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Il girotondo

Il federalismo che verrà

Annalisa Chirico

La riforma delle autonomie sarà la prossima sfida del governo Meloni. Totem identitario per la Lega, per Fratelli d’Italia  deve andare di pari passo con il presidenzialismo. Pregi, difetti, prospettive

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C’è chi evoca un nuovo appello “ai liberi e forti”, in memoria di Luigi Sturzo. E non è detto che basterebbe. L’attuazione del federalismo, promesso e mai compiuto, sarà la prossima sfida del governo guidato da Giorgia Meloni. Per la Lega è un totem identitario, per Fratelli d’Italia si può fare purché si accompagni al presidenzialismo. La riforma delle autonomie potrebbe responsabilizzare i diversi livelli di governo o, come sostengono i detrattori, sconquassare il Mezzogiorno accentuando il divario tra la “locomotiva d’Italia” e un pezzo della penisola, separata dall’Africa soltanto da uno specchio d’acqua.

 

Al professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte costituzionale, chiediamo anzitutto se la riforma del Titolo V, voluta dal centrosinistra nel 2001, poteva essere meglio concepita. Non pochi dissidi sorgono sulla previsione di devolvere ulteriori “forme e condizioni di autonomia” con legge dello Stato su proposta di una singola regione. Fino a ventitré le materie di competenza concorrente mentre il Parlamento, in sostanza, ratifica. “Le regioni sono state dotate dalla Costituzione, fin dall’inizio, di autonomia legislativa, amministrativa, politica – dice al Foglio Cassese –. Autonomia vuol dire che possono prendere decisioni differenziandosi l’una dall’altra. E che quindi è stato abbandonato il modello uniforme. Tutto questo per le materie indicate dalla Costituzione. Dunque, autonomia differenziata è un principio conforme all’ispirazione della Costituzione”. Tuttavia, alcune regioni cosiddette a statuto speciale hanno autonomia politica, legislativa e amministrativa in un ambito più vasto e lo stesso vogliono ottenere ora dallo Stato alcune regioni, in particolare Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. “C’è stata una falsa partenza con i referendum consultivi lombardo e veneto dell’ottobre del 2017, la richiesta avanzata dall’Emilia-Romagna subito dopo, il negoziato e gli accordi preliminari dal febbraio 2018, il passaggio dal governo Gentiloni al primo governo Conte (2018- 2019). Ora il ministro Calderoli ha riaperto la questione con una bozza di lavoro di disegno di legge dell’8 novembre 2022 che prevede, sulla base dell’articolo 116 della Costituzione, un iter complesso che comporta due negoziati Stato-regioni, due passaggi nel Consiglio dei ministri e tre passaggi parlamentari. Molto correttamente il ministro Calderoli ha portato la bozza di lavoro all’esame della conferenza che unisce Stato e regioni. Non penso che si possano fare passi indietro. Bisogna fare passi avanti, ma nella direzione giusta”.

