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Caccia al tampone

Paolo Nori e Nicola Borghesi

Diario di un viaggio nel ginepraio burocratico dei test per il coronavirus. In Islanda ci vogliono venti minuti, ma in Italia qualcuno ci ha salvati

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Paolo Nori: Nicola Borghesi è un regista e un attore molto più giovane di me con il quale, non so perché, andiamo abbastanza d’accordo; insieme abbiamo scritto e messo in scena uno spettacolo teatrale che si intitola “Se mi dicono di vestirmi da italiano, non so come vestirmi”. L’abbiamo fatto un paio di volte tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, poi avevamo una decina di date a partire da marzo e sono state tutte annullate o rimandate per via della pandemia. In luglio abbiamo ricominciato a recitare (all’aperto) e abbiamo fatto quattro repliche, una a Ozzano dell’Emilia, due a Milano e una a Carpi, e abbiamo aggiunto una breve prologo nel quale dicevamo che ricominciare a fare il nostro mestiere, dopo quattro mesi che eravamo stati chiusi in casa e che uscire a portare fuori la spazzatura era il massimo del divertimento possibile, aveva un effetto stranissimo. Io, per dire, dicevo in quel prologo, sono vent’anni che pubblico dei libri e in questi vent’anni ho fatto più o meno un centinaio di presentazioni l’anno, e tutte le volte che uscivo di casa, per andare a presentare il libro a Bologna, o a Firenze, o a Milano, o a Torino, io, immancabilmente, mi dicevo dentro la testa “Che due maroni”. Poi mi piaceva, ma quel “Che due maroni” era come una specie di mantra che mi accompagna ed era un po’ il segno che il mio mestiere, così singolare, era soggetto anche lui all’abitudine, alla ripetizione, all’alienazione, se capisco bene il significato del termine Alienazione. Invece, dicevo nel prologo, quando ho fatto la prima presentazione dopo la riapertura, io ero così contento che non mi sembrava vero, e mi è venuto da cominciare leggendo un pezzetto di Kurt Vonnegut che lui aveva uno zio che “rimproverava agli altri esseri umani il fatto che si rendevano troppo raramente conto della loro stessa felicità. Perciò, quando d’estate stavamo seduti sotto un melo a bere limonata, parlando del più e del meno, quasi ronzando come api, zio Alex all’improvviso interrompeva quelle piacevoli quattro chiacchiere per esclamare: “Ah, questa sì che è vita!”. E così io – dice Vonnegut – oggi io faccio lo stesso, e lo stesso fanno i miei figli e i miei nipoti. E invito anche voi a rendervi conto dei momenti di felicità e a esclamare, mormorare o pensare fra voi, a un certo punto: “Ah, questa sì che è vita!”. “Ecco, – ho detto io in quel prologo, io adesso, poi magari lo spettacolo verrà malissimo, ma io, adesso, sono proprio contento”, ho detto. E era vero, ero proprio contento. E Nicola, anche lui, era proprio contento, vero Nicola?

