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La  ricerca di nuove strade

Fino a quando può resistere una società imprigionata dal virus?

Gilberto Corbellini e Alberto Mingardi

Bisogna trovare un equilibrio tra salute e libertà. Non bastano le ninfee di Luca Ricolfi per spiegare un fenomeno molto complesso. La metafora delle automobili e degli incidenti stradali

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La pandemia nella quale siamo immersi ha catalizzato la discussione su come provare a gestirla, con visioni del mondo molto diverse: fra “esperti” (epidemiologi, immunologi, esperti di salute pubblica, virologi) e, in parte almeno, scienziati sociali ed esponenti politici. A dispetto del fatto che viviamo in un mondo che dice di premiare la razionalità, il dibattito ha visto un ricorso costante ai bias cognitivi più banali. E’ come se, davanti a una minaccia non proprio nuova ma evidente, avessimo deciso di dimenticare ciò che abbiamo imparato, nella sostanza, nel corso degli scorsi duecento anni, usandolo semmai per razionalizzare intuizioni e istinti ben precedenti alle grandi scoperte riguardanti il funzionamento del mondo biologico e la complessità dei fenomeni sociali.

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La pandemia nella quale siamo immersi ha catalizzato la discussione su come provare a gestirla, con visioni del mondo molto diverse: fra “esperti” (epidemiologi, immunologi, esperti di salute pubblica, virologi) e, in parte almeno, scienziati sociali ed esponenti politici. A dispetto del fatto che viviamo in un mondo che dice di premiare la razionalità, il dibattito ha visto un ricorso costante ai bias cognitivi più banali. E’ come se, davanti a una minaccia non proprio nuova ma evidente, avessimo deciso di dimenticare ciò che abbiamo imparato, nella sostanza, nel corso degli scorsi duecento anni, usandolo semmai per razionalizzare intuizioni e istinti ben precedenti alle grandi scoperte riguardanti il funzionamento del mondo biologico e la complessità dei fenomeni sociali.

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Da questi pregiudizi non sono stati immuni scienziati, accademici e data scientist. Anzi. Forse proprio la loro professione e la loro posizione nella società li ha aiutati ad autoingannarsi in modi formalmente più eleganti. Come spiegano due studiosi in un articolo su Frontiers in Public Health (24 novembre 2020), la pandemia di Covid-19 ha prodotto danni anche a causa di una concomitante “pandemia di bias cognitivi” che ha influenzato comportamenti individuali e scelte pubbliche, come la percezione del rischio, l’adesione alle misure protettive, l’uso di pregiudizi, l’eccesso di fiducia in quel che si sa (overconfidence), il bias della crescita esponenziale, etc.

 

   

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A questa deriva non si sottrae il libro di Luca Ricolfi. Ricolfi è stato ed è in trincea, in questa pandemia, e per il rilievo dei suoi interventi e per la ben meritata aura di autorevolezza che lo circonda, gli sono stati cuciti addosso i galloni di generale della brigata dei critici del governo. Il suo (“La notte delle ninfee. Come si malgoverna un’epidemia”, la Nave di Teseo) è uno dei pochi libri sulla pandemia che si legge con interesse, che non è una compilazione di cose risapute, che ha una tesi ed è scritto con prosa tersa e incalzante (“ricolfiana”). Nel dettaglio della cronaca di questi mesi, il saggio è ordinato e rigoroso: un’utilissima disamina che, come si dice con una frase fatta, in questo caso perfettamente aderente al personaggio, non fa sconti a nessuno. Ma si può essere bravissimi a sistemare un tassello di un puzzle senza accorgersi se il rompicapo, tutt’intero, raffiguri un panorama di campagna o un grattacielo. Il Ricolfi “micro” suscita tutto il nostro entusiasmo, il quadro generale che tratteggia ci pare invece inficiato da alcuni bias (da cui Ricolfi non sfugge, così come pure chi scrive e qualsiasi essere umano). Ci sembra poi che la sua campagna “anti-governativa” sia un caso esemplare di conseguenze inintenzionali: Ricolfi insiste su alcuni temi per impallinare la strategia del governo e, tuttavia, proprio quei temi e quelle sensibilità rafforzano, nell’opinione pubblica, la posizione del governo.

