Vignetta di Makkox

Il leccio e la quercia

Guardare alle piante per ritrovare tracce dell'umanità disorientata

Antonio Pascale

Il nostro dilemma. Dobbiamo imparare a sentire l’ambiente circostante, come fanno le piante. E dobbiamo rifiutare la retorica dell’Apocalisse: è  troppo mitologica per essere credibile

L’anno scorso, di questi tempi, durante il lockdown, dalla finestra di casa ho cominciato a osservare con una certa ossessione le piante. Non che prima mi fossero indifferenti. A parte un paio di esami di Botanica, di cui uno andò malissimo, per il lavoro che faccio (al ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali) hai voglia di piante. Ci sono salito sopra un sacco di volte e non solo per divertimento infantile o per prendere frutta. Dovendo stimare i danni prodotti dalle calamità, ci sono salito, dicevo, per cercare un buon punto di osservazione, e funziona sempre. Cambiare il punto di vista, dico. Comunque, dall’anno scorso ho cominciato a guardare le piante in maniera maniacale, poi sì, c’erano alcuni elementi sia romantici sia elegiaci: la fioritura del ciliegio, per esempio, mentre era tutto fermo e la conta dei contagi e dei decessi era molto pesante. Ma ho preso a sospettare che le piante contenessero dei segreti che una volta svelati avrebbero reso il nostro passaggio sulla terra più produttivo, come se potessimo contare su di loro per una buona interpretazione del mondo

Dunque, prima mi sono fissato con i simboli. Le piante sono fonte di simboli vari, il ciliegio è l’amore, il fico il desiderio, il cactus la resistenza, il pino l’immortalità, e puoi andare avanti tanto tempo su questa linea, e dunque ci sono sentimenti e accadimenti che riguardano tutti noi (certi sogni, certe scelte, certi traumi, certi amori), e alcune delle riflessioni (come siamo arrivati fin qui e quali sono le ragioni che rendono la vita degna di essere vissuta) che prima o poi ci troviamo a fare. 

Ebbene, nella mia osservazione maniacale mi andavo convincendo, almeno all’inizio, che proprio queste riflessioni, questi sentimenti e accadimenti sono legati (simbolicamente e no) alle piante: sì, viviamo (anche) per merito delle piante. Poi ho cambiato strada, ho preso una perpendicolare. Se vivremo più a lungo possibile – mi sono detto – sarà per merito delle piante, se qualcosa vivrà dopo di noi saranno le piante, e infine così ragionando, viottolo dopo stradina, sono arrivato alla conclusione: magari la forma di vita migliore è proprio quella botanica, vegetale, priva di coscienza, almeno di quella che tendiamo a chiamare coscienza.  

Allora, per farla breve, l’anno scorso, di questi tempi, durante il lockdown, fatti salvi i simboli e le altre rime, ho desiderato essere una pianta, trasformarmi, come nei miti greci, e vivere così. Non so, forse, questione di accumulo. Troppi fatti nuovi: metti la parola di nuovo conio e cioè infodemia, che sottolineava il crescendo esponenziale di informazioni che non sapevamo vagliare, che tra l’altro, mi sembrava eccessivamente simbolico nonché paralizzante, e lo stress conseguente, e considerata anche la nostra coscienza, di cui tanto ci vantiamo e sulla quale si sono avviate da tempo immemorabile varie speculazioni, alcune veramente inutili, come quelle intorno all’Essere e al Tempo, altre più utili. E tuttavia, a parte le questioni utili e inutili, pensavo, durante quel lockdown, che noi umani stiamo facendo danni e ci danneggiamo a causa della nostra coscienza: paghiamo questo duro prezzo: come è bello riflettere, ma che stress, e pesantezza. E che falsità che ne vengono fuori.


Siccome la quercia, simbolicamente, esprime forza, mi è venuta alla mente una questione: noi sapiens siamo forti come la quercia o subiamo la maledizione della forza, espressa dal leccio? Detto in modo più semplice: siamo il problema o la soluzione?


