Walter Veltroni e Achille Occhetto con il simbolo del Pci nel 1989 (Olycom) 

verso il congresso

A che punto è la notte del Pd nelle parole dei suoi dirigenti

Francesco Cundari

Rifondazione o ricreazione? Il Partito democratico continua ad andare di Cosa in Cosa da oltre trent’anni. Tra il culto della memoria e l’ossessione per il nuovo

La direzione del Partito democratico si è conclusa giovedì con la decisione di aprire non un semplice congresso, ma una fase costituente. Nel corso del dibattito, della modica durata di ore dieci, si è discusso conseguentemente anche dell’ipotesi di cambiare nome e simbolo (sia pure, almeno fin qui, per scartarla, sollevando qualche legittimo interrogativo sulla natura di una grande fase costituente al termine della quale si ricostituisca un partito con lo stesso nome e simbolo di prima: sarà più giusto chiamarla costituente o ricostituente? Rifondazione, rigenerazione o rinascita? O magari, più esattamente, ricreazione?).


Un lettore appena arrivato qui per la prima volta dall’Australia, dall’Ungheria o dal Giappone potrebbe legittimamente dedurre da parole così impegnative, comunque sia, una particolare gravità della situazione. Ma un lettore che abbia vissuto in Italia e abbia letto un giornale anche solo un paio di volte negli ultimi trent’anni non può non avere, al contrario, una fortissima sensazione di déjà vu, ai limiti della labirintite. Per non dire proprio l’impressione di essersi svegliato ancora una volta nel giorno della Marmotta.


“Una costituente per aprire una nuova prospettiva della sinistra”, non per niente, era il titolo della relazione pronunciata il 20 novembre 1989 da Achille Occhetto davanti al Comitato centrale del Partito comunista italiano. In quella sede il segretario del Pci aveva polemizzato con le indiscrezioni giornalistiche fiorite intorno alla “svolta” e al possibile cambiamento del nome del partito, in qualche modo (obiettivamente non chiarissimo) annunciato una settimana prima, nella famosa riunione della Bolognina. Dopo avere denunciato il tentativo di svilire tutto a mera operazione di immagine, Occhetto aveva quindi aggiunto: “Si è smarrito così il rapporto tra il nome e la cosa. Prima viene la cosa e poi il nome. E la cosa è la costruzione in Italia di una nuova forza politica”.

 


Chi abbia letto un giornale anche solo un paio di volte negli ultimi trent’anni ha l’impressione di essersi svegliato ancora nel giorno della Marmotta



Da quell’istante in poi, piaccia o no, il frutto di tante sofferte riflessioni sarà per giornali e televisioni semplicemente “la Cosa”. Una maledizione che accompagnerà anche tutte le costituenti, gli stati generali e le rifondazioni successive. A cominciare dal congresso che nel 1998 darà vita ai Democratici di sinistra, subito ribattezzati dai giornali: “La Cosa 2”. E anche il documentario dedicato da Nanni Moretti, nel 1990, al travagliato dibattito che accompagnerà l’abbandono del Pci s’intitolerà proprio così: “La Cosa”. L’intera operazione, cominciata con quelle parole pronunciate da Occhetto nel novembre 1989, si concluderà solamente nel 1991, dopo ben due congressi (uno per discutere il se, l’altro per decidere il come) e un’infinità di assemblee, direzioni, comitati centrali, scissioni, lacerazioni, lacrime.


Fabrizio Rondolino, allora giornalista dell’Unità, rimarrà colpito soprattutto dalle lacrime. “Tutti piangevano: i delegati, il servizio d’ordine, gli invitati, le segretarie, persino qualche giornalista. Piangeva anche Occhetto, sopraffatto dall’emozione e finalmente libero dalla tensione di quindici mesi passati a discutere, a litigare, a sbranarsi in un interminabile dibattito sul ‘nome’ e sulla ‘cosa’. La Germania per riunificarsi impiegò quattro mesi in meno di quanti ne impiegò il Pci a cambiare nome” (“Il nostro Pci”, Rizzoli).