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Il presidente Meloni ha condizionato l’approvazione delle autonomie all’introduzione del semipresidenzialismo. E’ un modo per prendere tempo o esiste effettivamente un legame tra le due riforme? “L’autonomia differenziata aumenta la forza delle regioni e, quindi, la asimmetria tra governo centrale, che opera in un sistema parlamentare, e governi regionali, che operano con un regime presidenziale. Se si vuole riaprire il tema del regionalismo oggi, bisogna cominciare dal ritaglio territoriale, che ha un’origine storica lontanissima e scarso rapporto con la realtà attuale. Bisognerebbe partire anche dalla constatazione che metà delle venti Regioni hanno meno abitanti della città di Roma. Bisognerebbe constatare che in Italia non vi è stata cooperazione tra le regioni, orizzontalmente, mentre il federalismo tedesco ha visto una forte cooperazione orizzontale. Bisognerebbe, infine, ripensare l’autonomia speciale delle cinque regioni a statuto speciale”. La Costituzione consente fino a 23 materie di competenza concorrente mentre il ruolo del Parlamento rispetto alle intese Stato-regione appare assai limitato. “E’ cruciale stabilire che cosa si trasferisce, in ordine a quali materie, come e per quale durata. Il trasferimento riguarda chiaramente legislazione e amministrazione, ma la Costituzione non prevede il trasferimento di risorse finanziarie. Si limita a stabilire che possono essere trasferiti maggiori compiti. Le regioni, nel 2017-2018, hanno sollevato il problema del residuo fiscale positivo, osservando che in alcune regioni lo Stato raccoglie imposte in misura maggiore ai conferimenti finanziari. E’ chiaro che, se si dà di più ad alcuni, bisogna dare di meno ad altri. Poi, c’è la questione di quali materie: qui certamente sorgono dubbi per materie come le relazioni internazionali e con l’Unione europea, l’ordinamento delle comunicazioni, le grandi reti di trasporto e di navigazione, i princìpi dell’ordinamento scolastico. In terzo luogo, c’è il problema della procedura. La Costituzione richiede un’intesa con la singola regione, ma la questione dell’autonomia differenziata è di interesse nazionale e quindi il ministro Calderoli ha fatto bene a portare il problema innanzitutto alla conferenza Stato-regioni. C’è poi da chiedersi se il Parlamento possa limitarsi ad approvare o non approvare o debba eventualmente fare proposte. Infine, c’è il problema della durata, perché si può pensare a una fase sperimentale, ma le norme non prevedono la possibilità di un ritorno indietro, in caso di fallimento della sperimentazione”. Con l’attuazione delle autonomie si rischia l’elefantiasi della burocrazia regionale? “Il problema principale non è quello della elefantiasi burocratica ma quello dell’eguaglianza dei diritti dei cittadini. Le proposte sono prevalentemente riferite alle materie della sanità, dell’istruzione, della tutela del lavoro. Queste materie riguardano l’eguaglianza sostanziale dei cittadini e prestazioni diverse in regioni diverse possono creare asimmetrie. La conseguenza sarebbe che istituti come il diritto alla salute o il diritto all’istruzione, che sono stati introdotti per assicurare l’eguaglianza, finiscano per aumentare le diseguaglianze. Per rimediare a questo, occorre prevedere che siano stabiliti in sede nazionale i livelli essenziali delle prestazioni (Lep) e che il trasferimento possa avvenire solo una volta che si sia stabilito quali sono i livelli essenziali. Questo è previsto dalla bozza di disegno di legge, ma è anche previsto che, se entro un anno non sono fissati livelli essenziali, i trasferimenti avvengano egualmente. Questa scarsa fiducia nella possibilità di fissare i livelli essenziali delle prestazioni in un anno è forse collegata al timore che da essi possa discendere un aumento di spesa. Forse questo costituisce una remora al trasferimento di funzioni statali. Si potrebbe pensare a un trasferimento progressivo, a mano a mano che si fissano i livelli di prestazione, anche perché le regioni devono attrezzarsi per intervenire, in qualche caso in campi per esse nuovi”.

 


Lei ha evidenziato che il divario tra Nord e Sud, negli ultimi anni, è aumentato. Ma ciò è accaduto senza l’autonomia. “Per colmare il divario tra Nord e Sud fino agli anni Novanta si è pensato che occorressero interventi centrali, come quello della Cassa per il mezzogiorno. Da più di trent’anni, l’orientamento è mutato e gli interventi sono europei e regionali. Questi non sono riusciti. Il divario, che si era ridotto, è ora aumentato”. Accade sovente che certe regioni del Mezzogiorno assurgano agli onori della cronaca per picchi di spesa improduttiva e sprechi. “Non c’è dubbio che ci sia un diverso livello di capacità amministrativa tra Nord e Sud. Questo è dimostrato da numerosi indicatori. Purtroppo, la fiducia che il decentramento possa anche produrre una maggiore pressione dei cittadini per migliori servizi pubblici non è stata confermata dai fatti”. Qualcuno ha detto che con una riforma siffatta si punta a far correre la locomotiva del Nord anziché ridurre le distanze. Lei concorda? “Dubito che sia un’ipotesi corretta. Non escludo che anche le regioni del Sud possano chiedere l’autonomia differenziata e poi cercare di dimostrare di avere gambe buone come quelle del Nord, così eliminando una parte del divario. Non dimentichi che il Lazio ha dato ottima prova di sé nella gestione della pandemia, gestendo i programmi vaccinali molto meglio della Lombardia”.