Dovremmo essere come le piante, meglio sì, con una nuova forma di coscienza, ancora tutta da studiare. Voglio dire, lo so, l’immagine che Freud con la sua sapienza narrativa ha espresso un secolo fa, è potente. Quella che raffigura la nostra mente come un iceberg, e dunque l’io, diciamo così, è solo quella minima parte che vediamo, ma sotto, eh, sotto è tutta un’altra storia, un mistero da indagare, che ci sarà sotto? E via con le storie, in genere a tre atti, che tracciano archi narrativi che prevedono un personaggio capace di immergersi e tirare fuori la verità da quella parte nascosta, come appunto se ci fosse un vero io, sotto. Che chissà perché è stato coperto e dobbiamo liberare, in nome dell’autenticità. Ecco, questa immagine di sicuro è fonte di equivoci: produce storie di un certo tipo, storie forti.

Però, dai, dove sta questo omuncolo vero e nudo che chissà cosa ha occultato? Dove è posizionato, in quale lato dell’iceberg? Magari non siamo così, niente omuncoli veri e nudi nascosti. 

Assomigliamo più a una chiatta che galleggia sul mare. La chiatta è la nostra mente, che è appunto piatta, come la chiatta. Solo che noi, autorappresentandoci, trasportati dalle onde, ne vediamo solo un pezzo. Ci sembra che chissà quale mistero si nasconda dall’altra parte. Poi basta attendere per vedere l’altro verso. Questa mente piatta galleggia, sballottata dagli eventi, e cerca un riparo dai marosi, inventando storie che confermano che sì, stiamo a galla e stiamo bene, oppure, nel caso imbarcassimo acqua che no, stiamo affondando, ma se ce la mettiamo tutta, se cambiamo, se troviamo il nostro vero io, più autentico ecc., vedrai che ce la facciamo. 

Alla fine, sempre la stessa storia, automotivazione, come i video postati sui social. Che poi trattasi in genere di una confabulazione tra noi e noi, cerchiamo semplicemente la pezza che nasconda il buco o il secchio che ci liberi dall’acqua in eccesso. Quindi concetti altisonanti, come Essere chissà cosa, ecco, quelli non dovrebbero meritare trattazioni troppo lunghe, né toni mistici.

E invece confabuliamo e poi proponiamo le pezze con grande enfasi: tutta colpa dell’idea che abbiamo della coscienza. E quindi, durante il lockdown, sarà stata la prigionia, la infodemia, lo stress conseguente, ho desiderato essere una pianta, quindi ridurre al minimo la coscienza, di modo che non si avviluppasse in ragionamenti, fonte essi stessi di sofferenza. 

E invece. Gli accadimenti hanno preso un’altra piega. Diciamo che me ne stavo in questo stato beato, di coscienza minima, a osservare le piante, che assorbono e restituiscono, cercando come un monaco che pratica esercizi di diventare una pianta, e secondo me c’ero quasi riuscito, quando – e vai a sapere perché – l’occhio mi è caduto su una quercia e poi subito dopo su un leccio. E niente, la vecchia e tipica e banale coscienza è tornata in superficie, prepotente. 
Per farla breve, siccome la quercia, simbolicamente, esprime forza, mi è venuta alla mente una questione: noi sapiens siamo forti come la quercia o subiamo la maledizione della forza, espressa dal leccio? Detto in modo più semplice: siamo il problema o la soluzione?


Da una parte ci avviciniamo al simbolismo del leccio e ci accusiamo  di danneggiare il creato, dall’altro vogliamo un mondo migliore, più bello, più forte, un mondo con le braccia aperte sotto il sole, come le querce. Un mondo in cui otto  miliardi di persone abbiano la loro quota di benessere


Di volta in volta, le querce hanno assunto vari significati simbolici, ma quello della forza è il più appropriato. In fondo si dice forte come una quercia. Prendi il Quercus robur, cioè la farnia, con le sue foglie lobate, cinque per ogni lato, facile da riconoscere, è da sempre, appunto, simbolo di forza, dal latino robur, forte: da quando gli uomini hanno lavorato il ferro e creato strumenti da taglio, ecco, da allora hanno avuto problemi con quelle querce, perché non sono facili da abbattere.