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Paolo Nori: Nicola Borghesi è un regista e un attore molto più giovane di me con il quale, non so perché, andiamo abbastanza d’accordo; insieme abbiamo scritto e messo in scena uno spettacolo teatrale che si intitola “Se mi dicono di vestirmi da italiano, non so come vestirmi”. L’abbiamo fatto un paio di volte tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, poi avevamo una decina di date a partire da marzo e sono state tutte annullate o rimandate per via della pandemia. In luglio abbiamo ricominciato a recitare (all’aperto) e abbiamo fatto quattro repliche, una a Ozzano dell’Emilia, due a Milano e una a Carpi, e abbiamo aggiunto una breve prologo nel quale dicevamo che ricominciare a fare il nostro mestiere, dopo quattro mesi che eravamo stati chiusi in casa e che uscire a portare fuori la spazzatura era il massimo del divertimento possibile, aveva un effetto stranissimo. Io, per dire, dicevo in quel prologo, sono vent’anni che pubblico dei libri e in questi vent’anni ho fatto più o meno un centinaio di presentazioni l’anno, e tutte le volte che uscivo di casa, per andare a presentare il libro a Bologna, o a Firenze, o a Milano, o a Torino, io, immancabilmente, mi dicevo dentro la testa “Che due maroni”. Poi mi piaceva, ma quel “Che due maroni” era come una specie di mantra che mi accompagna ed era un po’ il segno che il mio mestiere, così singolare, era soggetto anche lui all’abitudine, alla ripetizione, all’alienazione, se capisco bene il significato del termine Alienazione. Invece, dicevo nel prologo, quando ho fatto la prima presentazione dopo la riapertura, io ero così contento che non mi sembrava vero, e mi è venuto da cominciare leggendo un pezzetto di Kurt Vonnegut che lui aveva uno zio che “rimproverava agli altri esseri umani il fatto che si rendevano troppo raramente conto della loro stessa felicità. Perciò, quando d’estate stavamo seduti sotto un melo a bere limonata, parlando del più e del meno, quasi ronzando come api, zio Alex all’improvviso interrompeva quelle piacevoli quattro chiacchiere per esclamare: “Ah, questa sì che è vita!”. E così io – dice Vonnegut – oggi io faccio lo stesso, e lo stesso fanno i miei figli e i miei nipoti. E invito anche voi a rendervi conto dei momenti di felicità e a esclamare, mormorare o pensare fra voi, a un certo punto: “Ah, questa sì che è vita!”. “Ecco, – ho detto io in quel prologo, io adesso, poi magari lo spettacolo verrà malissimo, ma io, adesso, sono proprio contento”, ho detto. E era vero, ero proprio contento. E Nicola, anche lui, era proprio contento, vero Nicola?

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Nicola Borghesi: Vero.

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PN: E eravamo contenti perché ci rendevamo conto, liberati dalla cecità dell’abitudine, di com’è bello il mestiere che facciamo e anche perché credevamo che da lì in avanti, eravamo ai primi di luglio, la situazione sarebbe progressivamente migliorata. Poi, in agosto, inaspettatamente, sia io che Nicola abbiamo fatto il tampone. Vero Nicola?

 

NB: Vero.

 

PN: Io l’ho fatto in Islanda, sono andato in Islanda, a fare un giro, ho fatto una coda di venti minuti all’aeroporto di Reykjavík, mi hanno infilato un cotton fioc in bocca e nel naso, mi han fatto male, nel naso, sono andati proprio dentro al naso che potevano anche fare meno, secondo me, e il giorno dopo, in mattinata, mi hanno mandato un sms che mi dicevano che il Covid non ce l’avevo potevo andare dove volevo. E a te, com’è andata?

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NB: Io, il quattordici agosto, ero alle grotte di Frasassi. Non dentro, fuori. Più precisamente nel parcheggio, delle grotte di Frasassi. Alle grotte di Frasassi, però io non ci sono mai entrato, perché proprio mentre eravamo nel parcheggio, delle grotte di Frasassi, è arrivata una telefonata alla mia morosa, in cui le dicevano che una persona con cui aveva avuto un contatto stretto era risultata positiva al Covid-19. Insomma, Sofia, la mia morosa, era stata a stretto contatto con una persona che aveva il coronavirus. Ecco, lì, nel parcheggio delle grotte di Frasassi io ascoltavo questa telefonata, non sentivo cosa diceva l’interlocutore, vedevo solo come reagiva Sofia e lei reagiva proprio come una a cui hanno detto che molto probabilmente si è beccata il coronavirus e che quindi deve disdire l’albergo che aveva prenotato, salire in macchina e guidare dritto per dritto in direzione Bologna, dove dovrà trascorrere in religioso isolamento i successivi nove giorni senza avere contatti col suo moroso (cioè io) in una casa di sessanta metri quadri, questo nel migliore dei casi perché nel peggiore si scopre che è contagiata dal coronavirus e quindi deve stare in casa per un tempo indefinito finché non ce lo ha più, risultando negativa a due, dicasi due, tamponi rinofaringei di fila. Sofia aveva proprio quella faccia lì e infatti, dopo un momento di assoluta incredulità, eravamo già in macchina in direzione Bologna, parlando al telefono con una signora molto gentile della Ausl di Fano, comune di residenza di Sofia, che ci diceva tutte quelle cose che io avevo già capito dalla faccia che aveva fatto al telefono. In più si raccomandava, con preoccupazione materna, di stare distanti, e mentre ce lo diceva eravamo in macchina insieme e ci guardavamo colpevoli. Io ho chiesto alla signorina se dovevo stare in casa anche io in quarantena e lei mi ha detto che no, che io potevo andare dove volevo, perché non ero un contatto diretto di un positivo, ma che se Sofia fosse risultata positiva, allora sarei diventato un contatto diretto di un positivo e avrei dovuto trascorrere anche io quattordici giorni a casa. Anche se il tampone è negativo? Anche se il tampone è negativo. Per sicurezza. Ecco, io lì, ho pensato che lo Stato è davvero scrupoloso e attento e presente e fa bene a esserlo, in una questione delicata come quella del coronavirus.

