l'editoriale del direttore
Pensare alla crescita del paese e non dei sondaggi. La vera sfida
Un eurocredito da non sprecare. Perché un’Italia che sembra nei guai è invece affidabile e stabile
C’è l’ok al Pnrr, certo, ci sono i nulla osta della Commissione europea alla maxi revisione del piano italiano, c’è la quarta rata da 16,5 miliardi in arrivo, ma poi? A guardare i dati, in verità, Pnrr a parte, ci sarebbe quasi da mettersi le mani nei capelli. Un paese sempre più indebitato, incapace di crescere come dovrebbe, governato dall’inefficienza, oppresso dalla burocrazia, ostaggio di un sistema giudiziario impazzito e poco interessato a mettere a terra la mole mastodontica di soldi che riceve dall’Europa (un conto è ricevere i soldi, un altro è spenderli: nell’ultima relazione sul Pnrr diffusa dalla Corte dei conti sullo stato di attuazione del piano risulta che la realizzazione effettiva delle opere arranca al 7,94 per cento). Eppure, nel racconto quotidiano dell’Italia, c’è qualcosa che ancora manca, qualcosa che ancora sfugge, qualcosa che, nonostante tutto, permette all’Italia di non sfigurare malgrado i suoi peccati, i suoi vizi, le sue lentezze, le sue fughe dai treni (ops) e i suoi chili di troppo.
Ci avrete fatto caso anche voi. Il quadro economico dell’Italia, sulla carta, è quello che è. E da settimane i guardiani dei conti non perdono occasione per ricordarlo. Due giorni fa, la Commissione europea, prima di dare l’ok alla revisione del Pnrr, ha promosso a metà la manovra italiana, rilevando un tetto di spesa superiore a quello indicato dalle raccomandazioni del Consiglio Ue e suggerendo all’Italia di essere pronta per “introdurre le misure necessarie” per rimettere in carreggiata le finanze pubbliche. Pochi giorni prima, anche l’Ufficio parlamentare di bilancio aveva parzialmente bocciato la manovra rinvenendo nel testo presentato dal Mef una presenza eccessiva di “misure temporanee e frammentate”.
Una valutazione simile, ancora più forte, è arrivata il 22 novembre da parte della Banca centrale europea, che senza citare direttamente l’Italia ha acceso un faro sui rischi che corrono oggi i paesi più indebitati d’Europa (l’Italia, tra due anni, supererà la Grecia come paese con il più alto debito pubblico dell’Ue) notando che l’aumento dei tassi di interesse, e quindi l’inasprimento delle condizioni finanziarie e di credito “si stanno traducendo sempre più in costi di servizio del debito più elevati”, aggiungendo che, complice anche un’inflazione che rimane ancora elevata e le deboli prospettive economiche, tutto questo sta “mettendo a dura prova la capacità dei governi di servire il loro debito” e affermando che, alla luce di questi fatti, “il sentimento degli investitori potrebbe cambiare se le politiche di bilancio in alcuni paesi dell’area dell’euro fossero percepite come dannose per la sostenibilità del debito a lungo termine”. Infine ieri anche il Fondo monetario internazionale, per bocca della sua presidente Kristalina Georgieva, ha detto che “l’aggiustamento di bilancio che l’Italia sta adottando non funzionerà abbastanza velocemente da ridurre i livelli di deficit e debito”.
D’altronde, come dare torto ai guardiani dei conti: un paese molto indebitato che promette, nel prossimo biennio, di intervenire sul debito pubblico con una mole di privatizzazioni irrealistica (20 miliardi: Meloni sul Britannia?) e con una crescita che solo il governo vede in Italia (il consenso sul pil italiano nel 2024 è tra lo 0,7 e lo 0,8, l’Italia ha scritto nel Nadef che crescerà dell’1,2 per cento) come può essere credibile di fronte ai mercati?
Eppure, ed ecco la sorpresa, nonostante tutto questo, l’Italia ai temibili mercati non fa paura. Lo spread, dopo un anno di governo, è tutto sommato sotto controllo (176 punti). Le agenzie di rating, finora, non hanno mostrato segnali di preoccupazione per il nostro paese e una di esse, Moody’s, la scorsa settimana ha persino migliorato l’outlook dell’Italia. E in fondo è da un anno che le cose vanno così. Perché? Perché i numeri dell’Italia fanno così paura ma l’Italia non mette paura a chi la guarda con gli occhi del mercato? Alcune risposte si possono azzardare e potremmo provare a ragionare sul tema districandoci fra tre concetti.
Il primo, il più importante, coincide con la parola affidabilità. Dove per affidabilità non si intende fiducia a scatola chiusa ma si intende una percezione di responsabilità che deriva dalla capacità di governare bene le partite che contano e dalla consapevolezza che, per quanto populismo possa mettere in campo l’esecutivo Meloni, c’è un limite oltre il quale la maggioranza non andrà.