Oppure, maestoso come una quercia, tanto è vero che molti degli alberi monumentali, chiamati patriarchi, sono delle querce. Il farnetto per esempio è davvero maestoso, perfetto per i parchi, il classico colpo d’occhio. E se vai sul versante ionico della Sila ci sono dei veri e propri boschi di farnetto. Si dice anche aristocratico come una quercia. Molti rami araldici hanno come simbolo la quercia, come quello della famiglia della Rovere con i suoi papi, Sisto V e Giulio II.
Ci sono anche querce colorate, la scarlatta, per esempio la Quercus coccinea, le cui foglie, negli autunni asciutti, diventano, appunto scarlatte, ma lentamente, ramo dopo ramo. Sappiamo che la quercia è diffusa ovunque. Se non conosciamo gli alberi e vediamo una pianta solitaria in mezzo alla campagna, vicino a una casa colonica, ai bordi dei campi, ci possiamo buttare a indovinare: è una quercia. Non sbagliamo nel 90 per cento dei casi, anche perché la quercia se ne sta lì a braccia aperte sotto il sole, lo sa, ama la luce, spesso non tollera l’ombra. 

Ok, poi c’è il leccio. Diciamo così, un cugino della quercia, che nella sostanza ha un habitus funereo. Sulla pianta grava un peccato originale: ha fornito il legno per la croce di Cristo. Una leggenda delle isole ioniche racconta di una riunione degli alberi. Tutti impegnati a non offrire il proprio legno per la croce di Cristo: infatti fecero esplodere in mille schegge i propri tronchi pur di tenere fede all’impegno: solo il leccio offrì il legno. I vecchi raccontano che i Greci dell’Acarnania, avevano paura di contaminare le proprie asce toccando l’albero maledetto: simbolo di Giuda. Dunque, un bosco di lecci non evoca immagini solari, al massimo ci puoi trovare all’interno oracoli impegnati a elaborare presagi sinistri

Lo so che abbiamo una mente piatta e non c’è un vero sé nascosto pronto a uscire, lo so che mi ero proposto di sintonizzarmi sulla minima attività fisiologica delle piante, ma niente da fare, la questione ha cominciato a ossessionarmi: noi sapiens siamo il problema o la soluzione? Siamo lecci o querce?
Da una parte ci avviciniamo al simbolismo del leccio e ci accusiamo continuamente di danneggiare il creato, dall’altro vogliamo un mondo migliore, più bello, più forte, un mondo con le braccia aperte sotto il sole, come le querce: capite il dilemma?

Un mondo in cui otto – e fra poco dieci – miliardi di cittadini abbiano la loro quota di benessere, un arco di pace che copra e protegga più generazioni, cibo in abbondanza, consumi, viaggi. Ecco, è questo il dilemma quercia vs leccio. Perché questo mondo, in parte, lo abbiamo ottenuto, l’aspettativa di vita è alta in quasi tutto il mondo (semmai c’è un problema di invecchiamento della popolazione), la mortalità infantile ha cifre bassissime (tranne in alcune aree povere del pianeta), la mortalità delle donne per parto è bassissima (tranne in alcuni stati africani e in alcune regioni del pianeta molto povere), su otto miliardi di persone, gli affamati sono 800 milioni, riusciamo a produrre di più con meno risorse, viviamo in un’epoca di pace e le diseguaglianze sono alte all’interno di alcuni stati, ma tra gli stati sono più basse (segno forse di una distribuzione di ricchezza). 


Mai che affrontiamo di petto il problema: tutta questa preoccupazione occidentale non basta, perché l’occidente ha meno di due miliardi di persone ed è in decrescita, invecchia, e l’altra parte del mondo è quella che conta


Altri esempi corrispondenti e rafforzativi. Nel recente passato, i nostri nonni e i nostri padri hanno visto bambini con la mascella serrata causa tossine del tetano, neonati che abbaiavano invece di tossire, causa pertosse. Altri con gambe contorte e rinsecchite per colpa della poliomielite e ancora una lunga lista di malattie contro le quali in genere si accendevano ceri alla Madonna. Più facilmente si versavano dolorosi quanto inutili fiumi di lacrime. Allora, i nostri nonni e i nostri padri hanno sperato che la medicina trovasse una soluzione. E infatti. Possiamo dire che almeno i problemi di cui sopra, non li vediamo più: con i vaccini li abbiamo esclusi dalla litania del male. E i vaccini (e gli antibiotici e l’alimentazione del Ventesimo secolo) hanno migliorato tanto il mondo e fanno crescere i nostri figli in salute.
 

