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(1927-2022)

In morte di Sforza Ruspoli, che non ha potuto godere dei successi meloniani

Michele Masneri

Prima della sovranità alimentare c’era il sogno fascistissimo dei principi contadini, senza nessuno in mezzo, soprattutto non l’odiata middle class capitalista

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Avesse resistito ancora un po’, Don Lillìo, principe contadino, avrebbe potuto godere dei successi meloniani, e magari invitare a cena anzi pranzo il formidabile compagno bracciante Aboubakar Soumahoro che gli sarebbe stato di certo simpatico. Decano della nobiltà nera, nerissima, romana, col baschetto un po’ franchista e un po’ da chansonnier francese, col suo motto “meglio i nobili che gli ignobili”, Sforza Ruspoli detto Lillìo, principe romano, morto due giorni fa a 95 anni, ben rappresentava quella lunga storia d’amore tra l’alta nobiltà e la destra fascistissima che imperava a Roma da un secolo a questa parte. Andare a cena da Don Lillìo era un’esperienza.

 

Si capitò, come l’Alberto Sordi di “Una vita difficile”, in quel palazzo, qualche anno fa, e lì, nei saloni affrescati di quel che rimaneva alla famiglia della secolare magione, dopo gli sconquassi del fratello meno sovranista e più edonista Dado (pappagalli sulla spalla a Capri e tutto quanto), una cena “seduti” in onore (giuro) di qualche discendente di Francisco Franco giunto dalla Spagna. Presenti Gina Lollobrigida, molto amica di casa, col baby fidanzato, molti blasoni, il conte Volpi proprietario della villa di Sabaudia, molti nodi di cravatte un po’ da immobiliaristi (il mischione romano). Discussioni su cause e parenti e quadri prestati a musei, come sempre in questi ambienti.

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Prima del pranzo, Don Lillìo (baschetto in testa anche in casa, quasi completamente cieco, poveretto), fece un discorso pre-meloniano, “in fondo qui siamo tutti amici, non contano le differenze politiche”, era il succo, tipo il “sono più le cose che ci uniscono di quelle che ci dividono”, del nemico Paolo VI, che abolì la corte pontificia “per ingraziarsi i comunisti”, com’ebbe a dire il principe all’epoca. Poi passò tra i franchisti i nobili e gli attori uno stornellatore che con chitarra cantava canzoni romanesche, per il giubilo degli ospiti stranieri, giustamente “aux anges”. Ah, Roma. Però questa storia non riguarda solo il costume buffo della nobiltà più bizzarra d’Europa, quella romana. Certo, la seconda moglie Maria Pia Giamporcaro poi con cognome inurbato in Giancaro, già attrice, oggi perfetta socialite e collaboratrice di Novella 2000, principessa impeccabile e del resto “il più nobile gentiluomo che abbia mai conosciuto è mio genero, capostazione” era un altro dei motti ruspoliani.

 

Però non era solo questo. Don Lillìo da sempre corteggiava (non molto ricambiato) la politica, in una peculiare versione protopatriarcale da feudalesimo, un Carlo d’Inghilterra senza il giardinaggio bio, ma con crocifisso e fiammella. Che fantastico ministro della Sovranità alimentare sarebbe stato (o anche della sovranità e basta). Aveva fondato i Centri d’azione agraria, movimenti in teoria “apartitici”, in difesa della civiltà contadina, e nel 1989 si presentò come capolista candidato per la Destra nazionale alle elezioni comunali di Roma, ottenendo 37 mila e 240 voti di preferenza e un seggio di consigliere in Campidoglio. Fu il successo politico più alto del principe che sempre si sognò onorevole, ministro, anche presidente della Repubblica (o al minimo sindaco della sua Cerveteri, di cui però era anche principe). 

 

Peggio andò alla figlia più piccola Giacinta (nome di una santa in famiglia) che fu candidata con Giorgia Meloni in comune nel 2016 proprio con lo slogan paterno (“meglio i nobili che gli ignobili”) ma prese solo 136 preferenze – ma candidarsi in politica con risultati disastrosi per i rampolli di certa nobiltà romana è l’equivalente di disegnare gioielli per altra. Solo che gli amici un gioiello te lo comprano, nel segreto dell’urna invece sei solo. Don Lillìo però rappresentava l’ultimo di una razza, e di una storia non solo decorativa, che rientra in pieno nel discorso revanscista meloniano, il rivendicare “il riscatto pe’ un sacco di gente, direttò”, come ha detto Meloni in uno dei momenti più alti della lunga cavalcata, all’ancora direttore del Tg2 e non già ministro due giorni prima delle elezioni. Perché a Roma la destra-destra, leggi Msi, respinta dalla borghesia che si era gettata nelle braccia della Dc, aveva soprattutto invaso due bacini di utenza, entrambi marginali ma entrambi significativi, ribellisti, nostalgici. Il sottoproletariato, e l’aristocrazia. Del resto lo diceva già proprio Lillìo Ruspoli, che in ufficio teneva un poster di Emiliano Zapata: “Dai tempi della Vandea il vero nemico è lei, la borghesia!”. Il sogno feudale fascistissimo era il rapporto diretto tra il principe e la plebe, senza nessuno in mezzo, soprattutto non l’odiata middle class capitalista.

