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tornare ai fondamentali

Il neoliberismo e le altre boiate pazzesche da evitare nel dibattito sul Pd

Chicco Testa

Concetti astratti, gioco delle alleanze, giri di parole che non reggono la minima prova di un’analisi logica: l'atteggiamento dem, in questi anni, ha allontanato il paese reale. Tuttavia, il partito del Nazareno non è morto. Né è da demolire e ricostrurie da capo

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Per avere successo, e magari anche governare, una forza politica “ideale” dovrebbe riuscire ad allineare tre organi. La testa, vale a dire la razionalità e la fattibilità  di ciò che propone; la pancia, vale a dire la corrispondenza delle sue proposte  con gli interessi della maggioranza dell’elettorato; il cuore, vale a dire quel tanto  di passione che mobiliti l’elettorato. Se esageri con uno dei tre organi non sei credibile e ti consegni alla marginalità. Idem se li metti in conflitto uno con l’altro.

 

Ho l’impressione che il Pd attuale non solo non li allinei i tre organi, ma sia proprio carente per ciascuno di essi. Poca razionalità, poco cuore e pochissima rappresentanza di interessi. Per di più conflitti costanti fra le tre funzioni. Né l’inizio della discussione post elettorale sembra avare imboccato la strada giusta. Ho sentito una dirigente di lungo corso affermare, mentre si candidava alla segreteria, che l’obbiettivo del percorso congressuale dovesse essere quello dell’azzeramento del gruppo dirigente. Cioè di se stessa. Tutti parlano di rifondazione, di nuovo inizio, di nuovo nome, ma nessuno mette sul tavolo un’analisi seria se non la stanca  ripetizione di un pacchetto valoriale alquanto astratto. I diritti, l’ambiente, le ineguaglianze. Obbiettivi per altro mai declinati in modo convincente. Idem per le alleanze che sottendono evidenti differenze di analisi  che non vengono però esplicitate. Il Pd insomma sembra galleggiare in un’astratta nuvola priva di densità e direzione.

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Tuttavia il Pd non è un partito morto. Né un partito da demolire e ricostruire da capo. Queste sono operazioni  infantili fatte per non fare incontri con la storia reale. Un continuo ricominciare come se fosse possibile rinascere ogni volta che qualche cosa va storta anziché fare un bilancio critico. Basterebbe domandarsi per esempio: perché abbiamo successo dove abbiamo successo? Pigliamo il caso della Lombardia. Non l’Emilia, ma la Lombardia del profondo Nord, dove il Pd governa a Milano, nella pianura, nelle città industriali, nella fascia pedemontana. Qual è la caratteristica comune a questi sindaci? Direi, prima di tutto, l’attenzione alla crescita dei loro territori. Crescita urbanistica con i tessuti urbani che si rigenerano continuamente e crescita economica che salda un patto sociale fra impresa e lavoratori e può permettersi di distribuire i dividendi che ne derivano e conti in ordine, anche grazie a un cospicuo gettito fiscale. Il che permette di investire nella crescita e nell’inclusione sociale.

 

Una buona e normale socialdemocrazia insomma di uno stato moderno. Ma appena ci si sposta a Roma il dibattito e l’analisi diventano metafisici. Concetti astratti, gioco delle alleanze, giri di parole che non reggono la minima prova di un’analisi logica. Il paese reale, le sue condizioni materiali scompaiono sepolti dai desideri desideranti e dai proclami. Sono anni che nei documenti e nel dibattito del Pd non compaiono parole  come crescita, debito, produttività. Eppure per chi voglia tornare un attimo ai fondamentali uscendo dal linguaggio senza significato del dibattito dentro il Pd i problemi dell’Italia sono fondamentalmente riconducibili a 1. Alla coppia alto debito / bassa (o zero) crescita. Una coppia che zavorra il nostro paese in modo drammatico e che rende surreale ogni dibattito sulle ineguaglianze e sulle politiche redistributive, che, se capisco bene, sarebbero il mantra della sinistra/sinistra. Quella che vede nell’alleanza con i Ciqnue stelle la strada da percorrere. Senza crescita non vi è assolutamente nulla da redistribuire se non altro debito. Con  i rischi connessi. Cosa che i Cinque stelle e la Lega  hanno dimostrato di saper fare benissimo, zavorrando i conti italiani di altre decine di miliardi di spesa corrente. Senza crescita non funziona l’ascensore sociale e la riduzione delle disuguaglianze assume inevitabilmente i caratteri dello stato assistenziale/clientelare. 

 

Può essere questa la missione del Pd? Il passaggio dalla vocazione maggioritaria alla funzione di sindacato di ceti sociali senza alcuna funzione produttiva? Dalla classe operaia agli assistiti? Ne dubito fortemente e in questa scelta vi sarebbe la rinuncia a rappresentare il meglio dell’Italia. Quella per altro in cui il Pd conserva ancora forza e leadership. Ma affrontare questo punto significa tornare alle questioni fondamentali sollevate durante la segreteria Renzi, con tutti gli annessi e connessi, smetterla di coprirsi dietro lo slogan della critica al  neolibberismo (con 2 b), per altro mai visto in Italia, e tornare ai fondamentali. Si fa fatica. Meglio restare nell’empireo della sinistra plurale, del profilo identitario e di altre  frasi  vuote di significato e  dove tutti i gatti sono bigi. Di notte, ma purtroppo anche di giorno.

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