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Ieri 636 morti

Ora di governare il virus oltre i lockdown

Chi contagia di più? Quanto si muore? Che fare con i più giovani? Cosa manca agli ospedali? Per domare la pandemia i vaccini e le chiusure non bastano. Strategie per il futuro spiegate dal prof. Remuzzi, “per non morire né di Covid né di fame”

Claudio Cerasa

Che cosa sappiamo oggi del virus che non sapevamo ieri? E sulla base delle nuove conoscenze che abbiamo, cosa dovremmo fare per gestire la pandemia in un modo improntato sempre più sull’ordinarietà e sempre meno sull’emergenzialità? Due ricerche importanti di Science e di Nature

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"Se solo…”. Se solo che cosa, professore? “Se solo capissimo che molti dei problemi che abbiamo di fronte a noi, oggi, hanno a che fare più con un tema di organizzazione che serve che con un tema di soldi che mancano, beh, se solo capissimo questo avremmo fatto molti passi in avanti nella capacità di convivere con questo maledetto virus”. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, è divenuto un volto familiare di questa pandemia e da mesi con pacatezza tenta di trovare un punto di sintesi non sempre facile tra due dottrine ormai prevalenti nel mondo dell’informazione scientifica: la dottrina di chi suggerisce di non drammatizzare e la dottrina di chi suggerisce di non drammatizzare abbastanza. Remuzzi cerca con intelligenza di ragionare sui numeri e prova a tenere ben distinte quelle che devono essere le prerogative della scienza e quelle che devono essere le prerogative della politica e nei momenti in cui nel dibattito pandemico sembra prevalere la confusione ascoltare le sue parole può essere utile per orientarsi. Anche per provare a rispondere a una domanda chiave. Che cosa sappiamo oggi del virus che non sapevamo ieri? E sulla base delle nuove conoscenze che abbiamo, cosa dovremmo fare per gestire la pandemia in un modo improntato sempre più sull’ordinarietà e sempre meno sull’emergenzialità? Remuzzi dice che l’osservazione quotidiana di questo virus ci dice in modo piuttosto chiaro che “il vero problema del Covid-19 è la gestione della malattia dal punto di vista sanitario e che per quanto i numeri dei contagi siano molto alti a oggi l’ottanta per cento delle persone che contrae il virus si ammala in modo lieve o per nulla, il dieci per cento si ammala in modo non grave, il dieci per cento si ammala in modo serio e di questo dieci per cento il cinque per cento può andare in rianimazione”.

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"Se solo…”. Se solo che cosa, professore? “Se solo capissimo che molti dei problemi che abbiamo di fronte a noi, oggi, hanno a che fare più con un tema di organizzazione che serve che con un tema di soldi che mancano, beh, se solo capissimo questo avremmo fatto molti passi in avanti nella capacità di convivere con questo maledetto virus”. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, è divenuto un volto familiare di questa pandemia e da mesi con pacatezza tenta di trovare un punto di sintesi non sempre facile tra due dottrine ormai prevalenti nel mondo dell’informazione scientifica: la dottrina di chi suggerisce di non drammatizzare e la dottrina di chi suggerisce di non drammatizzare abbastanza. Remuzzi cerca con intelligenza di ragionare sui numeri e prova a tenere ben distinte quelle che devono essere le prerogative della scienza e quelle che devono essere le prerogative della politica e nei momenti in cui nel dibattito pandemico sembra prevalere la confusione ascoltare le sue parole può essere utile per orientarsi. Anche per provare a rispondere a una domanda chiave. Che cosa sappiamo oggi del virus che non sapevamo ieri? E sulla base delle nuove conoscenze che abbiamo, cosa dovremmo fare per gestire la pandemia in un modo improntato sempre più sull’ordinarietà e sempre meno sull’emergenzialità? Remuzzi dice che l’osservazione quotidiana di questo virus ci dice in modo piuttosto chiaro che “il vero problema del Covid-19 è la gestione della malattia dal punto di vista sanitario e che per quanto i numeri dei contagi siano molto alti a oggi l’ottanta per cento delle persone che contrae il virus si ammala in modo lieve o per nulla, il dieci per cento si ammala in modo non grave, il dieci per cento si ammala in modo serio e di questo dieci per cento il cinque per cento può andare in rianimazione”.

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E prima di arrivare al cosa si dovrebbe fare Remuzzi, dati alla mano, resta sul tema di che cosa sappiamo e ci offre una notizia interessante che riguarda un’altra domanda che in tanti ci siamo posti in questi mesi: ma i contagi, sappiamo come funzionano oppure no? Remuzzi dice che sì, qualcosa sì, e ci rimanda a uno studio pubblicato qualche giorno fa sul numero 370 della rivista Science, a pagina 691. Lo studio è poderoso, nasce dopo un’analisi di 84.965 infetti registrati in India e dopo il monitoraggio di 575.071 contatti stretti ed è un lavoro che calcola che il rischio di trasmissione da un caso positivo a un contatto stretto è circa del 10 per cento. E andando ad analizzare i contagi per classi di età, gli studiosi hanno riscontrato quanto segue.

 

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Dato numero uno: i bambini possono essere contagiati da altri bambini.

Dato numero due: le persone che rientrano nella fascia di età over 60 vengono generalmente infettate dai loro coetanei.

