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Il buco nero è meno nero

Umberto Minopoli

Per anni è stato il mistero quasi religioso dell’astrofisica. Cambia il metodo scientifico, Nobel a chi lo ha fotografato

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Vedere l’invisibile. Tempi felici per la fisica dei buchi neri. Poco più di un anno fa la “foto del secolo”: l’ingegnosa immagine del gigantesco Messier 87 (6,5 miliardi di volte la massa  del sole, a 55 milioni di anni luce nell’omonima galassia) ad opera del team internazionale dell’Eht (Event horizon telescope). Ora  il Nobel è stato assegnato  a Roger Penrose, per la “dimostrazione matematica” dell’esistenza dei buchi neri, e  agli astronomi Reinhard Genzel e Andrea Mia Ghez (la quarta donna nella storia a vincere il premio per la Fisica) per le osservazioni su Sagittarius A, il supposto buco nero di famiglia, il coinquilino che alloggia il centro della Via Lattea, a 26.000 anni luce da noi. 

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Vedere l’invisibile. Tempi felici per la fisica dei buchi neri. Poco più di un anno fa la “foto del secolo”: l’ingegnosa immagine del gigantesco Messier 87 (6,5 miliardi di volte la massa  del sole, a 55 milioni di anni luce nell’omonima galassia) ad opera del team internazionale dell’Eht (Event horizon telescope). Ora  il Nobel è stato assegnato  a Roger Penrose, per la “dimostrazione matematica” dell’esistenza dei buchi neri, e  agli astronomi Reinhard Genzel e Andrea Mia Ghez (la quarta donna nella storia a vincere il premio per la Fisica) per le osservazioni su Sagittarius A, il supposto buco nero di famiglia, il coinquilino che alloggia il centro della Via Lattea, a 26.000 anni luce da noi. 

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Cos’è, all’apparenza, l’Universo dei buchi neri? Sembriamo vivere un cosmo che si è fatto strano, misterioso, ermetico, abitato da entità indecifrabili – buchi neri, onde gravitazionali, materia ed energia oscure – che la fisica fatica a spiegare. In uno dei suoi ultimi lavori, Fashion, Faith and Fantasy  (2016), Roger Penrose denuncia un rischio: “L’Universo reale ha assunto aspetti così incredibilmente strani che, talvolta, spropositati voli di fantasia sono il modo per accettare le esotiche verità che stanno a fondamento di una nuova fisica”. Il cosmo dei moderni si è fatto affollato di enigmi: buchi neri, onde gravitazionali, materia oscura, energia oscura. I fisici  chiamano questi fenomeni messaggeri. Ma messaggeri di cosa? Di un cielo che, da platonico e ordinato, si è fatto instabile, imprevedibile, che comunica la catastrofe. Conosciamo, ci dice la fisica, solo il 5 per cento del reale contenuto della materia e dell’energia dell’universo osservabile  oggi: ci è letteralmente oscura, nel senso di ignota, la quasi totalità del resto. E’ spiegabile, insiste Penrose, che interpretare questo universo impenetrabile dia spazio anche a fantasticherie, a teorie – i multiversi, gli universi paralleli, le dimensioni nascoste, il cosmo olografico –  che volutamente abbandonano il terreno solido della verifica sperimentale.

 

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Il Nobel per la Fisica 2020 segna una decisa inversione. E un felice cambio di approccio: il ritorno a un principio classico dell’impresa scientifica, che premia il valore della prova sperimentale e della sua interpretazione matematica, senza escamotage metafisici. Insieme al premio Breaktrough, quello che viene definito “l’Oscar della scienza”, che quest’anno è stato consegnato al team dell’Event horizon telescope per la foto di M87, il Nobel 2020 a Penrose, Genzel e Ghez riporta i buchi neri – l’oggetto più elusivo e controverso del cielo,  tema ormai di letteratura, fantascienza, cinematografia – sul terreno saldo della scienza sperimentale. Il Nobel 2020 riporta i buchi neri all’incredibile potere cognitivo delle nuove tecnologie osservative e dello straordinario progresso nell’indagine strumentale dello spazio profondo degli ultimi vent’anni. Se perfino i buchi neri, il più resistente (turba gli astronomi dal 1783) e tenebroso dei messaggeri del cosmo inquieto di oggi, è sottratto al mistero dell’irrealtà e della narrazione fantastica, è facile  pensare, con ottimismo, che presto sarà così per le altre entità oscure. 

 
E’ già così, per esempio, per le onde gravitazionali (un altro postulato della Relatività) che stanno diventando un nuovo strumento per leggere gli eventi dello spazio profondo. Ci sono due modi per “dimostrare” la verità di un oggetto cosmico: poterlo osservare e descriverlo con una buona matematica. E’ il principio galileano, quello che il genio di Arcetri battezzò come garanzia della “certezza della sensata esperienza”. C’era un problema. Sinora i possibili candidati alla definizione di buco nero erano, in gran parte, oggetti lontanissimi: i quasar (galassie primordiali dell’universo bambino, distanti miliardi di anni luce) o i centri turbolenti di galassie lontane dalla nostra. Una strana forma di “censura cosmica” rendeva proibito e inaccessibile il centro della Via Lattea. I telescopi ottici (quelli a terra o nello spazio) che guardavano in direzione del Sagittario, la costellazione che ospita idealmente il centro della Galassia, incontravano un muro di buio. A 26.000 anni luce di distanza il cielo fa trasparire irrequietezza, tempeste di radiazioni compatte e voluminose, ma nessuna scena percepibile di stelle e oggetti in movimento. E, soprattutto, nessuna traccia visiva del mostro, del buco nero supermassivo  (quattro milioni di masse solari) che si sospetta alberghi quel luogo della Galassia.