  

La tesi principale è semplice e, per tutti coloro che non amano Conte e i suoi, confortante: la seconda ondata di Covid-19 si poteva in Italia evitare, se solo si fossero riconosciuti alcuni segnali epidemiologici e adottate misure efficaci. Enunciato l’assunto di partenza che si intende provare, l’argomentazione si tiene però alla larga da ogni tentativo di sana falsificazione popperiana, mentre il ragionamento procede cercando conferme, appunto, in merito al fatto che la seconda ondata fosse prevedibile ed evitabile. Bastavano un lockdown rigido nei tempi dovuti e tamponi fatti a tappeto includendo i non sintomatici e tracciando contatti con procedure informatiche, ovvero con il mix di misure adottate da alcuni paesi asiatici che hanno avuto un carico inferiore di contagi e decessi. Questa prevenzione sarebbe stata fattibile se gli italiani avessero seguito rigorosamente le norme imposte dal governo e se la cultura diffusa fosse di tipo diverso: cioè meno “short-termista” e gaudente, e invece più ligia al rispetto delle regole scritte e non. In due paginette scarse, a metà libro, Ricolfi ribalta acrobaticamente tutto quello che ha sostenuto, rispetto all’epidemiologia del Covid-19, per dire che l’approccio svedese “forse è una buona idea”, se noi fossimo svedesi e non italiani, che al primo sole corrono in spiaggia e non rinunciano all’aperitivo (che pure gli svedesi non hanno disdegnato).

  

Purtroppo, nessuno può dimostrare che un lockdown anticipato avrebbe evitato la cosiddetta seconda ondata.

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Per quanto riguarda i tamponi da eseguire su asintomatici e il tracciamento elettronico, è fuori discussione che un sistema capillare di monitoraggio individuale di tutte le persone che entrano in contatto con un positivo consentirebbe di isolare un maggior numero di persone e quindi ridurre la trasmissione. Ma la domanda è: quanto è fattibile? Gli scettici hanno buon gioco nel segnalare che persino i tedeschi (che, a differenza nostra, hanno assunto migliaia di “tracciatori” per ricostruire, con delle care vecchie interviste, le catene del contagio) hanno dovuto mollare, raggiunta una certa soglia.  L’app Immuni è stata un fallimento e il sistema sanitario italiano ha già difficoltà a gestire i positivi. Molte attività si potrebbero mettere a gara e, soprattutto, dovrebbero essere oggetto dell’iniziativa dei governi locali. La pur flebile cultura federalista, che è poi la cultura delle differenze e delle soluzioni dal basso, deve molto a Ricolfi e al suo “Il sacco del Nord”.

 

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Spiace non trovarne traccia in questo libro: non ci sono spunti su come l’epidemia si combatta ritagliando con precisione le misure sui diversi territori: per cui forse il “tracing” nazionale è destinato a saltare, ma non necessariamente così le iniziative delle singole regioni, se gestite con intelligenza e parsimonia.

 

La visione dell’epidemia di Ricolfi è meccanicista e determinista, mentre la pandemia procede con una logica darwiniana. Esiste una matematica delle epidemie, che su grandi popolazioni consente di identificare le variabili sulle quali intervenire e stimare l’impatto: ma i primi modelli hanno fallito clamorosamente per overconfidence dei matematici. Gli infetti in una popolazione non crescono “meccanicamente” come le ninfee dello stagno che Ricolfi evoca nel titolo, anche solo per il fatto che a un certo punto il numero di suscettibili scende naturalmente al di sotto della soglia necessaria per mantenere la trasmissione. La crescita delle ninfee è un problema usato nel Cognitive Reflection Test per valutare la capacità di pensiero critico, ma il numero basico di riproduzione di un’infezione dipende, diversamente dal caso delle ninfee, dalla trasmissibilità (probabilità di infezione per contatto tra suscettibile e infetto), tasso medio di contatto tra suscettibili e infetti e durata dell’infettività (che dipende a sua volta da numerose variabili biologiche che evolvono per selezione naturale). Inoltre, un patogeno non può essere eradicato dalla popolazione umana, come le ninfee da uno stagno, attraverso interventi non farmacologici (nella storia umana solo il vaiolo è stato eradicato per motivi specifici). La metafora delle ninfee non coglie la complessità della pandemia e diffonde l’idea sbagliata che il controllo dipenda totalmente da scelte comportamentali umane.