 

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PN: E dopo?

 

NB: Dopo, la mattina del 15 di agosto mi sveglio pensando tre cose. La prima: è Ferragosto. La seconda: che nella stanza di fianco c’è la mia morosa che non posso incontrare di persona e che devo disinfettare il bagno dopo che c’è stata lei e devo lasciarle da mangiare fuori dalla porta e devo mettere la mascherina se per caso la incontro nel disimpegno. La terza: devo rompere i maroni a chi di dovere e avere il prima possibile un tampone rinofaringeo per l’individuazione del Covid-19, per me e per Sofia, che nel frattempo urla cose incomprensibili dalla stanza di fianco. Io, se c’è una cosa che mi viene bene, è rompere i maroni. E’ una frase che mi sento dire da quando sono bambino: te sei la goccia che scava la roccia. Forte di questa mia bella qualità prendo il telefono e comincio a telefonare. Comincio naturalmente dal numero verde per il coronavirus dell’Emilia Romagna. So che la nostra sanità è una delle migliori in Europa, anzi nel mondo, e sono abbastanza certo che io telefonerò e, tempo due, tre, massimo ventiquattro ore, ci saranno dei signori vestiti da astronauti nella mia cucina che eseguono un tampone rinofaringeo a me e Sofia. Quando esprimo a Sofia questa mia convinzione, attraverso la porta, lei dice che dobbiamo subito pulire, che gli astronauti non possiamo farli venire a casa col casino che c’è. Cioè che io devo pulire, perché lei forse ha il coronavirus e quindi non può toccare niente. Le preoccupazioni igieniche di Sofia si infrangono però di fronte a un fatto stranissimo: il numero verde del coronavirus dell’Emilia Romagna è in ferie fino a lunedì diciassette agosto, mi comunica una voce con un accento emiliano davvero molto intenso. Passo allora al 1500, che chiamo più volte sperando di trovare qualcuno disposto a parlare con me, ma quelli rispondono da Roma, hanno un forte accento romano, non vogliono parlare con me e dicono di chiamare il numero verde regionale. Quando dico loro che sono in ferie dicono: beati loro, te aspetta che tornino dalle ferie. Ma io, che sono la goccia che scava la roccia, comincio a chiamare tutti i numeri della sanità bolognese. Tutto chiuso. Gli estremi per chiamare il 118 non ci sono, non c’è nessuna emergenza. L’unico dato utile in circa quattro ore di telefonate me lo fornisce una centralinista di un ospedale della provincia di Bologna, che ho chiamato chissà perché. Sottovoce mi dice: guardi, lei non dica che gliel’ho detto io, ma qua, adesso, facciamo i tamponi solo a chi torna dalla Croazia. Quindi lei mi va sul sito dell’Ausl, mi accede all’apposito form e mi prenota un tampone dicendo che lei è stato in Croazia, tanto mica controllano. Con tutti questi “mi”, questi dativi d’affetto emiliano, che vogliono esprimere comprensione, vicinanza, complicità, io mi commuovo. Prenoto un tampone online, che però potrei fare soltanto giovedì, cioè tra sei giorni. E’ comunque una vittoria, secondo me. Una triste vittoria, ma pur sempre una vittoria. Per festeggiare faccio una amatriciana che mangiamo, trasgressivamente, con la porta aperta, guardandoci da lontano, molto romantico, e decido che, fino a lunedì, questo era il miglior risultato che potevo ottenere. Ed ecco, io lì ho pensato che lo stato è davvero scrupoloso e attento e presente quando c’è da dirti di stare in casa, un po’ meno quando devi ricevere un tampone rinofaringeo.

