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La strategia

Conte affonda Meloni, ma vuole sedersi al tavolo delle riforme

Simone Canettieri

In Aula lo show del leader grillino, una furia che si è tradotta in quattordici minuti di attacchi contro la premier (con tanto di lapsus sul "delitto Andreotti"). Ma è pronto a dialogare con il governo pur di isolare Schlein

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“Oggi direte che il centrosinistra sono io e non Elly, e domani chissà. Ma io guardo alle traiettorie della politica”. Segue movimento a spirale dell’avambraccio. Giuseppe Conte è senza voce – “l’ho donata agli esodati del superbonus” – e se ne sta appoggiato a una ringhiera di Montecitorio. È soddisfatto. Anche il suo ciuffo tirabaci ha un momento di tregua. In Aula, prima di pranzo, l’ex premier si è esibito in un piccolo show. Quattordici minuti di attacchi a Giorgia Meloni. Definita in sequenza: “Faccia di bronzo”, “patriota d’accatto”, “schiaffeggiata dalla realtà”, “inadeguata”, “una che ha Orban come maître à penser”, capa di “Fratelli di Visegrad”. Nella furia Conte cita il “delitto Andreotti” al posto di quello di Matteotti (i ministri Nordio e Schillaci sghignazzano). Meloni, qui per le comunicazioni del Consiglio Ue, non è una che sa dissimulare. E quindi sbuffa, si agita, sgrana gli occhi, gesticola. La premier non ci sta e risponde alle provocazioni. Restituisce “l’ipocrita” al capo del M5s indicandolo con una penna. Dice che non è “vero” che all’ultimo Consiglio europeo ha ottenuto sull’immigrazione gli stessi risultati portati a casa da Conte nel 2018. E poi prima di andarsene – l’attende il presidente Sergio Mattarella per un pranzo di lavoro con i ministri – si sfoga in romanesco. Traduzione del labiale:  “Seee, vedemo er Pnrr che fine farà, lo vedemo alla fine”. Poco prima l’oppositore l’aveva accusata di non portare a casa i progetti che ci chiede l’Europa. E’ comunque un momento da cristallizzare.

 

A pensarci bene, per la prima volta, c’è una netta inversione dei ruoli: il leader grillino sembra ricordarsi di quando Meloni era all’opposizione e viceversa. E quindi è tutto un rinfacciare e rimembrare. “Io ho portato 209 miliardi euro in Italia dall’Europa e lei niente”, dice ancora Conte quasi tarantolato nell’esposizione in trance (il suo social media manager Dario Adamo conta intanto, come fossero zecchini d’oro, i like e le visualizzazioni dell’intervento). In questa lotta di populismi, di andata e di ritorno, si cade sulla guerra in Ucraina. Sicché la premier diventa la “brutta copia di Draghi” e poi l’invio di armi toglie il pane agli italiani. Per non parlare della profezia sul prossimo “voltafaccia”: la ratifica del Mes. Sembra un intervento della leader di FdI quando era regnante l’avvocato del popolo.

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È la coda di una mattinata fino a quel momento abbastanza noiosa se non per l’assenza – più o meno voluta – dei ministri leghisti sui banchi del governo. Un segnale che guarda alle nomine arrivate all’ultimo miglio, una pura casualità (che in politica non esiste) o messaggi di malessere diffuso? “C’è il ministro Valditara: non date retta alla sinistra”, risponde Meloni. I cronisti le fanno notare che forse, soprattutto dopo la tirata antiarmi della Lega in Senato, forse, qualche problemuccio in casa ce l’ha. Anche a Montecitorio la presidente del Consiglio non esce dallo spartito del giorno prima a Palazzo Madama. Su Cutro, il fantasma che non riesce a scacciarsi di dosso, le parole e le emozioni non cambiano: “Sono avvilenti i miei riferimenti all’essere madre, così come chi attacca i pezzi dello stato che da sempre aiutano i migranti in mare: il mio governo ha il record di salvataggi”. Meloni va dritta sull’Ucraina (“io fermarmi? Ditelo a Putin”) e si diverte con il verde Angelo Bonelli che l’accusa, pietra alla mano, dell’Adige in secca (“in cinque mesi ho prosciugato un fiume? Neanche fossi Mosè”).

 

Il piatto forte – con Elly Schlein assente non giustificata – è il Conte furioso. Oggi l’ex premier sa che si conquisterà i titoli dei giornali, ma da domani? Ecco perché nonostante l’aggressività nei confronti di Giorgia, ha in mente una strategia diversa e più efficace. L’ex premier è pronto a sedersi al tavolo con la maggioranza per discutere sulle riforme: semipresidenzialismo, premierato e sfiducia costruttiva. “La stabilità dei governi è un pallino di Giuseppe”, spiegano dal Movimento dove d’altronde ne hanno viste delle belle in tre governi di colore opposto. L’obiettivo, seppur non dichiarato, è chiaro: dialogare sull’architettura costituzionale per cercare di isolare il Pd. Tornare centrale. Conte è convinto che l’alleata durerà fino alle Europee. Anche Beppe Grillo, a Roma per il suo tour, a proposito di “questa Schlein” è sembrato più che cauto (“va vista in prospettiva”). Tuttavia il Garante, ora che è tornato a fare il comico a tutti gli effetti, rimane sempre insondabile quando deve esprimersi su una persona: prima sembra abbracciarla, poi la evita. Dunque sono parole che vanno prese per quel che sono. Di sicuro Conte deve riposizionarsi e la sua vicinanza al mondo cattolico può essere un vantaggio (qualche giorno fa, per dirne una, ha presentato il libro dell’argentino Juan Grabois, nominato nel 2016  da Papa Francesco Consultore del Pontificio consiglio della giustizia e della pace della Santa Sede). Sicché la mano dell’ex premier può essere ferro o piuma con la Meloni. Purché lo riporti al centro.

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