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Per paradosso lessicale il boss e capostipite di questo sogno romano in nero si chiamava proprio Borghese. Capo della Decima Mas, golpista, occhio bendato, “principe nero” per eccellenza. Al suo funerale in Santa Maria Maggiore, tra i parenti blasonati, nel 1974, si colse un certo scompenso e sconcerto quando un gruppo di facinorosi sequestrò la bara che faticosamente era entrata nella cripta di famiglia, e la portarono via. Non rapitori di salme ma inguaribili nostalgici, l’obiettivo era di raggiungere Palazzo Venezia, “ma poi ci limitammo a fare il giro della basilica e rientrammo dal portone principale” ha ricordato Teodoro Bontempo, leggendario “er pecora”, capopopolo della destra romana, che arrivò fino a essere assessore regionale ma che prima dormiva volentieri in macchina, rappresentante appunto di quel riscatto, direttò. 

 

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Junio Valerio Scipione Alfredo Ghezzo Marcantonio Maria dei Principi Borghese, già ufficiale della Regia Marina d’Italia, poi al comando della Decima Mas della Repubblica di Salò dove si macchiò di reati di guerra, dopo tre anni di detenzione e la condanna a due ergastoli fu liberato subito per effetto dell’amnistia Togliatti. Nel dopoguerra fu presidente del Movimento sociale. Si sentiva, racconta Filippo Ceccarelli in “Invano” (Feltrinelli), “la sintesi tra uno spavaldo feudatario e un coraggioso capitano di ventura, un aristocratico cui piaceva a volte comportarsi come un plebeo”. E siamo di nuovo lì, all’idea del leader populista ante litteram. Molti pensarono a lui come a un possibile sovrano di una fantasiosa Italia restaurata. La tentazione dinastica fu forte, anche in Julius Evola, ideologo della destra, artista oggi in fase di sdoganamento, “barone magico”, che sognava una visione antiborghese della vita, non verso il basso, a “dar luogo ad un regime di popolo e di masse”, ma verso l’alto, per instaurare “una nuova epoca aristocratica”. E così, fino a immaginare un nobile romano sul trono d’Italia, passando sopra a due secoli di divisioni tra nobiltà bianca e nera e soprattutto alla conclamata inanità di certi blasoni romani (e siamo al “Marchese del Grillo”, sempre Sordi). Che poi, pure sul blasone dell’Evola, ci sono sempre stati molti dubbi. Il padre, originario di Cinisi (Palermo), era registrato all’anagrafe come falegname.

 

A Roma, poi, accanto alla vecchia sede del papato e poi dei re d’Italia, il Quirinale, sedeva già una regina o papessa che dir si voglia. Donna Elvina Pallavicini, detta Ninì, con la doppia blasonatura, anzi tripla, nata Medici del Vascello dunque discendente di quel Giacomo aiutante di campo di Garibaldi; maritata Pallavicini e poi con figlia andata in sposa all’erede del maresciallo Diaz, duca della Vittoria. Donna Elvina sempre in Capucci nonostante la sedia a rotelle teneva le sorti di questo variegato e sgangherato mondo destrorso, ospitando volentieri l'arcivescovo Marcel Lefebvre che voleva un ritorno della Chiesa all’antico, messa in latino e tutto il resto (e siamo di nuovo in un film di Alberto Sordi, qui episodio “First Aid” dei “Nuovi mostri”), e organizzava contromanifestazioni, come  quando in un incongruo tour promozional-dinastico Marina Doria organizzò nel 1986 a Roma una grande charity anti Aids, e Donna Elvina fece un gran controparty.

 

I romani non ebbero dubbi. Marina Doria dal suo party deserto rispose: “Auguro che nessuno della sua famiglia si prenda mai questa terribile malattia”. Al funerale di donna Elvina nel 2004 a San Lorenzo in Lucina i Ciampi dirimpettai presidenti della Repubblica sedevano insieme ai Fini e gli Storace e gli Alemanno,  protagonisti di quella stagione di postfascisti romani ormai normalizzati da dieci anni (ma a leggere a ritroso tutte queste storie, viene in mente che il bel discorso identitario di Meloni, l’underdog fiammellato, “un riscatto pe’ tanta gente”, forse non regge temporalmente. Meloni si tessera e scende in campo nel 1992, alla morte di Borsellino. Ma già nel 1994 la lunga cavalcata nel deserto è terminata). Ma il revanscismo rimane inscindibile da questa storia. “Alla fine un giovanottone con baffi e pizzo alla Italo Balbo intona con voce stentorea ‘Sole che sorgi libero e giocondo’, tutta la sala lo segue in coro, scattano un paio di saluti romani. Si inumidiscono gli occhi del vecchio conte Gaetani Lovatelli, federale di Roma”, racconta una cronaca del 1990.