Dato numero tre, forse il più rilevante: esiste una classe di età compresa fra i 20 e i 40 anni che tende a infettare con maggiore frequenza tutte le altre fasce di età e che è responsabile del 50 per cento delle infezioni riscontrate nei bambini, del 50 per cento dei contagi dei propri coetanei e circa il 35 per cento degli over 60.

 

“Rispetto al lavoro degli indiani – dice Remuzzi – un lavoro non ancora pubblicato di ricercatori spagnoli, il cui primo autore è Alberto Aleta, dice che in Italia la fascia di giovani che infetta di più si restringe fra i 20 e i 30 Dunque, è certamente impopolare dire che sia necessario prestare particolare attenzione ai luoghi in cui si ritrovano i ragazzi fra i 20 e i 30 anni ma risponde al vero, purtroppo, che buona parte dei contagi registrati anche in Italia avviene nei contesti famigliari in cui i più giovani, dopo aver contratto il virus, entrano in contatto con i famigliari meno giovani a cui contagiano il virus”.

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Non basta questo, naturalmente, e Remuzzi a questo punto del ragionamento arriva al cuore di una proposta a costo quasi zero seguendo la quale il virus potrebbe essere gestito con più ordine rispetto a oggi. Una proposta composta da tre punti: curare a casa, separare gli ospedali Covid da quelli No Covid, trovare un modo per evitare quando si può che le fasce della popolazione a rischio entrino in contatto con le fasce  più contagiose. “La stragrande maggioranza delle infezioni si potrebbe curare a casa e per poter curare a casa questo virus io penso che sarebbe sufficiente mobilitare un quinto dei medici di base, 10 mila su 50 mila, dotandoli dei pochi strumenti che possono servire per monitorare il decorso della malattia nella fase iniziale. In secondo luogo credo sarebbe l’ora, per tutte le grandi città, di dotarsi di un numero significativo di ospedali Covid e di ospedali No Covid, anche per evitare l’effetto panico di chi pensa di avere il Covid a ogni colpo di tosse”.

 

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A questo ragionamento, Remuzzi ne aggiunge un altro altrettanto interessante che riguarda un aspetto poco affrontato della pandemia: la mortalità. Ragionare in modo freddo di tassi di mortalità in un momento in cui il numero di persone uccise dal Covid si aggira in un paese come l’Italia intorno alle 600 unità al giorno può essere un’operazione difficile da portare avanti ma senza toccare questo aspetto, suggerisce Remuzzi, non si avrà la capacità di prepararsi come si deve ai prossimi mesi.

    

Quello che sappiamo oggi è che la letalità del Covid in giro per il mondo si trova tra lo 0,5 per cento e l’1 per cento dei casi ma è quasi certamente sovrastimata perché molti che si ammalano in realtà hanno pochi sintomi e sfuggono alle classificazioni – che è un tasso di letalità che risente naturalmente delle azioni compiute da tutti i paesi del mondo per controllare quanto più possibile la diffusione del contagio: senza controlli e senza cure, secondo Remuzzi, a fine anno l’Italia piuttosto che avere circa 60 mila decessi su 60 milioni di abitanti ne avrebbe potuto avere tra i 150 mila e i 300 mila – e che il vero problema delle democrazie mature è legato a una questione che va al di là della letalità: capacità dei nostri sistemi sanitari di potere gestire contemporaneamente e nello stesso istante un numero così alto di infezioni. Sul tema della letalità del Covid, Remuzzi cita anche un altro studio interessante, appena uscito su Nature, che indica un significativo calo della mortalità per Covid, anche per le persone con più di ottant’anni. Si muore sempre molto con questa malattia, dice Nature, specie se si ha un’età elevata. Ma il dato significativo, si legge in un articolo firmato da Heidi Ledford, è che anche nelle persone anziane, con più di ottant’anni, il tasso di letalità sta a poco a poco scendendo: durante la prima ondata, la letalità per gli over 80 era del 50 per cento oggi, scrive Nature, è del 30 per cento. “Nature – dice Remuzzi – arriva a una conclusione importante sulla quale dovremmo riflettere senza scatenare polemiche: dobbiamo fare in modo, semplicemente, che le persone tra i settanta e gli ottanta anni non si infettino. E in questo senso, credo sia opportuno trovare delle soluzioni creative, per quanto riguarda il trasporto pubblico, ma non solo, penso anche ai supermercati, per offrire corsie preferenziali alle persone più fragili e tenerle il più possibile distanziate dalle persone potenzialmente più infettive. Dobbiamo iniziare davvero a ragionare non con la logica dell’emergenza ma con la logica dell’ordinarietà. L’arrivo dei vaccini non risolverà magicamente tutto e penso per quel che mi riguarda che i problemi non vengano neppure magicamente risolti dalle chiusure totali. Ho letto che secondo la Caritas, nel periodo tra il maggio e il settembre 2020, confrontato con gli stessi mesi del 2019, l’incidenza dei nuovi poveri per effetto dell’emergenza Covid è passata  dal 31 per cento al 45 e quasi una persona su due che si è rivolta alla Caritas lo ha fatto per la prima volta. Ed è bene ricordarsi che morire di fame non è una morte migliore che morire di Covid. Dunque, continuiamo a organizzarci, a studiare e a avere fiducia in ciò che oggi conta: i risultati della ricerca scientifica”.

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