E allora, quando anni fa parlavano della Population Bomb, preoccupandoci e prospettando apocalisse e morte per fame, raccontavano senza saperlo l’elenco dei progressi del mondo. Che noi occidentali abbiamo senz’altro visto. Tant’è vero che al benessere è associato l’ecologismo. Solo i ricchi diventano ecologisti. I poveri non hanno né il tempo né lo spazio adatto. Comunque, per rimanere sulla questione. Stiamo assistendo alla seconda ondata demografica, i responsabili, si fa per dire, sono i pochi paesi africani e asiatici rimasti poveri.

Soluzione? Dovremmo abbassare quel tasso di natalità e lo stiamo già facendo, ma a parte che si arriverà a dieci miliardi, a parte questo, per abbassare quel tasso nei paesi ancora poveri e migliorare quella parte del mondo che non se la passa ancora bene, devono diventare tutti più ricchi. Quindi, più consumi, più fabbriche, agricoltura migliore, energia nuova, pulita, cose che costano, richiedono investimenti, e tra l’altro le transizioni energetiche non sono velocissime – anzi, a tutt’oggi per fare energia pulita, utilizziamo ancora fonti fossili.
Qua, nell’occidente cool, ci limitiamo a comuni riflessioni, come: i piccoli gesti possono cambiare il mondo (ma sarà vero?). Ci limitiamo alla protezione del nostro ristretto habitat e da una parte pretendiamo sia resistente come una quercia, dall’altra ci togliamo lo sfizio di dire: siamo i distruttori del pianeta, perché come il leccio portiamo lo stigma del peccato originale.

Invece, dovremmo allargare l’obiettivo, cambiare il punto di vista. Lo so, è un dilemma, ci vuole energia per affrontare la questione. E dire che desideravo essere quasi insensibile, appunto, piatto, e invece è un anno – metti pandemia, isolamento, problemi pratici, voglia di vivere e tornare alle adunate in spiaggia, alla Milano da bere, altro che coscienza minima – che mi trovo come tutti a oscillare, continuamente. 

Ci prendiamo la luce, sulla vetta dell’iceberg e ci battiamo i pugni sul petto come un gorilla, vogliamo vivere in eterno, siamo post human, costruiamo tutorial autocelebrativi, elenchiamo i 10, 100, 1.000 posti da vedere nel mondo, scriviamo poesia sulla bellezza della vita, sì, però diciamo vogliamo vivere ma attenzione alle premesse. Vivere certo, ma in maniera sostenibile. Vivere, ovvio, senza superare i limiti. Ci dobbiamo mettere a dieta, come no, ci inventiamo metafore virtuosistiche sulla termodinamica, e poi, affranti per troppa energia e pensieri, scendiamo dalla quercia e andiamo al buio, sotto l’acqua o sotto le fronde del leccio, in penitenza e ne usciamo incupiti, ma giusto un attimo, il tempo di scrivere un pezzo su come siamo ridotti, sull’apocalisse che, guarda, stavolta anticipa e arriva all’ora di cena. Magari il tutto condito nei convegni con spruzzate e citazioni da Giorgio Agamben. Qui, nel nostro spazio riservato e protetto, per farci belli e diventare incomprensibili ma cool, pronunciamo parole che dovrebbero scuotere gli animi e far presagire l’infinito, come indicibile, o turbocapitalismo o ultra qualcosa, e poi ci lagniamo del nuovo ordine mondiale nelle tv, ben pagati, contrattualizzati a dovere, perché ogni accenno romantico paga, ogni litigata giornaliera pure, per non parlare della spada della giustizia che qualcuno brandisce, hai voglia. E poi via, ricominciamo a vivere. E mai che affrontiamo di petto il problema: tutta questa preoccupazione occidentale non basta, perché l’occidente ha meno di due miliardi di persone ed è in decrescita, invecchia, e l’altra parte del mondo è quella che conta. Da quella parte, appunto, vogliono migliorare e consumare, e per disinnescare la bomba demografica, proclamare a pieni polmoni l’ecologismo e dire anche loro qualcosa sull’indicibile e il turbocapitalismo, devono diventare perlomeno benestanti. Come si fa?

Quindi, se siamo il problema e insomma apparteniamo all’habitus funero del leccio, poche storie e non perdiamo tempo, abbassiamo il tasso di natalità al di sotto dell’indice di sostituzione (come in Italia e in Spagna), smettiamo di far figli e quindi lentamente ce ne andiamo, una scusa la troviamo per far calare il numero di nuovi nati. 