Sostenitore del federalismo, “non all’italiana”, è il sociologo Luca Ricolfi, professore di Analisi dei dati presso l’Università di Torino, in libreria con “La migrazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra” (Rizzoli, 2022). Per prima cosa, professore, le chiediamo: il federalismo è una battaglia di destra o di sinistra? “Se ben applicato, è una battaglia per la giustizia territoriale. Come tale non è né di destra né di sinistra.  Anche se va detto che, più che essere superata, la dicotomia destra-sinistra da oltre dieci anni sta funzionando in modo inedito. In Gran Bretagna il Blue Labour è una componente della sinistra che adotta alcune istanze dei conservatori, in Italia alcune idee di sinistra – come la difesa dei deboli e la libertà di espressione”. La riforma del Titolo V poteva essere meglio congegnata? “Quella riforma era scritta male, e così quella del 2009 (Legge 42). Né l’una né l’altra erano in grado di affrontare il punto chiave, che era ed è quello degli sprechi, e quindi dei costi complessivi del decentramento. Il problema delle materie da devolvere non è tanto il loro numero, quanto la natura ‘concorrente’ della competenza. Quando una materia è concorrente, si allungano i tempi di qualsiasi iter decisionale, perché i vari livelli di governo si paralizzano a vicenda e i passaggi previsti sono troppi. Quanto alle ulteriori materie da devolvere alle regioni, non vedo perché aver devoluto ieri la sanità sia meno pericoloso che devolvere oggi la scuola. Del resto a scuola la devolution c’è già di fatto: gli insegnati del Sud usano un sistema di valutazione del tutto diverso da quello del Nord (gli studi empirici hanno dimostrato che un 5 a Verona diventa un voto compreso fra 7 e 8 a Catania, con enormi effetti sulla qualità dei diplomati e sul mercato del lavoro). Semmai sarebbe il caso di lasciare saldamente in mano al governo centrale tutte le materie strategiche, come i trasporti, l’energia, le telecomunicazioni, e forse pure l’ambiente. Sulle non strategiche meglio scegliere: o se ne occupa ancora il governo centrale, o le si conferiscono alle regioni”. Con l’attuazione delle autonomie si rischia l’elefantiasi della burocrazia regionale? “Ovviamente sì, anche se – come sempre – il rischio è modesto nelle regioni virtuose (Triveneto e regioni rosse), mentre diventa drammatico in quelle ad alta densità mafiosa (Calabria, Sicilia, Campania)”. Si direbbe che lei sia favorevole all’autonomia.  “Non è così. Io sono stato un difensore del federalismo finché è rimasta in piedi la speranza che esso si basasse su una spending review incisiva e ponesse un freno al saccheggio del Nord. Ma poi, vedendo quanto bene destra e sinistra si sono accordate per non cambiare quasi nulla, sono diventato un anti-federalista, o meglio un nemico del ‘federalismo all’italiana’”.

 

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Il presidente del Veneto Luca Zaia cita spesso Luigi Sturzo che già nel ‘49 diceva: sono unitario ma federalista impenitente. Da Einaudi a Spinelli, in effetti, il federalismo è una corrente che attraversa aree culturali e politiche diverse. “Sì, è vero, ma esiste un abisso tra il federalismo come idea e la sua implementazione per mano delle classi politiche che si sono susseguite negli anni della Seconda Repubblica”. La cosiddetta “bozza Calderoli” prevede che i Lep, validi in tutto il territorio nazionale, siano approvati entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge. Se così non accadrà, si potrà procedere ugualmente con i trasferimenti. “Ma da quanti anni si parla dei Lep? Qualcuno ha provato a chiedersi perché, pur essendo previsti sin dal 2001, non se ne è mai fatto nulla? Un tempo pari a un anno può anche essere congruo, ma se poi fanno difetto la volontà politica e le competenze tecniche nemmeno dieci anni possono bastare”.
 Il Sud resterà indietro? “Il Sud è già indietro, e non per responsabilità del Nord. Certo è possibile che, lasciando più libertà a tutte le regioni, quelle del Nord ne sappiano fare un uso migliore. Ma la domanda è: perché il Sud fa un uso così cattivo delle risorse che riceve? Perché nel Mezzogiorno ci sono decine e decine di ospedali finanziati e mai terminati? Perché i fondi vengono sistematicamente distratti dalle loro destinazioni corrette? Perché così spesso le gare di appalto sono truccate? Perché i lavori pubblici, come l’autostrada Salerno-Reggio Calabria, si prolungano oltre ogni ragionevolezza? Finché non risponderemo a queste domande, non ci sarà riforma – federalista o meno – che sollevi il Sud dalla propria condizione. E soprattutto non ci sarà mai iniezione di risorse che basti a creare sviluppo.  Come sociologo, tendo a pensare che – analogamente a quanto avviene in tante aree sottosviluppate del mondo – il problema di base sia la modestissima qualità delle classi dirigenti locali, aggravato dalla presenza della mafia. Forse ci vorrebbe, anche per il Sud come per l’Africa, una Dambisa Moyo, che sollevasse il velo che nasconde le vere cause del sottosviluppo, come lei fece nel 2009 con il libro ‘La carità che uccide’”

