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Se l’Educazione civica a scuola si riduce a un inutile prescrittivismo etico

Giovanni Belardelli

La formazione del buon cittadino con lezioncine catechistiche e la mera esaltazione retorica dei valori, anche quelli costituzionali, non basta. Sono lo studio e l’apprendimento critico in quanto tali ad avere un valore intrinsecamente etico, a favorire il formarsi nei giovani di civismo e di senso della legalità

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Con una legge votata da tutti i partiti, e in un clima di generale consenso, due anni fa è stata introdotta nelle scuole l’Educazione civica. Era del resto da tempo che si chiedeva al corpo docente di promuovere nei giovani il senso civico, il rispetto della legalità, la condivisione dei valori fondamentali di cittadinanza. Tutto bene dunque? Non direi, se leggiamo ciò che il legislatore pretenderebbe (in sole 33 ore annue) dall’insegnante; o meglio da vari insegnanti, poiché l’Educazione civica è vero che ha ora per la prima volta un voto, ma non ha un suo docente titolare essendo un “insegnamento trasversale” a tutte le materie. Dunque, in generale si chiede che l’educazione civica fornisca agli studenti “la conoscenza e la comprensione delle strutture e dei profili sociali, economici, giuridici, civici e ambientali della società”. Più in concreto (si fa per dire) viene fornito un pletorico e scombiccherato elenco di cose diversissime, che è impossibile citare per intero.

 

Si va dalla conoscenza della Costituzione fin dalla scuola dell’infanzia (cioè fra i tre e i cinque anni!) alla “educazione ambientale” e alla “tutela delle eccellenze agroalimentari”, dagli “elementi fondamentali di diritto” alla “educazione alla salute e al benessere”, dalla “educazione stradale” alla “educazione alla legalità e al contrasto delle mafie” (sì, proprio il “contrasto”, qualunque cosa voglia dire). Potremmo andare avanti per un bel po’ ma già questi esempi mostrano un irrealistico titanismo pedagogico, al quale non sono del resto nuovi i nostri esperti ministeriali, adusi a indicazioni mirabolanti, farraginose, incomprensibili. Il velleitarismo che permea queste indicazioni è ben riassunto dalla ulteriore pretesa che l’educazione “alla cittadinanza digitale” – parte dell’educazione civica – debba dare agli studenti (cioè a ragazzi e ragazze che spesso, ahinoi, hanno difficoltà a leggere un testo di poche pagine e a scrivere in un corretto italiano) anche la capacità di “partecipare al dibattito pubblico”. 

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Chi non avesse chiaro in cosa debba effettivamente consistere la nuova Educazione civica potrebbe ricorrere alle linee guida pubblicate dal ministero, tuttavia con poco costrutto. L’elenco delle competenze che si vorrebbero acquisite al termine del primo ciclo di istruzione (cioè alla fine della media inferiore) è anche qui stupefacente: va infatti dalla conoscenza della dichiarazione universale dei diritti umani all’essere “consapevole dei rischi della rete e come riuscire a individuarli” (lo so, manca la preposizione “di”, ma così hanno scritto al ministero dell’Istruzione). Quest’ultima cosa, per la verità, individua una volta tanto un obiettivo chiaro e importante, che tuttavia rischia di perdersi nel mare delle mille indicazioni fornite agli insegnanti. Per quanto concerne la centralità assegnata alla Costituzione, non convince affatto il modo in cui è formulata.

 

Ai nostri esperti ministeriali, infatti, interessa poco uno studio della Costituzione in quanto insieme di norme e criteri che regolano il funzionamento di una democrazia (che pure sarebbe cosa assai rilevante visto che si parla costantemente di abbassare l’età del voto). Ciò che a loro soprattutto importa, invece, è che la Carta venga assunta come “un codice chiaro e organico di valenza culturale e pedagogica”, come recitano le suddette linee guida. Siamo dunque nell’alveo di quella retorica esaltazione della Costituzione “più bella del mondo” che è spesso presente nel nostro dibattito pubblico. Si tratta di una rappresentazione della nostra carta fondamentale che la separa integralmente dal contesto storico in cui fu redatta, e dai necessari compromessi che allora si resero necessari, per farne una sorta di totem immutabile. Implicitamente gli insegnanti ne saranno sollecitati a prodursi in vacue esaltazioni dei valori costituzionali, invece di spiegare, che so, come la debolezza (e dunque l’instabilità) dei governi repubblicani siano dipese e tuttora dipendano da norme della Carta che risentirono del timore dei costituenti che potesse ripetersi un’esperienza autoritaria come quella dalla quale il paese era appena uscito nel 1945. 

 

È probabile che, come avviene per altre indicazioni ministeriali, anche quelle sull’Educazione civica siano poco applicate (e del resto sembrano in gran parte inapplicabili). La cosa più grave è però che comunque esemplificano e confermano un mutamento nell’idea di istruzione che è in atto da decenni, fondato sul passaggio da una scuola incentrata sulla cultura, e dunque sull’apprendimento, a un’altra basata sulla formazione del buon cittadino attraverso un esplicito prescrittivismo etico. Come se non si pensasse più – e in effetti non si pensa più da tempo nelle stanze del ministero dell’Istruzione – che è di per sé il contatto con la cultura, sono lo studio e l’apprendimento critico in quanto tali ad avere un valore intrinsecamente etico, a favorire il formarsi nei giovani di civismo e di senso della legalità.

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Lo ha scritto bene Claudio Giunta in un libro recente (“Ma se io volessi diventare una fascista intelligente?”, Rizzoli): ormai, anche da parte di certi docenti, si ragiona “come se insegnare bene Italiano, Matematica, Storia, Fisica, Geografia, il curriculum tradizionale insomma (con le giuste addizioni: inglese, informatica) non fosse veramente il modo migliore per formare dei ragazzi intelligenti e consapevoli; come se per insegnare a essere civili ci fosse bisogno di creare la materia “civiltà””. Ma è precisamente questo che si vorrebbe oggi secondo le indicazioni ministeriali sull’Educazione civica, che sembrano condannate a risolversi al massimo in qualche catechistica lezioncina sulla Costituzione, sull’ambiente, sul valore dell’accoglienza e così via: cioè in una serie di perorazioni, sollecitazioni, prediche inflitte agli studenti, che tutt’al più potranno ripeterle tali e quali, pappagallescamente, come è destino da sempre per tutte le prescrizioni catechistiche. 


 

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