 

E’ vero che spontaneamente fatichiamo a capire la funzione esponenziale, e bene ha fatto chi l’ha spiegata agli italiani, ma pure ragionare su modelli astrattamente validi senza indicarne i limiti può essere fuorviante. Un celebre statistico, George Box, soleva dire che “tutti i modelli sono falsi. Ma qualcuno è utile”. E aggiungeva che quello che conta è capire in che senso lo sono: “Non è appropriato occuparsi di topi se abbiamo a che fare con delle tigri”.

 

Chi abbia contratto il coronavirus o conosca persone che l’hanno preso sa bene che non sono rari i casi in cui, in famiglie che vivono sotto lo stesso tetto, la moglie s’ammala e il marito no o viceversa. Casi di persone apparentemente simili (stessa età, medesime circostanze ambientali, etc.) che hanno esiti molto diversi (per capire si studiano i gemelli identici che si sono ammalati in coppia e hanno avuto storie cliniche molto diverse). Se non c’è dubbio che all’intensificarsi dei contatti aumentino i contagi, è surreale ma necessario insistere, un anno dopo la comparsa di questo virus, che contatto non equivale automaticamente a contagio e che non tutti i contagi sono uguali.

 

  

Proprio per questa ragione, fare la manutenzione di una società di individui liberi non è come decidere quando ripulire lo stagno dalle ninfee per evitare che i pesci muoiano. La metafora non regge né dal punto di vista biologico né da quello delle scienze della società. I parassiti e i loro ospiti sono dotati di genomi dai quali dipendono la trasmissione, la durata e la gravità della malattia, l’efficacia dell’immunità acquisita da chi guarisce, etc. L’algebra sociale, a volte utilissima, funziona bene per descrivere il passato ma non ci dà garanzie sul futuro: in natura ci pensa la selezione naturale e nella società umana si prosegue per tentativi ed errori finché individui e gruppi, più o meno consapevolmente, non selezionano le regole che hanno funzionato meglio nel risolvere problemi analoghi. Le misure non farmacologiche sono antichi metodi di cui disponevano e che usavano i nostri antenati quando credevano che le infezioni si diffondessero attraverso miasmi. Nel contesto di società complesse e il cui funzionamento dipende da un’economia dove la libertà delle scelte risulta tanto più efficace nel soddisfare le persone quanto maggiori sono le informazioni che si possono raccogliere sui prezzi, è giustificato aspettarsi meno restrizioni e più elementi conoscitivi per fare scelte responsabili. Non c’è niente di eticamente riprovevole nel ricordarsi che viviamo in società così prospere proprio perché relativamente libere.

 

Ricolfi sembra pensare che le società umane siano dei sistemi fisici, e che una volta trovato magari il modo di risolvere un problema in un paese, le stesse misure siano esportabili ovunque alla sola condizione che si tratti di “società avanzate”. Verso la fine del libro però identifica delle differenze non da poco che spiegherebbero perché le cose sono andate diversamente in dieci società avanzate. Parliamo di quattro realtà in estremo oriente: Giappone, Corea del sud, Taiwan, Hong Kong; due nell’emisfero Sud: Australia e Nuova Zelanda; e quattro in Europa: Norvegia, Finlandia, Danimarca, Irlanda. In realtà l’Irlanda nelle settimane scorse ha sperimentato un numero significativo di casi e morti (una “seconda ondata”). Ricolfi ricorda che si tratta di paesi che sono “isole, penisole o fanno parte di una penisola”, per cui è più facile “limitare gli ingressi”. Limitare il movimento delle persone sarebbe una sorta di tabù ideologico (“europeista”) che noi in modo miope non accettiamo di mettere in discussione, in nome della sopravvivenza del gruppo. Inoltre, Ricolfi riconosce nei paesi nordeuropei la costante di una confessione religiosa protestante, “la cultura del lavoro ancora molto forte” (che egli contrappone a una “cultura del consumo”) e livelli di senso civico e fiducia sociale ai vertici nel mondo.

 

L’autore usa come maggiore argomento a favore delle sue tesi la coincidenza di esse con quelle di Andrea Crisanti. Crisanti è un microbiologo di statura internazionale che, nel recinto di Vo’ Euganeo (3300 abitanti), ha realizzato uno dei più importanti studi sul Covid-19. Lo studio argomenta l’esistenza del contagio asintomatico e il suo autore, pertanto, ha discusso con decisione le politiche di contenimento in tutto il mondo. Ma nemmeno due rondini tanto illustri fanno primavera nella scienza: servono sperimentazioni e un consenso che emerge dall’ampia discussione tra scienziati. E’ fattibile pantografare su un paese di 60 milioni di abitanti misure messe in atto per un borgo così piccolo? E’ come se tutto venisse ricondotto alla semplice volontà politica: a prescindere da ogni altro fattore.