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E’ corretto attendere la riforma presidenzialista per l’attuazione delle autonomie? “In via generale, non vedo ragioni forti per attendere la riforma presidenzialista, che rischia di non vedere la luce mai, o di vederla solo a fine legislatura. Se si vuole, una riforma federalista si può fare subito, anche se, personalmente, mi auguro che non se ne faccia nulla, tale è la mia sfiducia nel ceto politico e nella macchina burocratica”. Perché tanta sfiducia? “Fondamentalmente perché i nostri legislatori non sono in grado di sfrondare prima di legiferare (nemmeno il mitico Calderoli a suo tempo ci riuscì, con il suo famigerato decreto ‘taglia-leggi’). La tecnica usata dai nostri politici è di aggiungere norme, anziché disboscare prima di legiferare. Il che rende sempre più macchinosa e impacciata l’applicazione di qualsiasi sistema di nuove regole. Aggiungere regole ci porterà alla paralisi, in un mondo che richiede decisioni rapide”. Intanto ci sono i referendum di Veneto e Lombardia, rimasti ad oggi disattesi. E’ anche questa una questione democratica? “Certo che lo è, se la maggioranza dei cittadini di una regione vuole più autonomia è giusto concederla, fatte salve le competenze centrali. Però non dobbiamo mai dimenticare che, una volta fissato un tot di risorse che devono andare allo Stato centrale e a un fondo di riequilibrio territoriale, il federalismo vero si basa sulla piena autonomia impositiva dei territori. E questa condizione non è mai stata neppure lontanamente garantita, e mai lo sarà”.

 


Sul fronte opposto il Meridione c’è e si fa sentire. Per bocca, per esempio, del direttore generale della Svimez Luca Bianchi secondo il quale “la bozza Calderoli non danneggerebbe solo il Sud ma il paese intero. Si prevede un percorso alternativo al modello di federalismo cooperativo voluto dalla legge del 2009 che, per un curioso paradosso, proprio da Calderoli prende il nome. Le nuove richieste autonomiste ignorano le critiche mosse alle prime pre-intese e soprattutto il nuovo contesto nazionale. I due shock globali – dapprima la pandemia e ora la guerra in Ucraina – hanno evidenziato i limiti di risposte frammentate a livello territoriale: valeva per la campagna vaccinale, vale per le risposte al caro bollette,  ma a maggior ragione per le strategie energetiche e infrastrutturali che con le autonomie verrebbero regionalizzate”. Ventitré materie di competenza concorrente sono troppe? “Chiedere 23 materie significa di fatto proporre nuove regioni a statuto speciale e non ulteriori forme di autonomie da valutare su specificità regionali. E’ un’osservazione sollevata non dal Sud ma dall’ufficio parlamentare di Bilancio e poi dalla commissione presieduta dal compianto prof. Caravita, voluta dall’allora ministra Gelmini. E’ evidente che la devoluzione non può riguardare quelle materie che, per la ‘dimensione’ unitaria nazionale degli interessi coinvolti, non sono scorporabili. Penso innanzitutto all’istruzione. Con la proposta di regionalizzazione della scuola si corre il rischio di avviare un vero processo separatista con programmi diversi a livello regionale, sistemi di reclutamento territoriale e meccanismi di finanziamento differenziati. Migliaia di docenti transiterebbero nei ruoli della singola regione con effetti sulla contrattazione nazionale e possibili differenziazioni salariali territoriali (nuove gabbie salariali)”. Il centralismo però non sembra aver favorito lo sviluppo e la responsabilizzazione delle amministrazioni meridionali. “La storia dei (pochi) successi e dei fallimenti delle politiche di sviluppo è troppo lunga per dare un giudizio univoco. E’ indubbio che l’unica fase di significativa convergenza economica tra Nord e Sud si sia registrata tra gli anni 50 e la metà degli anni 70 con una gestione centralizzata degli interventi. Così come, a partire dagli anni 80, Stato centrale e regioni abbiano insieme contribuito alla degenerazione delle politiche. Con l’aggravante, dopo la crisi del 2008, di politiche di risanamento finanziario che hanno ampliato le disuguaglianze nei diritti di cittadinanza, penalizzando soprattutto i livelli di governo, i comuni, più vicini ai cittadini. La soluzione sta nella convivenza tra un maggiore presidio nazionale nelle scelte delle priorità e un’attuazione decentrata degli interventi, come previsto dal Pnrr”.

