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L'editoriale

L’impotenza americana di fronte all’America che uccide Tyre Nichols

Giuliano Ferrara

La politica e il discorso pubblico non mostrano di avere il respiro sufficiente a sanare una ferita che si riapre implacabile da Los Angeles a Memphis

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Prima o poi gli americani verranno a capo della violenza estrema, brutale, assassina della polizia contro gli individui inermi, spesso neri, spesso battuti e linciati da poliziotti neri anch’essi, gente che spesso non ha fatto niente, che invoca la mamma tra le bastonate, i calci i pugni e i colpi delle armi di difesa dell’ordine pubblico, ma tra quel prima e quel poi c’è lo smarrimento di fronte all’isteria e all’ingiustizia che sanno di morte, c’è la domanda fatale su un paese civile, su uno stato di diritto che vive di trasgressioni sempre più crude e spettacolari a civiltà e diritto.


         La vera grande tragedia americana è che quel grande paese non sa nemmeno più come vergognarsi di sé stesso, non è in grado di elaborare il suo lutto permanente, la legge trova a stento una via per ripristinare il dovuto, con gli arresti e i processi contro le brutalità indecenti e folli, perché gli Stati Uniti non sono l’Egitto dei servizi che torturano nel segreto cittadini incolpevoli e la fanno franca, ma intanto Tyre Nichols cala nella sua tomba tra le proteste impotenti, le grida di soccorso, le lacrime e le divisioni tra le comunità, i sospetti e le vendette e i simboli di una pacificazione pietosa che sembra un’immagine eroica e impossibile, come quella degli atleti inginocchiati in uno stadio.
        

 

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La politica e il discorso pubblico non mostrano di avere il respiro sufficiente a sanare la ferita, una ferita che si riapre implacabile da Los Angeles a Memphis, che si configura in video dall’impatto mostruoso, atti tenebrosi colti nella notte a un crocicchio stradale, su un marciapiede affollato di urla e divise di stato nel teatro del linciaggio, nella apparente ordinaria normalità di uno stop autostradale trasformato in carnaio, materiale che si consuma in un’immaginazione malata contigua alla realtà ancora più malata. Il sostrato di quel che accade è nelle infamie storiche curate e sanate in effigie e apparenza da grandi movimenti profetici come quello di Martin Luther King Jr., da grandi presidenti americani come Lyndon Johnson, il retaggio della schiavitù come forma accettata dell’organizzazione sociale e economica, della guerra civile per l’abolizionismo, delle leggi e degli usi di segregazione che sono durati fino a ieri e sembrano prorogati nell’oggi dalla bastonatura di un nero di 29 anni che scandisce il suo “non ho fatto niente”, “voglio solo andare a casa”.

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         Che l’America sia un pilastro delle libertà lo dice senza retorica, in linea di fatto, la circostanza che senza di lei oggi la guerra in Europa sarebbe persa in partenza, con l’Ucraina invasa e demolita a colpi di cannone sarebbe schiacciata come cosa insignificante la migliore tradizione politica e civile della storia dell’umanità, la rivincita del totalitarismo novecentesco sarebbe cosa fatta contro le illusioni di un mondo liberato e integrato dalla globalizzazione economica e dalle sue leggi. Non si può fare a meno dell’America e l’America non sa fare a meno dei suoi fantasmi, stretta tra l’ideologia woke dello stato di allerta morale, con i suoi maledetti equivoci, e l’indifferenza, la miscredenza civile, l’incapacità a controllare le pulsioni che portano alle stragi nelle discoteche, nei parchi di divertimento, nelle chiese, nelle scuole, nei supermercati, negli incroci tra strade notturne. Tutto sembra fondato sulla paura e sull’inanità dei controlli, un dramma gotico e oscuro, senza fine. Ci sono oggi storie americane al cospetto delle quali l’unico istinto sano è la preghiera, la preghiera anche laica di chi non vuole rassegnarsi a un mondo senza capo né coda.

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