Il secondo punto, “strateggico” come direbbe Meloni, riguarda una direzione del governo ben recepita dai mercati nell’ambito delle partite industriali che contano. In televisione, il governo si presenta esponendo la linea statalista modello Adolfo Urss. Nei fatti, poi, il governo dei patrioti, per fortuna, si comporta con una linea opposta. Vende la ex compagnia di bandiera (Ita) a una compagnia tedesca (anche se l’Italia è ancora in attesa dell’ok della Commissione). Accetta che la più importante e “strateggica” compagnia di telecomunicazioni italiana (Tim) venda la rete a un fondo di investimento americano (Kkr). Sceglie di privatizzare almeno parzialmente un’azienda di stato che nessuno aveva mai osato toccare (Ferrovie dello Stato) e un’altra azienda di stato che da anni nessun governo aveva più osato sfiorare (Poste). Decide di rimettere sul mercato una banca nazionalizzata dai governi precedenti (Mps). Piccoli segnali, non sufficienti a mostrare credibilità (le privatizzazioni sono bilanciate da un nuovo protezionismo, in verità, vedi l’uso molto estensivo del golden power, vedi le leggi liberticide sulla carne sintetica, vedi la furbizia sui balneari), ma importanti per mostrare una direzione precisa: siamo patrioti, siamo sovranisti, siamo nazionalisti, ma al momento del dunque, quando i riflettori si spengono, quando abbiamo offerto ai nostri elettori qualche polpaccio minore da azzannare, siamo pragmatici, non ideologici, ed è questo quello che conta.
Il terzo punto riguarda una caratteristica spesso sottovalutata del nostro paese che coincide con una condizione anomala nel resto d’Europa: stabilità. Per stabilità, però, qui, non si intende solo la presenza di una maggioranza stabile, coesa forse no ma con numeri certi sì. Si intende anche qualcosa di più. Si intende la presenza di un paese che nonostante le invettive dei sindacati, nonostante l’inflazione, nonostante la crescita bassa, nonostante i conflitti tra i partiti, vive ormai da anni all’interno di un qualcosa di molto simile a una pace sociale. Ci si confronta, si litiga, ci si arrabbia, si scende in piazza, ma non ci sono capitali messe a soqquadro, non ci sono scioperi che bloccano per mesi un paese, non ci sono banlieue in fiamme, non ci sono parlamenti che cadono come birilli, non ci sono No vax che scendono in piazza per più di mezzo pomeriggio, non ci sono rivolte popolari. Ci si confronta, si litiga, ci si arrabbia ma si conosce il senso del limite, anche tra gli elettori, e il fatto che in un momento di grande precarietà, di grande frammentazione e anche di grandi debiti l’Italia sia il paese che da più anni combatte con fenomeni di questo tipo ha trasformato il nostro paese in un esempio, in un modello pazzo ma pragmatico di governo dell’instabilità.
Se a tutto questo aggiungete il fatto che la presenza di un debito molto grande impedisce ai governi di fare stupidaggini (gli spread che ha avuto l’Italia nel 2011 non li ha avuti nessun paese europeo: ci siamo già passati). Se a tutto questo aggiungete il fatto che aver provato il populismo in purezza è una garanzia che quello che è stato non ci sarà più (gli azionisti di maggioranza di quel famoso esecutivo, il gialloverde, anno 2018, da anni cercano un modo per cancellare gli errori commessi in quei mesi di governo). Se a tutto questo aggiungete il fatto che l’Italia è il paese europeo più ricco di denaro pubblico che arriva dall’Ue (via Pnrr) e dunque più soggetto ai controlli e ai vincoli dell’Europa (se non si rispettano le regole non arrivano i soldi). Se a tutto questo aggiungete il fatto che il debito privato degli italiani continua a essere basso (dati della Banca d’Italia sul risparmio e sul debito privato degli italiani ci dicono che negli ultimi dieci anni il risparmio è cresciuto di quasi il 40 per cento, passando da 3.500 a 5.200 miliardi e il debito privato è rimasto stabile) e che le imprese italiane esportando a livelli da record indicano la presenza di un mercato ricco capace di attirare capitali (anche se si può fare molto di più).
Se si mette insieme tutto questo si capirà perché quello che i mercati vedono guardando il governo Meloni è diverso da quello che vedono coloro che quando guardano un governo si limitano a osservare i numeri. I conti non tornano, quando si parla d’Italia, ma i conti tornano lo stesso. L’apertura di credito che il governo ha da parte dei mercati (anche grazie al Pnrr, of course: molti soldi uguale molti investimenti e molti paletti da non superare) è ancora forte e questo è un fatto (un anno fa Carlo Calenda sosteneva che il governo sarebbe durato sei mesi, perché sarebbe stato mandato a casa dai mercati, un anno dopo il governo è ancora lì, e lo stesso non si può dire del Terzo polo). Approfittare di questa apertura usando l’apertura di credito dei mercati per pensare alla crescita dei sondaggi e non alla crescita dell’Italia è il vero rischio che corre il governo. I binari sono solidi, il pregiudizio non c’è e se il treno dell’Italia correrà meno del previsto la colpa non sarà dei poteri forti che osservano l’Italia ma dei poteri deboli che la governano. Ci si vede sul Britannia, good luck. E viva il Pnrr.