 


I fautori delle autonomie ne fanno anche una questione democratica: alcune regioni italiane si sono espresse per via referendaria. Lei che dice? “Ovviamente ne va preso atto ma non possiamo trascurare che quei referendum si basavano su un’illusione, una piattaforma rivendicazionista incompatibile con la Costituzione: trattenere il gettito sul territorio regionale. Proporre di trattenere sul territorio i nove decimi del gettito riscosso nella regione, come nelle iniziali proposte del Veneto, significa minare alla base la funzione redistributiva dello Stato che è tra cittadini, ricchi e poveri, e non tra territori”. Siamo alle porte di una recessione: l’economia del Sud rischia di subire i contraccolpi maggiori? “Nel Rapporto Svimez 2022 emerge che, nel rallentamento dell’economia nazionale, il Sud rischia il segno meno nel 2023, interrompendo un sentiero di ripresa post Covid simile, per intensità, al resto del paese. A subire maggiormente le conseguenze dei rincari della bolletta energetica e dei beni di prima necessità sono i nuclei a reddito più basso, maggiormente concentrati nel Sud. Con il rischio concreto di un ampliamento delle aree di povertà assoluta. Il Rapporto evidenzia però diversi ambiti di potenzialità legati alle transizioni digitale, energetiche e green, nelle quali il Mezzogiorno gode di vantaggi competitivi dei quali l’intero paese potrebbe beneficiare”. Esiste un federalismo compatibile con la crescita e lo sviluppo del Meridione? “Riprendere un’attuazione ordinata del federalismo fiscale dovrebbe essere l’obiettivo condiviso. Nell’interesse nazionale, degli amministratori locali e dei cittadini, del Nord e del Sud. Procedere su questa strada, senza scorciatoie o strappi, priverebbe soprattutto la classe dirigente dell’alibi del centralismo avaro, utile per rivendicare più risorse e nascondere le inefficienze, che creano più danni dove i bisogni sono maggiori; un alibi che resisterebbe in un sistema di autonomie asimmetriche, a trazione nordista, incardinato nel nostro federalismo incompiuto. E il federalismo, quello vero, metterebbe davvero i cittadini, soprattutto quelli meridionali, nelle condizioni di valutare la qualità delle classi dirigenti locali.

 