 

La seconda tesi forte di Ricolfi, che riprende un altro suo saggio, è che l’Italia da tempo è una società signorile di massa, nella quale consumo, divertimento, socialità e autorealizzazione sono percepiti come diritti assoluti. Il prossimo passo è che l’Italia diventi una “società parassita di massa”, tenuta assieme dall’erogazione di “bonus” e “ristori”. Per questa ragione, il lockdown possiamo sopportarlo una volta, ma non oltre. Non ci è congeniale, e se ci viene imposto lo aggiriamo, anche di fronte a mille morti al giorno. Non c’è dubbio che il livello, fra i più alti al mondo, di letalità per il Covid rappresenti un dramma: che magari dovrebbe indurci anche a qualche riflessione critica sul nostro, amatissimo, servizio sanitario nazionale. Ma, per avere un minimo di prospettiva, occorre ricordare che ogni giorno in Italia muoiono circa mille persone per tumore o malattia-cardiovascolare. Come ricordò Alberto Zangrillo a prezzo della sua reputazione, i morti di Covid non sono i soli. Il fatto che tutta la sanità sia, almeno apparentemente, concentrata sulla pandemia è qualcosa di cui pagheremo il prezzo, in termini (nel breve) di mortalità in eccesso e (nel lungo) di peggioramento complessivo degli standard di vita.

 

“Forse dovremmo prendere atto”, scrive sempre Ricolfi, “che quando la cultura dei diritti si spinge oltre una certa soglia, un sistema sociale diventa fondamentalmente ingovernabile”. Ci sono prove del fatto che saranno sopra a una data soglia o che esista una soglia per la “cultura dei diritti” oltrepassata la quale una società diventa ingovernabile? Le persone in pratica mancherebbero di senso di responsabilità di fronte alla minaccia pandemica. Anche chi (come uno dei due autori di questo articolo) ha simpatia per l’argomento di Ricolfi, su un piano più generale, non può esimersi dal constatare che una cosa è il reddito di cittadinanza, altra il desiderio di uscire a cena con gli amici o di andare a trovare il fidanzato/la fidanzata fuori Regione. Se il contraltare alla proliferazione dei diritti più improbabili è considerare ogni diritto una pretesa eccessiva, inclusa la libertà di movimento, l’esito è ancora più paradossale di quello del “dirittismo” caro alle forze, politiche e intellettuali, prossime a questo governo. Esistono diritti (se non piace la parola usiamone un’altra: libertà) che, in società liberal-democratiche, si presuppone che il sovrano non forgi bensì “riconosca”: la libertà di parola, la proprietà del proprio corpo, la proprietà delle proprie cose, la libertà di movimento. Libertà di parola a parte, il lockdown di fatto sospende tutte le altre. Questo è un problema di “dirittismo”, o piuttosto di stato di diritto? Siamo davvero sicuri che la pandemia autorizzi i pubblici poteri non a dettarci regole temporanee, ma generalmente applicabili, per fare la nostra vita (sedete al ristorante a due metri di distanza, viaggiate in macchina solo fra appartenenti allo stesso nucleo familiare, mantenete una certa distanza sui mezzi pubblici, fatevi misurare la febbre prima di salire in treno o di entrare in un’aula universitaria), quanto invece a dirci che non siamo più proprietari della nostra seconda casa o che non abbiamo il diritto di muoverci sul territorio nazionale? A che servono la Costituzione, le norme, i “diritti” per l’appunto se basta un Dpcm  per sospenderli? Siamo davvero sicuri che questa prassi non avrà effetti drammatici, nel medio periodo, sulle libertà di cui godranno gli italiani che verranno dopo di noi?