Il mondo senza di noi diventerà più bello, comunque, chissà, comunque, noi no non ci saremo, come dice la canzone. Tanto nulla è eterno no? Non lo sono io, né voi, nemmeno il Foglio, la Terra, il sistema solare, neppure l’universo lo è. Smettiamo, e nel giro di qualche anno il pianeta sarà salvo: come dire il leccio ce l’aveva già detto, abbiamo peccato, dobbiamo scontare. Poi se l’apocalisse è vicina, a maggior ragione, godiamoci la vita, tanto, appunto, nulla è eterno, cogli l’attimo ecc.


Meglio osservare le cose con distacco. Distaccarsi dai fanatici della salute e della forza, dall’idea dell’amore romantico, dall’idea di immortalità, dall’idea di perfezione, dai punti di vista ordinari


 E se, al contrario, volessimo vivere al meglio i nostri giorni, collaborando e aiutandoci, sostenendoci? Cioè, diciamo, siamo forti e troveremo la soluzione. Però, sono otto miliardi di persone che vogliono vivere e dai, per quanto desideriamo essere sostenibili, resilienti, l’impronta ecologica, i prossimi dieci miliardi di persone che calpestano la terra, quella si sente eccome. Forse siamo il problema e la soluzione insieme e forse il dilemma si può affrontare con minori oscillazioni. Meno quercia e meno leccio, con quelle loro esagerazioni iperboliche, più stati intermedi, insomma, meno coscienza abitudinaria, meno metafore, più piattezza. Non siamo così speciali e si vede dal modo in cui raccontiamo le storie.  Non siamo abituati alle analisi, facciamo fatica, vogliamo dire la nostra, gridare che abbiamo capito tutto quando invece desideriamo ottenere il nostro posto nel mondo, fosse su una quercia o su un leccio, la forza e la maledizione della forza, basta che sia ben illuminato e profumato.

Non ne usciremo più dal dilemma. Però dobbiamo imparare a sentire l’ambiente circostante, proprio come fanno le piante, con una saggezza atavica, un adattamento perfetto, una collaborazione tra le parti incantevole ma silenziosa e tuttavia visibile, fotosintesi, acqua e ossigeno, amidi e poi gemme, fiori, frutti, insetti, disseminazione, nuovo ciclo. Come le piante farci carico del tempo e del caos, analizzare il tutto senza la pretesa di controllare tutto. 

Raccontare storie senza oscillazioni, quello soprattutto può migliorare il mondo, perché abitua i sapiens a una più corretta rappresentazione del mondo stesso, per non parlare dell’interpretazione. Rifiutare la retorica dell’Apocalisse: è troppo mitologica e biblica per essere credibile, e poi promuove assuefazione: la casa brucia, me ne scappo, non la spengo. Rifiutare le promozioni continue dell’io, dell’avventuroso e potente ricercatore che scova chissà che. Al suo posto provare ad arrendersi al caos, trovare i necessari adattamenti e compromessi, piegarsi sulle ginocchia per meglio ascoltare, senza credere di essere padroni della verità, perché a te è sembrano in quel modo, e dunque, al massimo, mantieni per te il pezzetto della tua verità. Tanto servirà soltanto a te. 

Forse è necessario distaccarci. Questo ho pensato durante l’anno in corso, anche se non è chiaro tutto il processo, che prevedo lungo e faticoso, però importante Certo, i distacchi ci fanno paura. Richiamano l’idea di morte e di perdita. Ma i distacchi almeno per chi, come me, è fissato per le piante, non sono poi così disastrosi. Le foglie si distaccano e preparano e influenzano un nuovo ciclo, i fiori portano ai frutti e i frutti distaccati disperdono i semi. Sì, meglio osservare le cose con distacco. Distaccarsi dalle solite storie, l’apocalisse prossima e l’indicibile, i pensosi e vacui cantori del mondo, dal potere, dal ricatto di dire la propria perché quello che dico penso e perché c’è un me più autentico nascosto che vi parla. Distaccarsi dai fanatici della salute e della forza, dall’idea dell’amore romantico, dall’idea di immortalità, dall’idea di perfezione, dai punti di vista ordinari. Distaccarsi finanche dal concetto di umano: ovvio, per il bene dell’umanità.

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