 

PN: Lo stato italiano?

 

NB: Quello. Dopo, il diciassette agosto, mi sveglio avvelenato e assetato di un tampone rinofaringeo, che otterrò, decido, a costo di minacciare chiunque mi risponda al telefono di andare a leccare i corrimano delle Rsa e a tossire addosso a delle vecchie con almeno 3,4 patologie pregresse. Il numero verde del coronavirus dell’Emilia Romagna non è più in vacanza, ma malgrado ciò non risponderà comunque nessuno fino alle 13 e 30, ora in cui comunque chiude. Sospetto che abbiano allungato la vacanza di un giorno. In preda alla furia comincio a chiamare tutti i numeri che trovo su internet digitando “sanità Bologna”, faccio almeno una ventina di telefonate, finché non mi risponde un signore che capisco subito che è quello con cui devo parlare, lo capisco perché mi dice: come ha fatto ad avere il mio numero? Io dico che non lo so, ma ormai stiamo parlando e che io voglio un tampone per me e per la mia morosa. Lui dice che la mia morosa non dovrebbe essere nemmeno a Bologna perché è di Fano. Io gli dico che andando a Fano poteva infettare delle altre persone che magari non aveva infettato e invece io ero a stretto contatto con lei da una settimana. Lui dice che Sofia è comunque un problema di Fano, non suo. Io invece, che sono di Bologna e quindi sono un problema suo, non sono un contatto diretto di un positivo, ma un contatto di un contatto, quindi non sono sottoposto a nessuna misura di quarantena e posso andare dove voglio. Io obietto che se Sofia ha il coronavirus è piuttosto probabile che ce lo abbia anche io. Lui dice che è vero, ma nonostante questo io posso andare dove voglio. Io obietto che io, tra marzo e maggio sono stato chiuso in casa due mesi e mezzo, essendo sicuramente non infetto e ora che infetto forse lo sono posso andare dove voglio senza che nessuno si occupi di farmi un tampone. Lui dice che è vero, è strano, lo dice un po’ stupito, come se non ci avesse fatto caso prima, mi dice che comunque il tampone non me lo fanno perché devono farlo a quelli che tornano dalla Croazia e mi chiede di nuovo come ho avuto il suo numero. Io a quel punto tiro giù l’asso di briscola, almeno dal mio punto di vista, e gli dico che io, tra pochi giorni, devo andare a fare uno spettacolo a Reggio Calabria, perché sono un attore e devo prendere tre bus, due treni e un aereo, ho un contratto firmato che se non vado pago una penale di alcune migliaia di euro, e che lui si assume la responsabilità di farmi andare senza alcun tampone a fare tutte queste cose, che se poi io sono positivo e infetto qualcuno, sappiamo come è successo, di chi è la responsabilità individuale. E dico individuale con un’enfasi che, lo sento, scuote dalle fondamenta le sue più solide certezze. Sento profumo di vittoria. Lui fa una lunga pausa e afferma: questa è una situazione particolare, che è davvero una parola che si usa quando non se ne hanno altre. Allora le spiego come deve fare, mi dice col tono che si usa con gli iniziati a un mistero della sanità regionale. Lei mi va sul sito dell’Ausl, mi seleziona la voce “news Coronavirus”, mi seleziona la voce “faq”, frequently asked questions, le scorre vino alla fine, fino alla faq “Non ho trovato la risposta che cercavo. Come posso fare?” e me la seleziona. Si aprirà un form online in cui lei può fare la sua domanda in massimo 350 caratteri. Questo è l’unico modo per ottenere un tampone. Segue un silenzio. Poi, saluto. Lui saluta. E compilo il form.

 

PN: Ma, è una cosa esoterica.

