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Vaccino e pandemia

Ad Anagni, dentro lo stabilimento che confezionerà il vaccino

Marianna Rizzini

Viaggio nel luogo della possibile salvezza contro il coronavirus. Da Oxford a Pomezia, fino alla provincia di Frosinone.

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Failure is not an option”. Bisogna partire dalla famosa frase pronunciata dagli astronauti della missione Apollo 13, e dalla vertigine di non poter sbagliare perché lo sbaglio cancella qualsiasi altra possibilità, per raccontare l’incredibile storia nella storia del candidato-vaccino per il Covid-19: il vaccino europeo, quello studiato e messo a punto ad Oxford, con la collaborazione di un’azienda italiana, la Irbm di Pomezia, e ora confezionato (per la precisione “infialato”) ad Anagni, dall’azienda Catalent.

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Failure is not an option”. Bisogna partire dalla famosa frase pronunciata dagli astronauti della missione Apollo 13, e dalla vertigine di non poter sbagliare perché lo sbaglio cancella qualsiasi altra possibilità, per raccontare l’incredibile storia nella storia del candidato-vaccino per il Covid-19: il vaccino europeo, quello studiato e messo a punto ad Oxford, con la collaborazione di un’azienda italiana, la Irbm di Pomezia, e ora confezionato (per la precisione “infialato”) ad Anagni, dall’azienda Catalent.

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Quattrocento milioni di dosi, prodotte da Astrazeneca. I test sul candidato vaccino non sono ancora finiti, ma la risposta immunitaria sui volontari è promettente, ha scritto la rivista Lancet, riferendosi ai test preliminari sul preparato sperimentale in cui viene combinato materiale genetico del Coronavirus con un adenovirus modificato. E oggi la storia nella storia parla innanzitutto di incredulità – quella di trovarsi al centro degli eventi – e poi di orgoglio, quello di essere determinanti nell’evento stesso. Perché increduli e orgogliosi si sono sentiti i dipendenti storici dello stabilimento di Anagni e i nuovi reclutati dalla Catalent, l’azienda che ha rilevato dalla Bristol-Myer-Squibb sito e macchinari già noti per la produzione e il confezionamento di farmaci sterili, biologici e solidi, e che ora si trova a dover lavorare a pieno ritmo e senza sosta, come se il candidato vaccino fosse già “il” vaccino che potrebbe far uscire il mondo dall’incubo pandemico. “Non ci si può non far trovare pronti”, dice Barbara Sambuco, il general manager che, come sull’Apollo 13, non può che considerare ora una sola ipotesi: farcela.

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Antefatto. Maggio 2020, la sperimentazione sul candidato vaccino preparato ad Oxford comincia a dare buoni risultati, l’azienda farmaceutica Astrazeneca annuncia che, in caso di test finali positivi, metterà sul mercato le dosi a un prezzo calmierato, ed ecco che si chiude il cerchio con il pensiero della presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, la donna che su questo tema è stata molto chiara, anche in direzione di eventuali forzature protezionistiche trumpiane: il vaccino deve essere un bene comune e non un bene di lusso.

 

Increduli e orgogliosi si sono sentiti i dipendenti storici dello stabilimento di Anagni, che ora lavorano a pieno ritmo, senza sosta

Che cosa manca a questo scenario potenzialmente salvifico per l’umanità? Uno stabilimento sicuro. E ad Anagni – dopo un anno di incertezza dovuta al cambio di proprietà, da Bristol Myer a Catalent, e dopo un anno di domande sul “dove andremo? Che cosa faremo?”, come racconta oggi Barbara Sambuco, ricordando i giorni duri in cui doveva motivare i dipendenti spaventati di fronte a un futuro pieno di incognite – nel maggio 2020 si continua a lavorare.

 

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Nonostante l’incertezza, in ambiente sterile, con una qualità dell’aria a bassissima densità microbica, come in una specie di bolla – bolla pulita e chiusa, dove l’operazione di confezionamento farmaci può avvenire in sicurezza, negli impianti nuovi ereditati dalla gestione precedente.

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Ed è quella bolla sterile di Anagni a catapultare Anagni nella storia. Bisogna infatti trovare un luogo da cui partire per distribuire in tutta Europa l’eventuale vaccino di Oxford, in caso risultasse alla fine vincente sul virus e tollerabile (per gli Stati Uniti c’è uno stabilimento gemello, nell’Indiana). E per l’Europa il vaccino ha una valenza medica, ma anche simbolica: gli antieuropeisti devono arretrare di fronte all’immagine della possibile salvezza in fiala che parte da un laboratorio di Oxford, passa per Pomezia, arriva ad Anagni, si diffonde negli altri paesi del vecchio continente come non ci fossero più le barriere politiche, sociali, psicologiche che negli ultimi anni si sono rialzate per effetto delle parole d’ordine di un sovranismo cupo. muri immateriali quasi inamovibili.

