio storico o architettonico di proprietà dell’ateneo quanto più che altro l’accesso al Museo ospitato nel Palazzo. Il che ha comportato mancati incassi.
Fin qui i dati certi. Perché in tutti gli altri casi si tratta di conti che si stanno ancora portando avanti, calcolatrice alla mano, a opera delle diverse strutture amministrative che supportano il lavoro dei rettorati. All’Università Statale di Milano, per esempio, fonti interne parlano di “danni ingenti” che è difficile possano raggiungere i costi della Sapienza, ma che potrebbero avvicinarsi ai circa 100 mila euro spesi a Padova. Questo anche perché nelle settimane di occupazione, che si è conclusa il 28 maggio dopo richiesta esplicita del Senato accademico, è stato impedito di svolgere l’open day che avrebbe richiamato oltre 5 mila potenziali studenti da tutta Italia e dall’estero. All’Università di Torino l’atteggiamento prudenziale (per non dire ospitale) del rettore Stefano Geuna ha fatto sì che l’occupazione sia ancora in atto. Eppure, forse conscio del dover mettere mano al portafogli, lo stesso rettore ha reso noto, in una mail interna, di aver intrapreso “opportune verifiche e rilevazioni in corso per stabilire la natura e l’entità delle conseguenze dell’occupazione”. Spingendosi persino a dichiarare che “sono stati attivati tutti gli atti necessari, in tutte le sedi, al fine di tutelare l’ateneo e la sua immagine pubblica”. In sostanza un modo per minacciare le vie legali, qualora l’importo, come viene ritenuto plausibile da fonti interne all’ateneo, superi i 50 mila euro di danni.
Anche a Pavia il rettore si starebbe attivando per quantificare l’occupazione degli spazi sotto al rettorato, ospitato in una struttura del XV secolo. Sebbene conservi un dialogo continuo con i manifestanti, che non hanno ecceduto nelle rimostranze. Mentre a Bologna il rettore dell’Alma Mater Giovanni Molari, già oggetto delle proteste dei collettivi nel corso degli ultimi mesi, ha scelto di tenere un basso profilo e per adesso non vuole mettere sul tavolo la questione.
Il mezzo milione di euro, quindi, per adesso è una stima prudenziale. E in ambiti universitari viene visto come uno scoglio non da poco, visto che come ha spiegato proprio la rettrice Polimeni, quelle sono risorse che dovranno essere distratte per esempio dall’organizzazione della didattica. In più, visto quanto gli atenei hanno insistito sull’autonomia universitaria, rivendicata dalla stessa presidente della Conferenza dei rettori (Crui) Giovanna Iannantuoni, è improbabile che possano rivolgersi al Ministero per battere cassa. Insomma dovranno fare da sé, arrangiandosi. Ma questo a chi si è accampato credendo di essere completamente immune a qualsiasi danneggiamento del patrimonio pubblico, evidentemente non deve importare nulla.