Per il professor Pierluigi Petrillo, ordinario di Diritto pubblico comparato presso l’Università degli Studi di Roma Unitelma, “la riforma costituzionale del 2001 è senz’altro scritta male ma non certo per la previsione di cui al 116 quanto per gli errori evidenti nel riparto di competenze tra Stato e regioni, ad esempio in materia di ambiente, cultura, turismo e scuola. La previsione del regionalismo differenziato previsto dal 116, invece, è un principio sacrosanto di molti ordinamenti policentrici, cioè strutturati su plurimi livelli di governo. Di per sé, quindi, non è nulla né di scandaloso né di rivoluzionario”. Ventitrè competenze sono troppe? “Occorre saggezza. Il rischio teorico esiste, specialmente se nelle regioni che avranno maggiori competenze si dovessero replicare certi meccanismi di assunzione al ribasso che hanno danneggiato e danneggiano la pubblica amministrazione. La burocrazia la creano le persone, e le persone possono renderla virtuosa se vogliono. Le racconto una storia personale. Quando mi sono trovato a fare il capo di gabinetto di un ministro trovai una marea di persone in ufficio di cui non capivo le funzioni. Dimezzandone il numero, i procedimenti interni sono andati più veloci e spediti. La stessa cosa mi è successa quando ero capo ufficio legislativo di una regione: mi accorsi che certi procedimenti erano lenti e complessi perché occorreva giustificare il numero delle persone. Bastò redistribuire il personale per lavorare meglio e bene. Non è l’asimmetria di per sé ad aumentare la burocrazia ma sono le persone che governano la burocrazia. Il Veneto viene giustamente additato come un modello; ma prenda la Campania e vedrà che da quando al vertice si sono alternate diverse persone i procedimenti interni sono veloci e spediti”. Il rischio è l’accentuazione delle disuguaglianze tra chi vive al Nord e chi vive al Sud. “Come ha detto con la consueta chiarezza il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la differenziazione regionale in sé non è buona né cattiva. Dipende come la si attua, la sua ragionevolezza, il come, il quanto, i presupposti. La differenziazione non lede diritti in sé. La politica può farlo invece se continua con la logica delle mancette. Da comparatista, poi, mi permetto di sottolineare che la asimmetria rappresenta l’orizzonte in cui si muove il decentramento in tutti gli altri ordinamenti democratici. Il federalismo è la forma di stato più efficace nei sistemi più articolati e complessi, e assicura l’unità nei contesti caratterizzati da divisioni sociali forti. Il federalismo, quindi, nasce per unire e non per dividere. Ma attenzione: in Italia il federalismo non c’è e non ci sarà mai, lo dice chiaramente l’articolo 5 della Costituzione laddove fissa il principio dell’unità e della indivisibilità della Repubblica. Ciò di cui parliamo non ha nulla a che vedere con gli assetti propri di uno stato federale come la Germania o gli Usa. Detto ciò, nella cultura politica e giuridica italiana il federalismo è sempre stato la bandiera non di chi voleva dividere ma di chi voleva responsabilizzare, da un lato, i governanti e, dall’altro, i governati. Il federalismo, come il regionalismo differenziato disegnato dall’articolo 116, crea una legittima competizione tra le amministrazioni e spinge l’elettore a cambiare mentalità e non votare più secondo una logica clientelare o amicale”.

 


Basteranno dodici mesi per definire i Lep? “I Lep sono essenziali per rispettare quanto prevede l’articolo 116. Senza averli fissati, non si può procedere con la differenziano perché mancherebbero parametri essenziali per assicurare il rispetto dei princìpi costituzionali fondamentali. Occorre una riflessione attenta anche sul criterio della spesa storica, bisogna ragionare sui servizi in relazione alla popolazione”.

 


Si può attuare il “regionalismo differenziato” in assenza di una riforma in senso presidenziale? O le due cose sono connesse? “Sento parlare di presidenzialismo ma poi, nelle interviste, si ipotizza un modello di governo basato sul ‘sindaco d’Italia’ o sul sistema regionale. Entrambi questi modelli non sono presidenziali, non hanno nulla a che vedere con il modello nordamericano. E d’altronde il sistema presidenziale democratico è un modello in cui il capo dello Stato deve costantemente negoziare con il potere legislativo: quando il Congresso Usa non approva il bilancio proposto dal presidente, il paese si blocca e il potere federale si sospende. Qui si ipotizza, se ben capisco, un rafforzamento del capo del governo e non una sua coincidenza con il capo dello Stato. Certo è che una velocizzazione dei tempi decisionali a livello centrale servirebbe per rafforzare il regionalismo differenziato e potenziarne gli effetti virtuosi. Ma attenzione all’‘effetto Renzi’: chi vuole troppo, tutto e subito, rischia di non ottenere nulla e di andare a casa. La presidente Meloni rifletta se conviene”. I referendum di Veneto e Lombardia, fino ad oggi disattesi, pongono una questione democratica? “Non direi. Quei referendum erano rivolti alle autorità politiche regionali e servivano a dare un mandato ai presidenti delle regioni interessate proprio per avviare tale processo. Hanno quindi aumentato la legittimazione dei presidenti regionali nella loro azione di rappresentanza. Ma non impegnano in alcun modo lo Stato. Tuttavia, sebbene siano irrilevanti sul piano giuridico, non si può ignorare la dimensione politica e la richiesta che si leva dal basso”.