 

NB: Esoterica. Io sono tra gli eletti, adesso.

 

PN: E funziona?

 

NB: Funziona. Tempo quaranta minuti mi chiama una ragazza, con la voce giovane, bravissima, piena di sollecitudine, preoccupata per noi ma al contempo rassicurante e dice che secondo lei noi dobbiamo fare il tampone immediatamente, tutti e due, e ce lo fissa per la mattina successiva alle 10.30, drive in, a San Lazzaro.

 

PN: E poi lo fate?

 

NB: Poi lo facciamo. Le infermiere che ce lo fanno non sono molto gentili. E il tampone è una cosa terribile, va detto. Lo ho molto desiderato ma poi, quando è arrivato, è stato terribile. E’ terribile perché tu sei convinto che il tuo naso a un certo punto, finisca. Invece il tampone ti insegna che no, non finisce, ce n’è ancora di naso, e poi ancora e ancora e il tampone ci va, lì dove nessuno era stato mai, nelle regioni vergini del naso che confinano col cervello. Poi fruga, avido, curioso, incurante della perdita di verginità che sta sperimentando il proprietario del naso, cioè io. Poi io per tutto il giorno ho pensato a due cose: l’esito del tampone e quella sensazione terribile. Mi vengono ancora i brividi, anche adesso. Ventiquattr’ore dopo arriva l’esito: non rilevato, sia io che Sofia, che significa negativo, ma che non ci mettono la mano sul fuoco, non si sa mai. Ci baciamo, con la lingua, anche se in teoria ancora non potremmo. Poi una volta che ho saputo che ero negativo, ho fatto una cosa un po’ da stalker, o da investigatore privato: sono andato a cercare su google il nome della persona che mi aveva prenotato il tampone, che si era firmata nella mail. Salta fuori che questa ragazza è del ‘96, come Sofia, ha ventiquattro anni. E sono andato a cercarla su facebook, e ho scoperto che aveva una faccia come la sua voce: sveglia, precisa, rassicurante, necessaria. Ecco io, se penso allo Stato, oggi, nell’agosto del 2020, penso a lei. Una ragazza giovane, precisa, che sa quello che fa e che, mentre tutti mi mandavano a culo a meno che non li minacciassi personalmente, ha fatto quello che doveva fare, senza esoterismi strani e senza farmi sentire uno scemo. Ha fatto quello che doveva fare perché è il suo lavoro ed era evidentemente contenta di farlo bene, sapendo che in quel momento la mia vita un po’ dipendeva da lei.

 

PN: Anch’io ho avuto l’impressione di avere a che fare con dei funzionari pubblici che sanno quello che fanno, in Islanda. Invece, in Italia, non so. Io, come sai, sono appassionato di letteratura russa, e c’è un grande scrittore russo, Turgenev, che diceva che dei russi gli piaceva soprattutto “La pessima opinione che hanno di se stessi”, e io credo che questa sia una cosa che ci lega ai russi perché anche noi italiani, abbiamo una pessima opinione, di noi stessi, e, in molte cose sbagliamo ma in questo, secondo me, abbiamo ragione, e quest’anno io, una volta tornato in Italia, l’altro giorno, ho sentito su Twitter la ministra, come si dice, dell’istruzione, che ha detto che, cito: “E’ come se il paese dovesse... tornare qualcosa indietro, no? alla scuola”.

 

NB: E cosa vuol dire?

 

PN: Io credo che voglia dire restituire. Che la scuola ha fatto dei sacrifici e il paese deve restituire qualcosa alla scuola. Tornare qualcosa indietro. Come passeggiare il cane. O uscire i soldi. Credo. Dal ministero dell’Istruzione. Considera che, se questa signora, due lauree, è a capo del ministero dell’Istruzione, se noi, adesso, nel 2020, siamo messi così, il fatto che abbiamo meno infetti che in Spagna, in Francia e nel Regno Unito per me è un atto stupefacente e niente, sono contento, adesso ti saluto che devo uscire la spazzatura che è una cosa che non è più così gioiosa come è stata durante il lockdown, e questo è un po’ un dispiacere, bisogna dire.

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