 

Era Loffredo Gaetani Lovatelli, uno dei fondatori del Msi, appartenente a una delle più antiche famiglie d’Italia e di Roma. Ma poi uno dei riti della gentrification della destra, nel ’94, quando Fini andò al governo e questa destra romana o romanizzata divenne improvvisamente presentabile (indimenticabile la visita londinese con Danielona Fini in calesse di stato dalla regina Elisabetta) insieme agli inviti sull’Appia Antica coi cardinaloni da Dagospia furono proprio le cacce anzi le “cacciarelle” al cinghiale nelle tenute di Sforza Ruspoli a Cerveteri. E siamo di nuovo a lui, il principe contadino. Che nel ’93 si era tirato indietro alle comunali romane per favorire proprio la candidatura di Fini contro Rutelli (da lì nacque tutto, la nuova destra o centrodestra italiano: Berlusconi inaugurando l’Euromercato di Casalecchio di Reno,  il 23 novembre 1993,  richiesto da una cronista, “Cavaliere, se lei votasse a Roma chi sceglierebbe tra Rutelli e Fini?”, rispose: “Io credo che la risposta lei la conosca già. Certamente Gianfranco Fini”). Fini al comune non andrà mai, ma il principe non smise di fare campagne elettorali. Nel ’97 era nuovamente candidato con una lista civica Alternativa ai partiti. “Cercava voti fra i poveri offrendo porchetta, sognando una Roma ‘santa e popolana’”, scrisse Laura Laurenzi. Per l’occasione ricevette nientemeno che Jean-Marie Le Pen a cena a palazzo. 

 

 “C’erano – riportano le cronache – il cardinale Silvio Oddi e Teodoro Buontempo, la duchessa di Segovia, imparentata con Francisco Franco, e Marcello Veneziani, direttore dell’Italia settimanale, il principe Idris di Libia e Giano Accame, il principe Umberto Ruffo di Calabria e una principessa russa, nipote di un generale che nel 1917 guidava i controrivoluzionari e cugina del leader degli zaristi che ogni tanto fanno sventolare le loro bandiere sulle piazze di San Pietroburgo”. Vabbè.

 

L’obiettivo del principe in quell’incontro a cui ne sarebbero dovuti seguire altri era “ricostruire un’Europa dei popoli, un’Europa tradizionale, cattolica, legata al papato, quell’Europa guidata dalle grandi famiglie che hanno tessuto la sua storia nei secoli passati”. Un tentativo di mobilitare energie per “sconfiggere l’ipocrisia di una sinistra e di una destra asservita ai poteri forti”. Una  destra che “non deve fare il fattorino della Confindustria”. Contro “i grandi monopoli finanziari che hanno derubato il paese per quarant’anni”. Com’era avanti in quel sogno vagamente pre-putiniano (nel senso di Putin che ha restaurato la famiglia reale di Russia, forse tarocca, come testimonial di una Russia antioccidentale e antimoderna).  

 

Poco più giù del Quirinale, alle Quattro Fontane, c’era e c’è il formidabile palazzo del Drago (e donna Elika del Drago, con la K, era dama di compagnia della principessa). E lì nell’augusto palazzo si era trasferita a un certo punto la sede del Msi. Mentre sopra viveva assai intensamente Domietta, grande amore dell’Avvocato Agnelli e poi trasfigurata da Arbasino nella Desideria di “Fratelli d’Italia”, sotto si ponevano le basi per altri FdI

 

Il portiere dello stabile gentilizio era il papà dell’attore Enrico Montesano; e l’usciere lo stesso del Pnf; e il responsabile della sicurezza un ex ardito privo di una mano, racconta Ceccarelli, ma il pezzo forte stava in un nobilissimo signore che a un certo punto andò a dare una mano all’ufficio stampa del partito, un bugigattolo tra lampade al neon e cianfrusaglie accatastate; Don Filippo Napoleone Orsini, dinastia che si perde nella notte dei tempi. Gli Orsini e i Colonna erano da sempre le due famiglie più importanti di Roma, e questo si rifletteva nel privilegio dell’essere le uniche a fornire “principi assistenti al soglio di Sua Santità”, che si tramandavano di generazione in generazione. Finché Orsini, già attempato playboy col curriculum che ci si immagina (guerra di Spagna, Dolce Vita, e tre medaglie d’argento e una di bronzo nella Seconda guerra mondiale), si innamorò perdutamente dell’attrice inglese Belinda Lee, con tanto di patto di sangue e voto di reciproco suicidio, e il Papa Pio XII a cui tutta questa vicenda extraconiugale non piacque per niente nel 1958 tolse per sempre alla famiglia il fatale privilegio, che passò ai Torlonia. Nel fatale 1968 poi Orsini si candidò nelle liste del Msi per la Camera, ma senza successo. Nel 1977 fu acclamato direttore del Dissenso, giornale ufficiale del Fronte della gioventù. Al principe succedette infine Maurizio Gasparri, che il riscatto suo l’ha avuto, e che riscatto, direttò. 

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