 

Per Andrea Giovanardi, professore ordinario di Diritto tributario all’Università di Trento, “la riforma del 2001 ha segnato un importante passo in avanti, sebbene il confine tra competenze statali e regionali nelle materie a legislazione concorrente potesse essere meglio definito. Il terzo comma dell’articolo 116 rappresenta una grande novità perché si fonda sul presupposto che l’autonomia possa essere riconosciuta alle Regioni in modo differenziato, così che ogni ente territoriale sia in grado di meglio valorizzare le esigenze e le caratteristiche dei singoli territori. Il numero delle materie non mi sembra un problema: le regioni non possono che chiedere l’attribuzione di singole funzioni che rientrino nell’ambito delle materie individuate dalla Costituzione, sull’assunto (che è anche una scommessa) che la gestione delle stesse possa essere più efficiente a livello regionale che a livello statale. Non condivido nemmeno la tesi che al Parlamento non sia riconosciuto il ruolo che merita: le intese sono il frutto di un accordo che non può essere emendato per il motivo, logico ancor prima che giuridico, che, se così fosse, la Regione si troverebbe costretta ad applicare l’intesa non avendone condiviso fino in fondo i contenuti. Peraltro, la bozza Calderoli prevede che lo schema di intesa debba essere sottoposto alla Commissione bicamerale sulle questioni regionali perché la stessa rilasci un parere che, seppur non vincolante, non potrà che anticipare l’atteggiamento del Parlamento sull’accordo raggiunto”. Si accentuerà il divario tra Nord e Sud? “L’assetto attuale non fa crescere né le regioni settentrionali, sottoposte a una formidabile stretta fiscale (avanzi all’incirca pari al 10 percento del pil), né il Mezzogiorno che arretra malgrado le ingenti risorse ad esso destinate (disavanzi pari al 10 percento del pil). Con il riconoscimento di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia alle regioni si esce dalla logica dello sviluppo indotto e governato dall’alto, valorizzando i territori nel rispetto del principio di responsabilità. Sono convinto che la crescita delle regioni più ricche, che dell’autonomia si alimenta, non possa che favorire anche le altre: esse potranno avvantaggiarsi delle maggiori risorse che verranno messe loro a disposizione (sempre che, ovviamente, queste ultime siano gestite in modo più efficiente di quanto è avvenuto fino a oggi)”.


Che cosa vuol dire per lei “autonomia”? “Non penso che ci sia un modo veneto o lombardo di intendere l’autonomia. Per me vale il pensiero di Carlo Cattaneo: il federalismo come strumento per garantire al meglio la libertà individuale. Nello stesso senso, anche Norberto Bobbio sosteneva che ‘il federalismo è l’unica teorica possibile della libertà’”. Per la “bozza Calderoli”, se i Lep non verranno definiti entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge, si potrà procedere ugualmente con i trasferimenti. E’ un lasso di tempo congruo? “Attendiamo la determinazione dei Lep da oltre dieci anni, sicché occorre introdurre forti incentivi perché ad essa si arrivi. Segnalo peraltro che il prof. Zanardi, ex componente dell’Ufficio parlamentare di Bilancio, sostiene che l’operazione non presenta elevati profili di complessità. In ogni caso, ci tengo a dire che, come rilevato dal gruppo di lavoro nominato dal ministro Gelmini e presieduto dal prof. Caravita, la fissazione dei Lep non può considerarsi come condizione necessaria al fine della realizzazione dell’autonomia differenziata. Se così si ritenesse si finirebbe per consegnare l’attuazione di una norma costituzionale, l’art. 116, terzo comma, alla discrezionalità del legislatore statale, il quale potrebbe tenere sotto scacco le intese per un tempo indefinito”. Il divario tra Nord e Sud rischia di accentuarsi? “Nell’attuale situazione la locomotiva del Nord non corre più e le distanze si stanno ampliando. Le regioni del Sud potrebbero contare su risorse ancora maggiori provenienti da quelle del Nord. Se ben impiegate, per esempio per investimenti in infrastrutture e non in spesa corrente, il divario potrebbe certamente ridursi”. Ha senso collegare l’attuazione del federalismo alla riforma presidenziale? “Mi sembra un modo per prendere ulteriore tempo: le due riforme possono tranquillamente procedere indipendentemente l’una dall’altra”.  
 

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