(foto Ansa)

Poca leadership, zero colori

Il dramma di una sinistra incapace di cambiare sé stessa per fare una vera opposizione a Meloni

Claudio Cerasa

La vera sfida per il Pd non è quale vecchia sinistra rimuovere, ma quale nuova sinistra costruire. E per farlo una via d’uscita possibile ci sarebbe: impossessarsi, con forza, di tutti i temi lasciati per strada dalla destra

Tra poco meno di cinquanta giorni, nell’indifferenza generale, il più importante partito d’opposizione, che attualmente è anche uno dei più grandi partiti socialdemocratici d’Europa, deciderà chi sarà il suo prossimo segretario, colui cioè che dovrà guidare il Pd in una traversata inusuale per i democratici italiani: l’opposizione, un’attività che negli ultimi dodici anni il Pd, pur avendo vinto poche elezioni, ha praticato solo nell’arco di un interminabile anno, tra il 2018 e il 2019. Dal punto di visto teorico, la corsa per la successione di Enrico Letta, con le sue cinquanta sfumature di grigio, dovrebbe presentare un qualche elemento di interesse politico. E sulla carta, in prospettiva futura, la figura del capo del Pd, essendo in teoria il vero capo dell’opposizione, meriterebbe di essere studiata con interesse, essendo colui che avrebbe maggiori probabilità, rispetto ad altri, di essere il successore dell’attuale presidente del Consiglio, se la logica dell’alternanza dovesse continuare a essere rispettata. Eppure, per una serie di ragioni che forse vale la pena analizzare, la sfida tra i vari candidati alla guida del Pd promette, senza esagerazioni, di essere una delle competizioni politiche più noiose degli ultimi decenni. 

 

Il difetto del Pd, più che nei programmi dei candidati (non si leggono i programmi di chi si candida a guidare l’Italia figuriamoci quelli di chi si candida a guidare il Pd), non è politicistico ma è emozionale. E al fondo, il problema della competizione democratica è quello di essere totalmente priva di colori, priva di creatività, priva di emozioni, priva di guizzi, priva di quid, come avrebbe detto un tempo il Cav., e priva della volontà di intendere il segretario del Pd non solo come la futura guida dei democratici ma come la futura e possibile guida dell’Italia (avete presente il famoso dibattito sulla separazione tra leader di un partito e leader di un governo: ecco il risultato, un gazebo di sbadigli). Ai quattro leader in corsa per la segreteria non manca né talento né personalità, soprattutto da parte di chi, come Stefano Bonaccini, ha dimostrato di sapere guidare qualcosa di diverso da un’amministrazione di condominio. Ma il problema che tutti sembrano voler ignorare, nell’allegro mondo democratico, si fa per dire, e che nessun autorevole dibattito sui giornali d’area ha mai affrontato in modo compiuto, è che nessuno dei candidati in lizza, tra i democratici, sembra essere intenzionato a restituire al Pd un elemento che lo aveva caratterizzato alle sue origini e che gli aveva permesso anche di essere attrattivo rispetto a un pubblico lontano dalla storia della sinistra: l’innovazione. 

In questo senso, il Pd di oggi è un partito che ha tradito buona parte delle sue premesse. La leadership è divenuta superflua. Il carisma è diventato un optional. La competizione è considerata preziosa più o meno come un bis di panettone a Capodanno dopo dodici ore di banchetti. E le stesse primarie, oggi, vengono vissute dal partito come se queste fossero un rito stanco, annoiato, una procedura evitabile, un passaggio presentato gradevole, dai quadri del partito, più o meno come una colonscopia. Il Pd tende a scaricare la responsabilità del suo grigiore sul peso insostenibile delle sue correnti. Ma un partito che scarica i suoi difetti sulle correnti ricorda molto quei politici che nei momenti di difficoltà imputano le proprie problematiche alla comunicazione. 

 

Laddove vi è una leadership che funziona, di solito la comunicazione funziona, quando la leadership non funziona più non c’è comunicazione che tenga. Lo stesso vale per le correnti: quando le leadership non ci sono, le correnti tendono a prevalere, e vedere oggi Dario Franceschini sostenere la purezza di Elly Schlein è una scena che ci regala qualche compensazione dal non aver più al cinema le vacanze di Natale di Vanzina; quando invece le leadership sono forti, le correnti tornano a fare quello che è il loro compito ordinario, naturale, ovvero trovare voti e dividersi l’eventuale potere. Si parla molto di correnti in queste primarie perché i colori delle leadership non si vedono più. E si parla poco di primarie perché nessuno dei candidati alla segreteria sembra avere intenzione di creare una discontinuità rispetto al recente passato della sinistra (l’unica discontinuità che si cerca e si rivendica, vedi l’acume della politica, è quella dalle uniche due stagioni in cui il Pd ha assaporato l’ebbrezza di fare i conti con un consenso importante, prima con Walter Veltroni e poi con Matteo Renzi, oggi trattati dal Pd come i generi trattano di solito le suocere dopo due settimane vissute sotto lo stesso tetto durante le vacanze di Natale). E perché, dato più importante, nessuno dei candidati alla segreteria del Pd sembra aver capito che in un mondo che cambia, e con Giorgia Meloni il mondo politico sta cambiando molto, castrare il cambiamento è il modo migliore, politicamente, per tagliarsi gli attributi, per non voler usare quella parola che fa rima con valle. 