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Ma ad Anagni non si può smettere di fare quello che si faceva: confezionare altri farmaci, importantissimi, a partire da quelli oncologici. La sfida è moltiplicare per dieci le capacità, le forze, l’entusiasmo, dice Sambuco guardando indietro, ad appena due mesi fa, i mesi in cui si è passati dallo sconforto alla catarsi allo studio matto e disperatissimo al lavoro che nobilita, in senso letterale: come si può non lavorare con entusiasmo, diceva il direttore generale ai dipendenti, quando si lavora per l’umanità sotto pandemia?

 

Oggi, due mesi dopo, quello di Anagni è l’unico stabilimento europeo che confezionerà il vaccino. Lì, tra fine settembre e ottobre, dovrebbe arrivare la materia prima, il principio attivo sviluppato ad Oxford con il supporto di Pomezia – e bisogna provare a immaginarsela, la materia prima che, congelata, approda nelle stanze sterili dove centinaia di mani esperte dovranno scongelare, aggiungere eccipienti e mescolare il tutto, come spiega Sambuco al cronista neofita di chimica farmaceutica.

 

La temuta guerra geopolitica sul vaccino e l’operazione europea, che ha già assicurato approvvigionamenti universali

 

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E, cercando di figurarsi gli operatori di vaccini in azione, non si può fare a meno di pensare agli alchimisti, alle ampolle, all’armamentario fiabesco dei racconti di maghi, alambicchi e pozioni. Invece è tutto vero, scienza e non magia: se gli studi clinici dovessero confermare l’efficacia del vaccino, tra novembre e dicembre la distribuzione potrebbe cominciare. Ma è proprio questo il punto: “Noi dobbiamo pensare di essere già partiti”, dice Sambuco, che nelle mente è come se avesse, ora, un orologio gigantesco dal ticchettio incessante.

 

Fare presto e fare bene, e sbagliare non è un’opzione. Punto. Come fare? Gli impianti ci sono, il personale anche, ma essendo in parte nuovo, nel senso delle nuove assunzioni fatte per rinforzare la squadra, la formazione deve rincorrere il poco tempo a disposizione. Tutti in classe, letteralmente: si torna a scuola, ad Anagni, per apprendere, come prima di una missione sulla Luna, tutte le procedure.

 

E acquisire, dice Sambuco, “il giusto livello di consapevolezza” necessario al compito (le aule sono quelle visitate dal ministro della Salute Roberto Speranza, qualche settimana fa). Poi, una volta formati, gli “astronauti” del vaccino – con le loro tute sterili – potranno iniziare le prove con acqua, una simulazione vera e propria, in modo da essere pronti ad accogliere la materia prima suddetta, dovesse arrivare davvero tra un paio di mesi, come si spera.

“E pensare che a inizio anno”, dice Sambuco, “dovevo motivare le persone che ancora non sapevano che strada avremmo preso dopo il passaggio a Catalent a non sentirsi insicuri, a guardare avanti. E quando sembrava che avessimo ripreso un minimo di positività è arrivato il lockdown, tutti a casa. Ma a un certo tutto è cambiato: il vaccino, le sperimentazioni, le telefonate, gli scenari, le ipotesi, la firma del contratto, le valutazioni etiche – non dare tutto a uno, diversificare. E ora non ho neanche bisogno di motivare, di dire ‘non importa che cosa c’è scritto fuori’, non importa chi è il proprietario dell’azienda, la differenza la fate voi’.

Faremo il vaccino per l’Europa, il moto di orgoglio è stato automatico”. Poi è iniziata l’altra storia tutta italiana della ricerca materiali, “una specie di guerra del vetro per accaparrarsi i flaconi”, sorride Sambuco, ricordando i giorni recenti delle contrattazioni con i fornitori, italiani anche loro. Ed è stata una strada lunga, per lo stabilimento fondato nel 1966, ubicato in un’area industriale a cento chilometri da Roma: 19.300 metri quadri dove da decenni si producono e confezionano farmaci cardiovascolari, neurolettici, antitumorali, metabolici, antinfiammatori, antibiotici non a base di penicillina, antivirali, analgesici iniettabili e biologici.

E dove adesso approda il candidato vaccino, quasi fantascientifico fino a un mese e mezzo fa, quando Speranza firmava l’accordo europeo dicendo: “Serve ancora tempo e prudenza. Ma i primi riscontri scientifici sul vaccino dell’Università di Oxford, il cui vettore virale è fatto a Pomezia e che verrà infialato ad Anagni sono incoraggianti. L’Italia, con Germania, Francia e Olanda, è nel gruppo di testa per questa sperimentazione. Continuiamo ad investire sulla ricerca scientifica come chiave per sconfiggere il virus”.