 

Il libro di Ricolfi, come abbiamo detto, è scritto nell’intenzione di offrire un contraltare all’approccio del governo. Rischia di avere esattamente l’effetto contrario, rafforzandone la narrazione. Per due diverse ragioni. La prima è l’idea centrale: il lockdown va fatto presto per stroncare l’epidemia come un martello (così l’ormai celebre saggio dell’ingegnere Tomas Pueyo), nella convinzione che sia possibile ottenere, e anche con una certa facilità, una situazione di trasmissione zero. Ma per le ragioni che abbiamo richiamato, ciò è fortemente improbabile sul piano epidemiologico: il virus evolve. E’ sensato, al contrario, che la politica provi a trovare un qualche punto intermedio fra le diverse istanze in gioco: che è banale e pericoloso ridurre a salute contro economia, sia perché nel medio termine i livelli di benessere individuale sono correlati alla crescita economia, sia perché la protezione contro “un” virus (il Covid) può portare con sé tutta una serie di conseguenze nefaste per il benessere individuale (pensiamo soltanto agli effetti del lockdown sulle malattie mentali). Trovare un punto intermedio fra le diverse istanze, stimando al meglio i rischi e proteggendo le categorie più fragili, è difficilissimo, ma è curioso rifiutarsi di cercarlo. Un esempio, il più banale. Noi sappiamo che ogni giorno, lasciando gli esseri umani liberi di circolare in automobile in Italia, ci saranno un certo numero di incidenti stradali, più o meno gravi, e che un certo numero di persone perderà la vita. Nel mondo ne muoiono ogni anno 1,3 milioni (più di metà dei morti Covid e negli ultimi 30 anni sono stati 55 milioni, circa il doppio della Spagnola). Perché non impediamo l’utilizzo dell’automobile? Perché pensiamo che dalla mobilità delle persone dipendano tutta una serie di benefici, individuali e collettivi, che dal punto di vista della società bilanciano il costo delle vite che, purtroppo, si perdono. Abbiamo, come si vede, evitato di esprimerci in termini di diritti e abbiamo fatto un rozzo esercizio di algebra sociale. Perché ritenere che il Covid sia qualitativamente diverso, e non abbia senso porsi il problema di convivere, pur faticosamente, col virus?

 

La seconda ragione per cui Ricolfi è, suo malgrado, un ottimo alleato di Conte è l’esito della sua strategia retorica. Ricolfi enfatizza l’importanza di chiusure tempestive e assegna la colpa della “seconda ondata” autunnale alla “incauta estate” (spiaggia, balera, aperitivo) degli italiani.
Accusare gli italiani di “comportarsi” male è esattamente ciò che il governo fa da mesi, “moralizzando” l’epidemia, e non è un caso che lo faccia: serve a creare legittimità attorno all’idea di chiusure periodiche e discrezionali delle attività. Non discutiamo che in corrispondenza di una riduzione del tasso di attività diminuiscano anche i contagi: ci mancherebbe che non fosse così. 
Una volta scelta la strategia di chiusure periodiche, come ha fatto il governo italiano, la si può mettere in atto meglio o peggio – e il governo italiano, Ricolfi su questo ha ragione da vendere, lo ha fatto malissimo. Ma la cattiva performance deriva proprio dal non essersi dato criteri chiari e trasparenti su come trovare un punto intermedio fra le diverse istanze.

 

Qual è il costo che si sostiene per il beneficio delle chiusure? Il gioco vale la candela? Dal punto di vista del governo, sì, per una ragione intuitiva. Esattamente come il quantitative easing della Banca centrale scoraggia i governi dall’essere rigorosi nell’uso delle finanze pubbliche, perché indebitarsi costa poco e c’è l’impressione che la Bce farà sempre “whatever it takes”, così la possibilità di chiudere e riaprire la società come un rubinetto disincentiva fortemente dal provare a migliorare il testing (e, se possibile, anche il tracing) della popolazione come vorrebbe Ricolfi. Perché? Perché in politica le cose difficili si fanno solo se non c’è un’alternativa più facile. E qui l’alternativa delle chiusure è disponibile e gode di ampio consenso, proprio grazie a coloro che ne hanno fatto una sorta di rito collettivo di espiazione per l’indisciplina di tutti coloro che, così scavezzacollo e così italiani, non obbediscono alle norme. E’ il nostro momento spartano: doveri contro diritti, state-a-casa contro aperitivi.

 

La medicina ha abituato le persone a trovare le soluzioni dei problemi sanitari, ma non ha reso consapevoli che ci vuole tempo e che non è onnipotente. Il meccanicismo ci illude che onnipotente sia invece la politica: beninteso, quella che piace a noi. Ecco perché le nostre società aperte hanno così bisogno di élite liberali: perché il liberalismo è un senso del limite del potere, chiunque lo detenga, quale che sia l’obiettivo che si è dato. 

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