 


Occhetto nell’89: “Si è smarrito il rapporto tra il nome e la cosa”. Da allora, il frutto delle tante riflessioni sarà per i media solo “la Cosa”



Forse poche cose spiegano l’abisso tra aspirazione e realtà, tra quanto si prendessero sul serio fra di loro e quanto li prendessero per il culo gli altri, più di quell’immediato e inarrestabile scivolamento da Giustiniano a John Carpenter, dal maldestro tentativo di filosofeggiare attorno al rapporto tra mondo e linguaggio (“Prima viene la cosa e poi il nome”), all’infinita serie di sberleffi che “la cosa” avrebbe generato da quel momento in poi. Proprio come nella celebre gag di Corrado Guzzanti sul “siluro di Occhetto” e sulla sua insidiosa traiettoria, che terminava sempre e inesorabilmente nello stesso punto.


La riflessione di Rondolino è utile però soprattutto per tornare ai dibattiti di oggi, perché proseguiva così: “… Ma, soprattutto, lo scontro di quell’anno e mezzo fu tutto interno, e nel suo tramonto il Pci, forse per la prima volta nella sua storia, non seppe parlare al paese del paese, come avevano insegnato i maestri, ma parlò di se stesso a se stesso, in un’estenuante seduta di autocoscienza collettiva senza fine e, ahimè, senza interesse alcuno per chi non fosse comunista da almeno tre generazioni”. 


Chiunque abbia seguito anche solo dieci dei circa seicento minuti di discussione di giovedì avrà già capito dove voglio arrivare. Quel modo di discutere, che certo allora aveva anche mille giustificazioni storiche, politico-ideologiche e psicologiche, non è stato un’eccezione, ma la regola, di lì in poi (anche quando le ragioni storiche e politico-ideologiche apparivano meno significative), coinvolgendo e uniformando a sé, nel Partito democratico, persino chi proveniva da una tradizione dove simili riti erano sconosciuti. Forse anche perché, quanto meno nel rapporto con il potere, quella tradizione era tutto sommato più laica (parlo ovviamente della Democrazia cristiana). 


Mai comunque si era visto lo stesso segretario, all’indomani di una sconfitta elettorale, anticipare la scelta di non ricandidarsi (che non è la stessa cosa di dimettersi, ma adesso non stiamo a sottilizzare) e contemporaneamente annunciare l’intenzione di guidare il grande processo di rifondazione del suo partito, delineando pure un dettagliato percorso in “quattro fasi”, con una lettera aperta a tutti i militanti (su Facebook, per di più). 


In estrema sintesi: la prima fase sarebbe quella della “chiamata” (che “durerà alcune settimane perché chi vuole partecipare a questa missione costituente, che parte dall’esperienza della lista ‘Italia Democratica e Progressista’, possa iscriversi ed essere  protagonista in tutto e per tutto”); la seconda – tenetevi forte – sarà “quella dei nodi” (che “consentirà ai partecipanti di confrontarsi su tutte le principali questioni da risolvere”, e cioè “l’identità, il profilo programmatico, il nome, il simbolo, le alleanze, l’organizzazione”); la terza sarà quella del “confronto tra le candidature” (per arrivare a due); la quarta quella delle primarie.

 


Nella direzione Pd, la vaghezza dei concetti è stata direttamente proporzionale all’enfasi delle parole e all’ampiezza delle circonlocuzioni



Il dibattito innescato dall’annuncio di una simile svolta, in direzione, non è da meno. Come sempre in simili occasioni, la vaghezza dei concetti è stata direttamente proporzionale all’enfasi delle parole, all’ampiezza delle circonlocuzioni e alla solennità dei toni.


C’è il percorso in “quattro fasi” di Enrico Letta e c’è la “terza fase”, non di Aldo Moro, ma di Roberto Morassut (intendendo come prima fase, in questo caso, l’alleanza dei partiti di centro e di sinistra nella coalizione dell’Ulivo, e come seconda fase la loro fusione nel Pd). 


