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Giorgia RIFORMA

L’agenda di Meloni, tra semipresidenzialismo e giustizia: “Sarà la mia eredità”

Nella conferenza stampa di fine anno, la premier traccia la rotta del governo e vuole far capire che sarà un 2023 dinamico, nel nome delle riforme. Si fida di Salvini e Berlusconi, non infierisce sul Pd e punzecchia Conte. II resto è un concentrato di “orgoglio” e “coraggio”

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Il presidenzialismo, ma anche la giustizia con la separazione delle carriere dei magistrati. Giorgia Meloni nella conferenza stampa di fine anno vuole far capire che sarà un 2023 dinamico. Nel nome delle riforme. Se condivise sarà meglio, fa capire, altrimenti non si farà tanti scrupoli. In tre ore e mezza la premier traccia la rotta del governo. Salvini e Berlusconi sono alleati di cui si fida, ma relegati a ruoli secondari. Non infierisce sul Pd, ma punzecchia più volte Giuseppe Conte riconoscendogli di fatto il ruolo di capo dell’opposizione. Del resto c’è solo Meloni, in un concentrato di “orgoglio” e “coraggio”, parole a cui ricorre spesso. 


Durante quella che chiama Telethon, Meloni spiega e non si sottrae. Dice che mette in conto anche di non essere rieletta pur di realizzare il suo programma. Sicché alla voce “priorità” conferma che il presidenzialismo è in cima ai suoi pensieri. “Punto a farlo entro questa legislatura. Può solo fare bene all'Italia, consente stabilità e governi frutto di indicazioni popolari chiare. Sono sempre partita dal sistema francese non perché sia il mio preferito ma quello più condiviso, e io penso a una riforma condivisa”, dice Meloni. Che in  certi momenti per slancio e dinamismo sembra il Renzi di una riforma al mese. E dunque riforme per cambiare il paese, dice. Ma come? Sullo strumento, bene bicamerale se utile, altrimenti è “dilatorio”. Entro gennaio annuncia che ci saranno colloqui tra il ministro Elisabetta Casellati e le opposizioni. “Quindi decideremo”. La premier non esclude un’iniziativa del governo, dunque per decreto. Tuttavia, aggiunge, “se è più coinvolgente nessun problema a partire dal parlamento. Vorrei fosse la mia eredità”.

 

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E subito dal Terzo polo sulle riforme arriva la mano tesa di Matteo Richetti al motto “noi non ci sfiliamo”. Altro dossier caro: la giustizia. E su questo argomento, Meloni prima di annunciare qualsiasi cosa ha difeso e rivendicato la scelta di aver voluto Carlo Nordio come Guardasigilli, anche se c’è un pezzo del suo partito, proprio di Fratelli d’Italia, che ancora non ha preso le misure all’ex magistrato turbogarantista, anzi. E se dunque benedice il ritorno alla prescrizione prima delle modifiche di Alfonso Bonafede, dall’altra promette anche di rivedere l’uso delle intercettazioni e la loro divulgazione. Dice insomma la premier che “la giustizia ha bisogno di un tagliando” e che su questo argomento la maggioranza è unita e ha una visione equilibrata. Ecco dunque l’annuncio di separare le carriere dei magistrati. L’altra riforma annunciata, almeno come titolo, riguarda il fisco.

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Le tre ore di conferenza stampa scivolano accompagnate da 45 domande e altrettante risposte. C’è anche la parte identitaria della capa. Sulle euromazzette, per esempio, dice che “non è Italian job, ma socialist job”. Insomma una questione del Pse e non della “nazione”, forse la parola più citata ieri. E ancora  l’annuncio che celebrerà la Liberazione dal fascismo il prossimo 25 Aprile, la difesa del ruolo del Msi nella storia della Repubblica: “Ha traghettato verso la democrazia milioni di italiani sconfitti dalla guerra, ha partecipato all’elezione dei presidenti della Repubblica”.

La premier diventa “sportiva” quando le chiedono se arrivare dopo Draghi a Palazzo Chigi sia un po’ come dove sostituire Messi a partita iniziata. E qui Meloni, a proposito dell’ex banchiere dice: “Sento il peso della sua eredità e mi fa piacere: misurarmi con persone capaci ed autorevoli è stata la sfida di tutta la mia vita”. In quanto, spiega, non le piace vincere facile. Come in un film già visto, promette ottimismo e orgoglio patrio (“c’è tanta voglia d’Italia in giro per il mondo”), manda messaggi bellicosi all’apparato burocratico che rema contro e parlando di Mps manda un siluro a via XX Settembre per la gestione “pessima” dell’istituto di credito. Per molti un affondo al direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera.

 

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