 

Il disorientamento del Pd, leadership a parte, è emerso negli ultimi giorni in modo piuttosto evidente durante il dibattito parlamentare sulla legge di Bilancio. Il Pd ha fatto quello che ha fatto sempre Meloni, cioè ha contestato l’ovvio, il consueto, l’essere in ritardo nella presentazione della legge, e per di più, a parte la sacrosanta battaglia vinta sul Pos, ha mosso alla maggioranza, sostanzialmente, due tipi di accuse. Accusa numero uno: aver fatto una manovra poco espansiva (il Pd, in pratica, ha chiesto a Meloni di fare quello che si augurava che Meloni non facesse una volta arrivata al governo: proporre cioè iniziative senza coperture, cosa che in effetti il Pd ha fatto in senso letterale pochi giorni fa, quando ha scoperto con sua grande preoccupazione che la maggioranza ha per sbaglio approvato un emendamento del Pd alla manovra da 500 milioni, senza coperture). Accusa numero due: essere stati incoerenti, i meloniani, con le proprie promesse elettorali (ed essendo state le promesse di Meloni il bersaglio della campagna elettorale del Pd non è difficile capire che dire che Meloni è stata incoerente significa farle involontariamente un complimento). Disorientamento comprensibile, da parte del Pd, visto il modo in cui, giorno dopo giorno, Meloni ha tolto ai dem molte cartucce politiche.

Si può dire che il governo Meloni sia fascista? Uhm. Si può dire sia anti europeista? Ehm. Si può dire sia spendaccione? Mah. Si può dire sia securitario? Insomma. Si può dire sia nemico dei diritti? Si fa per dire. Si può dire sia un nemico del Pnrr? Non proprio. Sia può dire sia contrario all’agenda Draghi? Non esattamente. Si può dire sia lontano dall’Ucraina? Con il piffero. Si può dire sia ambiguo sul putinismo? Decisamente no. Il Pd, come è evidente, aveva costruito un’opposizione facile, scontata, pensata per azionarsi con il pilota automatico. Ma la verità è che il grande errore commesso dal Pd, errore che se non sarà compreso renderà le primarie democratiche ancora più grigie di quello che sono, è che il mondo democratico aveva dato per scontato che Meloni sarebbe stata, al fondo, un clone di Salvini. E invece, a giudicare dalle prime settimane di governo, si può dire che Meloni sia una creatura diversa, meno populista, a tratti rassicurante, come può essere rassicurante tutto ciò che non somiglia al vecchio trucismo salviniano. 

 

Uscire da questo dilemma per il Pd non sarà facile ma è questa la vera sfida che dovrebbe essere al centro del dibattito democratico: non quale vecchia sinistra rimuovere, ma quale nuova sinistra costruire. E per farlo una via d’uscita possibile ci sarebbe. Impossessarsi, con forza, di tutti i temi lasciati per strada dalla destra, politiche per i salari, politiche sulla crescita, politiche sull’efficienza, politiche sull’innovazione, politiche sulla concorrenza, sfidando i ministri con la testa sulle spalle, come Carlo Nordio, a essere coerenti con le promesse fatte e trovando un modo per non diventare la sinistra che Meloni sta provando a disegnare: un soggetto a difesa dei rave, amico dell’illegalità, schiavo dei burocrati, a libro paga delle banche, cugino dei trafficanti degli esseri umani e, al fondo, compromesso con i soldi di paesi come Qatar. Il Pd, finora, ha scelto di occuparsi del suo passato, soprattutto quello remoto. Sarebbe ora che scegliesse di occuparsi del futuro, di uscire dal bianco e nero per ridare un colore ai sogni dei suoi elettori. Non sarà facile, ovvio, ma pensare di costruire un’alternativa ai partiti d’opposizione, oltre che a Meloni, puntando sulla rendita, e non sulle emozioni, è il modo migliore per trasformare il paragone con il Partito socialista francese, oggi al tre per cento, in una profezia che si auto avvera.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.