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l'estetica è sostanza

Meloni gela l’entusiasmo dei suoi: “Sarà durissima”. E fa loro un regalo educativo: la cravatta

Salvatore Merlo

“Sarò molto esigente”, ha detto la leader di FdI ai parlamentari. “Chiedo dedizione e disciplina”. Punta sulla sobrietà e sulla responsabilità nel tentativo di formare il prossimo governo e di lanciare un messaggio ai neoletti: nella prossima fase, non si urla

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I neoeletti di Fratelli d’Italia escono da via di Campo Marzio, cento metri dalla Camera dei deputati, dopo aver ascoltato il saluto di Giorgia Meloni nel primo giorno di scuola. Qualche zelante ha detto loro di non parlare con i giornalisti, “non dite nemmeno come vi chiamate”. E loro, crocifissi dalle bocche cucite, privi di spiritosa scioltezza, esibiscono il cipiglio chiuso di chi ammetterebbe con difficoltà anche solo di aver mai respirato. Persino di fronte alle domande banali, tipo: “È emozionato?”. Silenzio. L’effetto è teneramente comico. Ma è l’interpretazione, sebbene tetragona, degli umori e delle parole di una leader che sa di non poter sbagliare, che si gioca tutto, e che al culmine della tensione nervosa diffida pure dei suoi.

 

Giorgia Meloni li vorrebbe educare, questi suoi parlamentari. Renderli apostoli del suo verbo, compenetrati nell’impresa che lei sente addosso come un peso fisico persino eccessivo: il governo da costruire, il pericolo di venire inghiottita per sempre da una delle tante difficoltà che si aprono come botole per tutta la lunghezza di un cammino reso accidentato dalla crisi energetica, dall’isolamento europeo, dall’inflazione galoppante, dagli alleati assai poco affidabili. Così ieri la leader li ha catechizzati, questi suoi parlamentari. Tutti. “Sarò molto esigente”, ha detto loro. “Chiedo dedizione e disciplina”, ha aggiunto. E poi la parola “responsabilità”, ripetuta ancora e ancora, con un’insistenza non disperata ma di certo accorata.

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E allora non è affatto un dettaglio che la leader di Fratelli d’Italia, lei che potrebbe a breve diventare la prima donna presidente del Consiglio nella storia della Repubblica, abbia poi regalato a tutti loro, donne e uomini, senatori e senatrici, deputati e deputate, la stessa cravatta blu con un piccolo tricolore (per le donne un cravattino Lavallière). Quello della cravatta è infatti un invito tanto più emblematico quanto più implicito nella sua confezione regalo e concreto nel suo obiettivo estetico, a cominciare dal colore, dalla sfumatura tenue della seta blu la cui forza sta nella sobrietà. L’antropologia, com’è noto, si è ampiamente dedicata al tema della cravatta. Natura, ordine, significato rituale e simbolico: il vestire per bene e senza sfoghi, il fare per bene, il pensare per bene, la mancanza di eccessi.

 

La cravatta insomma come il dovere politico d’interpretare una fase in cui non si urla, ma si esercita la diplomazia in Europa e nel Palazzo, dunque si pensa a offrire la vicepresidenza di qualche commissione bicamerale al centrosinistra, si ascolta il presidente della Repubblica e anche Mario Draghi, si sorride a Ursula von der Leyen persino quando appare inadeguata, si fa spallucce di fronte alle arroganze dei francesi con i quali al contrario ci si prepara a dialogare, e infine ci si guarda circospetti dal populismo senza briglia di Matteo Salvini (e che san Luca Zaia, sempre sia lodato, ce ne liberi).

 

È come se Meloni si proponesse di modellare persino l’aspetto dei suoi parlamentari, che vuole incravattati. Perché l’estetica è sostanza. E l’estetica che la leader propone  è tutta un invito a moderare la iattanza, anche fisica, e a compenetrarsi nel nuovo ruolo e nei nuovi tempi. “Responsabilità”, ripete lei. “Compattezza”, aggiunge. “Sacrificio”, conclude. Dunque ieri, seppur nel clima di allegria che sempre sospinge chi è stato preso per il gomito dalla buona sorte elettorale, Giorgia Meloni li ha anche un po’ raffreddati nell’entusiasmo di neofiti, questi uomini e queste donne. Se non li ha persino un po’ intimoriti, loro che invece la accoglievano felici, festanti, con un lungo applauso.

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“Non ci aspetta un periodo facile. Né per noi né per l’Italia”. Così loro la celebravano come l’eroina, la campionessa, la donna che porta la storia del Movimento sociale alla presidenza del Consiglio. Mentre lei invece li osservava come il proprietario di una scuderia da corsa rimira con benevolenza, non esente da ansia, un serraglio di puledri che non hanno ancora dimostrato di cosa sono capaci; un giorno realizzeranno forse le speranze riposte in loro, tranne che non si rompano una zampa al primo ostacolo mandando in infermeria il fantino e facendo anche fallire l’intera scuderia.  

 

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Insomma è per questo che uscendo dall’Aula, dopo il discorso di Meloni, pressati su via di Campo Marzio  da un grappolo compatto  di telecamere e microfoni, i puledri fuggivano in silenzio, a esclusione dei più scafati come Adolfo Urso e Ignazio La Russa, che possono (quasi) sempre dire tutto dicendo niente, o i gigioni come Guido Crosetto (“io? Ma io non so nulla. Non sono nella stanza dei bottoni”). Tutto cambia quando entrati alla Camera, alcuni giovani deputati di Fratelli d’Italia incrociano Ettore Rosato, il deputato di Italia viva, l’autore dell’omonima legge elettorale, il famoso Rosatellum. Lo guardano con ammirazione. Gli stringono la mano. Battuta fulminante: “Se stiamo qua dentro è solo grazie a lei”. Un sorriso, finalmente. 

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