Il volo del riscatto: così Tajani è riuscito a salvare la Farnesina, nonostante il Cav.

Valerio Valentini

Tra Metsola e Meloni. Il coordinatore azzurro va a Bruxelles e ottiene il salvacondotto del Ppe. Lo scontro con Tusk, la benezione di Weber. Intanto in Forza Italia la tensione deflagra. La settimana scorsa Berlusconi aveva parlato così ai senatori del Pd: "Quello Zelensky lì è uno un po' particolare, tutt'altro che raccomandabile"

La trasferta del riscatto è valsa a salvare l’onore. “E con ogni probabilità anche la Farnesina”. E’ metà pomeriggio quando l’azzurro Giorgio Mulè si concede un sorriso di distensione: “Figurarsi se chi non è ricattabile – dice con riferimento a Giorgia Meloni – possa farsi condizionare da un audio carpito da una gazza ladra”. Negli stessi minuti, grosso modo, è lo stesso Antonio Tajani, il ministro incognita, a telefonare a Villa Grande. “Meglio del previsto”, spiega a Silvio Berlusconi: il vertice del Ppe lo ha assolto, anzi redento. Quel che il coordinatore di FI deve tacere al Cav., invece, è che i vertici dei Popolari, nell’investire Tajani di nuova responsabilità, hanno condannato proprio lui, il vecchio patriarca. E dire che neppure sapevano l’ultima.

Non sapevano, cioè, che quanto nel discorso ai deputati azzurri di martedì il Cav. aveva omesso, quella preterizione su Zelensky già di per sé abbastanza offensiva (“Non posso dire quello che penso di lui”), lo aveva invece esplicitato  nel giovedì precedente, il dies alliensis del rodeo su Ignazio La Russa. Quando, prima di iniziare le procedure di voto, Berlusconi si è avvicinato ai banchi dei senatori del Pd (“Saluto i miei amici, gente seria, mica come quelli”, con ammiccamento velenoso agli eletti meloniani) e poi, tra una battuta e l’altra, era finito, di nuovo, a parlare della Russia, di Putin (“un leader vero”), di quella volta che, dopo aver sventato la guerra in Georgia fu ricevuto al Cremlino con tutti gli onori, e infine dell’attuale crisi e del presidente Ucraino. “Quello Zelensky lì, un tipo un po’ particolare, eh, tutt’altro che raccomandabile”, aveva detto. E questo prima che Anna Maria Bernini, fiutando l’aria, si avvicinasse per troncare lì il siparietto.

E insomma si capisce perché i timori di Meloni risiedano non certo nell’affidabilità euroatlantica di Tajani, ma nella sua capacità di gestire le intemperanze di Berlusconi. Cosa che forse nessuno saprebbe garantire, se è vero che, a giudizio di chi sta vicino a Licia Ronzulli, la giornata dell’incontinenza verbale del Cav. è stata la prima in cui non c’era lei, la favorita, a scansare, come sempre fa, insidie e giornalisti, a suggerire al capo continenza, a domarlo insomma. “Così forse ora in FdI la smetteranno di dire che era Licia ad aizzarlo”. Anzi. Che dunque in null’altro che in un semplice atto di omessa vigilanza si sia manifestata la vendetta di “colei che tutto può”?

Tajani con la premier che verrà era stato chiaro, due giorni fa. “Farò di tutto per metterci una toppa”, era stato il senso della sua promessa. E così il volo che ieri lo portava a Bruxelles si caricava di aspettativa che andavano ben oltre, e già comunque non era poca cosa, i suoi destini personali. E le dichiarazioni di rinnovata stima da parte della presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, così come il colloquio con Ursula von der Leyen, lo hanno senz’altro rinfrancato. Il clima, lì nella sala centrale della Biblioteca Solvay, a due passi dal cuore delle istituzioni comunitarie, è stato disteso. E Tajani, seduto accanto al portoghese Paulo Rangel, ha fatto leva su ciò che più lo conforta: la sua storia, il suo passato, il suo prestigio di uomo delle istituzioni europee. Il più severo è stato Donald Tusk: il quale, forse anche per equilibri politici nazionali nella sua Polonia che si accinge alla campagna elettorale, ha detto che “non solo Berlusconi, ma anche FI è un problema per il Ppe”. “Un grosso problema”, ha incalzato l’irlandese Leo Varadkar. Ma poi un po’ tutti, e col presidente Manfred Weber in testa, hanno ribadito la loro stima in  “Antonio, our friend”.

Tanto dovrebbe bastare, dunque, per salvare la Farnesina? C’è forse di più. C’è che Tajani, per la Meloni, resta un riferimento irrinunciabile in una FI ormai balcanizzata tra i seguaci del futuro ministro degli Esteri e la Ronzulli. E forse anche per questo oggi dovrebbe esserci anche lui, al Quirinale, nella delegazione del centrodestra. Ieri in Transatlantico, in un colloquio a metà tra il passaggio di consegne e la rappacificazione, Alessandro Cattaneo, neo capogruppo alla  Camera in “quota Licia”, ha incontrato Paolo Barelli, suo predecessore di fede tajanea. La convinzione diffusa è che Meloni esaspererà la tensione interna agli azzurri con l’obiettivo di marginalizzare il Cav. forse proprio puntando sulla ribellione di Tajani. E’ una convinzione su cui anche Matteo Salvini e Giancarlo Giorgetti si sono confrontati, cercando una spiegazione alla fermezza con cui Donna Giorgia ha respinto ogni richiesta di compromesso arrivata da Arcore. “Vuole provare a spaccarli, anche a costo di andare sotto in Aula”, dicono nel Carroccio. Chissà. Di certo c’è, però, che tra tutti i ministrabili azzurri, quella che avrà il compito di riferire tutto al Cav. sarà Gloria Saccani Jotti, possibile titolare dell’Università. Gli altri le loro posizioni le hanno trattate in proprio con Meloni o con Francesco Lollobrigida. Ma per le accuse ormai è tardi. Per le vendette è presto. Intanto, la Farnesina di Tajani dovrebbe essere salva.

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.