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Il terrore dei grandi scienziati, portati sull’orlo della follia dalle loro teorie

Guido De Franceschi

 “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” di labatut

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Nell’epoca in cui torme di cialtroni rovistano nell’Internet alla ricerca di materiali di scarto da impastare con il chewing gum, per poi edificarci teorie che provano a erodere la credibilità della scienza, noi che alla scienza invece crediamo pur senza capirci nulla, noi che la scienza vogliamo delegarla, appunto, agli scienziati, perché non vogliamo incialtronirci a nostra volta, cercando su Wikipedia risposte che non sapremmo comunque mai comprendere, ecco noi possiamo ora trovare grande conforto e profondo sconforto in “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” di Benjamín Labatut (Adelphi, 180 pagine, 18 euro, traduzione di Lisa Topi).

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Nell’epoca in cui torme di cialtroni rovistano nell’Internet alla ricerca di materiali di scarto da impastare con il chewing gum, per poi edificarci teorie che provano a erodere la credibilità della scienza, noi che alla scienza invece crediamo pur senza capirci nulla, noi che la scienza vogliamo delegarla, appunto, agli scienziati, perché non vogliamo incialtronirci a nostra volta, cercando su Wikipedia risposte che non sapremmo comunque mai comprendere, ecco noi possiamo ora trovare grande conforto e profondo sconforto in “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” di Benjamín Labatut (Adelphi, 180 pagine, 18 euro, traduzione di Lisa Topi).

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È un libro molto strano e molto bello che arriva dal Cile diffondendo il suo inebriante profumo sebaldiano. Una raccolta di saggi scientifici intrisi di elementi romanzeschi? O un romanzo che cuce insieme le storie vere di alcuni scienziati? Forse non è nessuna di queste due cose, ma in ogni caso non importa un granché.

    

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Il cuore del racconto di Labatut pulsa tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale e si diffonde poi più in qui, lungo i rivoli della fisica e della matematica che hanno messo in crisi molti scienziati, da Fritz Haber a Werner Karl Heisenberg, da Karl Schwarzschild ad Alexander Grothendieck (con la speciale partecipazione di Albert Einstein e Niels Bohr).

    

Sono uomini schiacciati, terrorizzati e, chi più chi meno, portati sull’orlo e oltre l’orlo della follia dalle proprie teorie, la cui comprensione sfuggiva persino a loro, come la meccanica quantistica (“sappiamo come usarla, funziona per una sorta di miracolo, e tuttavia su questo pianeta non c’è anima, viva o morta, che la capisca veramente”), e le cui ricadute potevano essere letali in senso proprio (lo Zyklon B) o in senso più filosofico (“era la matematica – non le bombe atomiche, i computer, la guerra biologica o l’apocalisse climatica – che stava cambiando il nostro mondo, al punto che, nel giro di vent’anni al massimo, non saremmo più stati capaci di capire che cosa significa essere umani”).

    

Nel suo splendido “Leggere la terra e il cielo” (Laterza), Francesco Guglieri ci ha spiegato come secondo lui alcuni libri di scienza (specie quelli di cui non si capisce tutto, specie quelli di cui non si capisce quasi niente) – se soltanto questi libri hanno la capacità di aprire davanti a noi i battenti del meraviglioso scientifico e di portarci sul limite di un precipizio in fondo al quale c’è un’emozione che ci sforziamo di fissare anche se non riusciamo però a reggerne la vista – c’entrino qualcosa con l’esperienza del sublime.

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È quel sublime di cui parlavano i greci, quello intorno a cui si aggirava il celebre “Trattato”, attribuito allo Pseudo Longino o all’Anonimo detto, appunto, “del Sublime”. Il sublime, scrive Guglieri, “è qualcosa che ci strappa dalla dimensione quotidiana, dal solito modo di vedere le cose, di pensare il rapporto tra noi e il mondo, dall’abitudine di misurare tutto secondo il nostro piccolo metro. Ma sublime è anche ciò che ci spaventa, che ci sovrasta. È l’informe, lo smisurato, il rischio estremo, lo spettro dell’estinzione. Il sublime è un particolare impasto di terrore e rassicurazione, di perdita e di riconquista”.

  

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In effetti, in “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” noi che invece il mondo non abbiamo mai iniziato a capirlo possiamo intuire cose che ci spaventano e ci sovrastano e intravediamo rischi estremi e lo spettro dell’estinzione. Ma noi, per fortuna, non abbiamo la minima tentazione di capire le teorie che neppure i loro creatori riuscivano davvero a maneggiare. Che tanto, poi, la follia di questi scienziati forse non era una fondata conseguenza della paura creata dai loro stessi calcoli, ma era la paura a essere una conseguenza della loro follia.

     

Nel dubbio, del libro di Labatut a noi rimane allora l’altra parte del sublime, la bellezza di una scrittura precisa ma sonnambula, la capacità di raccontare con scrupolo la costruzione di verità fisiche e matematiche dando loro il profilo sfuggente di una creatura di sabbia o di un sogno (un incubo?) in prossimità dell’alba. Questo, che è la letteratura, ci rassicura. E questo, che è il piacere di leggere, ci riconquista.
    

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