 

Intanto, nei mesi duri del lockdown, si era cominciato a intravedere una piccola luce nel tunnel parlando al telefono con il presidente e amministratore delegato della Irbm di Pomezia, Pietro Di Lorenzo, dopo averlo cercato a un centralino nella settimana peggiore del “tutti a casa”. E Di Lorenzo aveva spiegato la collaborazione con lo Jenner Istitute della Oxford University, che a sua volta aveva stretto i primi accordi con Astrazeneca per la sperimentazione e la futura produzione. E anche quella di Pomezia sembrava una storia dell’altro mondo, con l’azienda Irbm Science Park, fondata nel 2009 nella cittadina laziale, che precipita sullo scenario internazionale, pronta a collaborare con grandi università internazionali, dall’alto della sua expertise in biologia molecolare e chimica organica e nella ricerca su nuovi farmaci (malattie infettive, oncologia, neurodegenerazione).

 

L’unico stabilimento europeo che confezionerà il vaccino. Tra fine settembre e ottobre dovrebbe arrivare il principio attivo

E si apprendeva allora che la Irmb, con i ricercatori Advent, aveva predisposto in Italia il vaccino anti-Ebola ed era diventata esperta nel campo degli adenovirus, motivo per cui era stata scelta dallo Jenner Institute. “La cosa ci inorgoglisce molto”, diceva a questo giornale Di Lorenzo, spiegando il procedimento di produzione dei lotti anti-Covid-19 da sperimentare sui volontari sani, di età compresa tra 18 e 55 anni e raccontando un altro antefatto: “A gennaio, quando i cinesi hanno isolato e messo in rete il sequenziamento del virus che provoca il Covid-19 i ricercatori inglesi hanno sintetizzato il gene della proteina spike, quella ‘cattiva’, la parte pericolosa, quella visibile come corona nelle foto.

 

Poi lo hanno inviato a noi. La nostra expertise nel campo ci ha permesso, a quel punto, di mettere a disposizione un vettore, un adenovirus che facesse da ‘cavallo di Troia’, in modo che il gene depotenziato della proteina potesse essere portato all’interno dell’organismo, senza potersi replicare. E in modo che l’organismo, sotto attacco, potesse produrre gli anticorpi e immunizzarsi”. La speranza, diceva Di Lorenzo, era “che il vaccino potesse essere messo a disposizione dell’umanità, senza remunerazione per la proprietà intellettuale”.

 

I finanziamenti arrivavano da più parti: dal Cepi (Coalition for Epidemic Preparedness Innovations, organismo attivo sulla ricerca di vaccini che ha tra i co-fondatori Bill e Melinda Gates), già attivo contro l’Ebola, con l’aiuto di un gruppo di banche, e dei governi inglese e di altri paesi del Nord-Europa. Ma a un certo punto si era complicata, la partita del vaccino, in direzione di un incerto futuro no-Covid, mentre Ursula von der Leyen annunciava lo stanziamento di fondi nell’ambito di un patto europeo per l’uscita dall’emergenza sanitaria.

 

Quello che poi veniva firmato anche dall’Italia: un accordo “per l’approvvigionamento fino a 400 milioni di dosi da destinare a tutta la popolazione europea”. E a livello europeo si era cominciava a lavorare su due livelli: l’accordo tra i ministri della Salute europei per finanziare la ricerca sui vari “candidati-vaccini”, e la possibilità di esercitare opzioni di acquisto sui più promettenti, a prezzi industriali e in dosi che potessero coprire il fabbisogno dei vari paesi.

 

“Faremo il vaccino per l’Europa, il moto di orgoglio è stato automatico”, dice Barbara Sambuco, il general manager

“Il vaccino lo paga lo Stato e verrà distribuito gratis a cominciare dalle classi più a rischio”, aveva detto Speranza al Corriere della Sera. L’altro timore riguardava l’incubo di uno scenario “America First” (attraverso Donald Trump) nella cura del Covid-19. Di Lorenzo, da Pomezia, rispondeva già allora: “Si può stare tranquilli: Astrazeneca ha accettato di vendere a prezzo industriale, cioè senza caricare il prezzo della proprietà intellettuale, e in modo uniforme tra Europa, Stati Uniti e altri paesi, proprio per evitare concentrazioni e omissioni.

In questo senso il fatto che l’azienda produttrice abbia messo a disposizione due milioni di dosi senza sovrapprezzo è un altro fatto positivo, segna un nuovo corso. E’ stata fatta anche una suddivisione territoriale per produzione e distribuzione: Usa, Europa, India, Africa, con le grandi fondazioni – come quella dei Gates, per esempio – impegnate sui paesi paesi con reddito inferiore. E si sta cercando di lavorare in direzione di una produzione e distribuzione in contemporanea in tutto il mondo”. Che la temuta guerra geopolitica sul Covid sia davvero scongiurata oppure no, tra Pomezia e Anagni corre il filo dell’operazione: vaccino bene comune.

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