 

Per intenderci: la tecnica che ha permesso all telescopio di fotografare M87, con Sagittarius A non è utilizzabile. Dall’angolo visuale del nostro braccio galattico, il quartiere cosmico che abitiamo, il centro della Via Lattea ci è precluso: una fitta e polverosa nube oscura censura i nostri telescopi. Il merito di Genzel e Mia Ghez è l’aver squarciato quel velo. Usando le nuove tecniche dell’ottica adattiva (che contrastano gli effetti della turbolenza atmosferica) e, soprattutto, della tecnologia dell’infrarosso, i due astronomi hanno aperto il centro galattico all’investigazione diretta. Grazie al potere risolutivo della radiazione all’infrarosso – che rende trasparenti le nubi di polvere interstellare – si dischiude una nuova immagine astronomica del cielo. Non si tratta solo del centro galattico. E’ noto che i larghi spazi oscuri tra le stelle che distinguono il cielo notturno non sono vuoti: in parte è nube interstellare, polveri e gas che occultano la vista. La strumentazione all’infrarosso schiude a una geografia del tutto inedita degli spazi cosmici. Altrettanto affascinante la storia del Nobel a Roger Penrose. Anzitutto, essa arriva con notevole  ritardo. Il “teorema della singolarità” di Penrose o, meglio, della “inevitabilità matematica” dei buchi neri è del 1965. E’ successo come con la “particella di Dio”: Peter Higgs ipotizzò il bosone che dà massa alle particelle nel 1964, ma raccolse il Nobel nel 2013. Solo dopo che l’acceleratore LHC del Cern l’ebbe rilevato nei suoi esperimenti. Analogamente, il premio al matematico britannico viene dopo la “prova” della foto dell’Event horizon telescope e delle ricerche di Genzel e Ghez.

 

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La storia del teorema di Penrose ha i tratti del romanzo scientifico. Einstein nutriva una diffidenza quasi etica sui buchi neri. Gli apparve, sempre, un esito “osceno”, quasi indicibile della sua teoria, così lontano dal suo ideale, platonico e classico, di un  cosmo stabile, ordinato, senza mostruosità insidiose e nascoste, senza malizie e catastrofi: la Natura, il Dio spinoziano dell’arruffato scienziato ebreo-tedesco, non lo avrebbe permesso. Ma il destino lo smentì subito. Immediatamente dopo la formulazione nel 1915 della Relatività, un giovane e geniale fisico tedesco, Karl Schwarzschild, avanzò una strana e inquietante soluzione della sua equazione di campo: una stella morente, abbandonata al collasso gravitazionale, avrebbe visto, progressivamente, restringersi il raggio del suo corpo sferico fino a sfociare in una singolarità, un luogo indefinibile senza dimensioni e, soprattutto, inafferrabile  con i postulati della fisica conosciuta. Da quel luogo, dalla capacità attrattiva immensa, neppure la luce sarebbe sfuggita. Il giovane, geniale e sfortunato scienziato morì in guerra subito dopo, ma la sua strana e inquietante congettura gli sopravvisse. Per sempre. Da allora è nota come la teoria del raggio o soluzione di Swartzschild: gli  oggetti sferici e massivi, sottoposti alla sola pressione positiva della gravità, collasserebbero inesorabilmente in un buco nero. La fisica successiva avrebbe precisato e ridimensionato la profezia: solo le stelle molto più grandi del sole avrebbero conosciuto il destino del raggio di Schwarzschild. Ma la predizione restava: il buco nero era una inquietante possibilità. 

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Fino agli anni Settanta, tuttavia, i buchi neri sono stati una profezia inverata, un’animata disputa concettuale, un oggetto di divagazione intellettuale: dove erano i buchi neri? Nel 1974 la svolta: una strana sorgente di raggi X (Cygnus x-1) nella costellazione del Cigno, portò Kip Thorne e Stephen Hawking, i più grandi fisici relativisti al tempo, a scommettere che si trattasse di un buco nero. Scommessa suffragata da successive scoperte: in quel luogo enigmatico del Cigno, si registrava una massa di radiazioni compatibile solo con l’esistenza di un buco nero. I buchi neri entravano nell’agenda dell’astrofisica contemporanea. Tuttavia, il problema restava: in assenza di veri dati sperimentali come avere, al di là della plausibilità fisica, una possibile prova della loro realtà? Qui il contributo capitale di Roger Penrose. Che torna, semplicemente, al principio di Galilei: la Natura ci parla con il linguaggio della matematica. Se esistono effettivamente i buchi neri devono avere una matematica che li spieghi. Il teorema della singolarità di Penrose nel 1965 riprende, esplicitamente, la soluzione di Schwarzschild del 1919. Non si chiama più teorema del raggio ma, con grande eleganza, teoria delle “superfici intrappolate”, e contiene la nuova fisica, quella della rivoluzione quantistica, sconosciuta allo sfortunato Schwarzschild. E recita: date certe condizioni fisiche (dimensioni, pressione gravitazionale, energia, geometria locale ) un oggetto sferico, “intrappolato” nel collasso, è costretto a restringersi e a finire in una singolarità con un orizzonte degli eventi dove una volta entrata qualunque cosa, perfino una semplice informazione, potrà mai più uscire.

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