“Abbiamo un gruppo, un ‘brain’, di dieci, quindici figure, che possa offrirci un manuale della sinistra nei prossimi dieci anni, quindici anni, per farlo viaggiare in mille assemblee, nei luoghi di studio, di lavoro, nei territori?”, si domanda il deputato romano. “Questo io credo che possa essere un percorso, in grandi assemblee che diventano il cuore della costituzione di questa terza fase di un soggetto più ampio, che va oltre i nostri circoli, che va oltre le nostre organizzazioni consolidate”. Dice proprio così: un “manuale della sinistra”, opera di dieci-quindici intellettuali, e chissà se intenda un libretto di istruzioni su come si usa la sinistra, su come si accende e come si spegne, o più un testo scolastico, con le lezioni da studiare a casa e ripetere all’interrogazione.  


In ogni caso, dopo la cosa, verrà il problema – pardon, il tema – del nome. Perché “è chiaro che al termine di un percorso costituente che costituisce una nuova fase tu hai il problema di una denominazione, e quella denominazione per me è importante nell’aggettivo, questa volta non si tratta di cambiare l’aggettivo, in passato abbiamo lavorato sull’aggettivo, l’aggettivo per me resta ‘democratici’ (…), il tema è la parola partito, lo dico essendo un uomo di partito, affezionato a quella parola, che mi smuove anche emotivamente, ma sapendo che quella parola diventa un ostacolo a costruire una fase di movimento che è necessaria per creare le condizioni di un nuovo soggetto politico”.


Il ragionamento si potrà non condividere, ma ha un senso. Dalle ceneri del Pci nacque nel 1991 il Partito democratico della sinistra (Pds), da cui nel 1998 nacquero i Democratici di sinistra (Ds), che fondendosi con la Margherita diedero vita nel 2007 al Partito democratico (Pd), che ora, secondo Morassut, dovrebbe lasciare il campo ai Democratici (D). La sequenza, come si vede, ha una sua indiscutibile linearità. 


Siccome però non si può star dietro a tutto, andando di Cosa in Cosa da oltre trent’anni, Morassut non si avvede di essere tornato indietro, anziché andare avanti, perché i Democratici non solo erano già stati fondati (nel 1999), ma erano pure già confluiti nella Margherita, e dunque, attraverso la Margherita, nel Pd. Si prospetta quindi il rischio di una spirale, o per essere più esatti il rischio di un procedimento ricorsivo. E vale comunque anche la pena di sottolineare che per questa ragione, tecnicamente, quello dei Democratici non sarebbe un sequel, ma uno spin-off. 


Degno di nota anche quel modo curioso di riferirsi ai precedenti esperimenti: “In passato abbiamo lavorato sull’aggettivo”. E’ vero. Eccome se è vero. Si potrebbe anzi dire che la lunghissima agonia del post-comunismo italiano è stata soprattutto la storia di una inesausta ricerca di aggettivi, le cui primissime tracce possono essere rinvenute in un aneddoto ricordato da Achille Occhetto, molti anni dopo, a proposito di una conversazione avuta nel 1974 con Enrico Berlinguer. 

 

Berlinguer era in Sicilia per la campagna referendaria sul divorzio, il giovane Occhetto era con lui in qualità di segretario regionale. “All’improvviso mi chiese a bruciapelo: ‘Cosa ne pensi se cambiassimo nome al Pci?’. Rimasi di sasso, senza respiro. Poi la mia vocazione di nuovista prese il sopravvento e mi apprestai a discutere dell’argomento con grande entusiasmo. Lui continuò dicendo: ‘Lenin cambiò il nome al Partito socialdemocratico russo per molto meno. Le differenze di allora tra il pensiero di Lenin e quello di Kautsky erano molto meno grandi di quanto oggi ci divide dal Partito comunista dell’Unione sovietica. Fantasticammo per un po’ sulle prospettive future e alla fine mi chiese: ‘Che nome gli daresti?’. Ci pensai un po’, poi timidamente azzardai: ‘Partito Comunista democratico’. Lui sorrise con aria di sufficienza e mi rispose: ‘Da un lato è troppo poco, e dall’altro si finirebbe per far credere che noi attualmente non siamo democratici’” (“Secondo me”, Piemme).

 

 


L’abitudine ormai inveterata di risolvere il problema cambiando, ogni volta, il nome e l’insegna, come piazzisti in fuga dai creditori



C’è qualcosa di psicanalitico in questa eterna coazione a ripetere, ma soprattutto nella schizofrenia di un mondo che oscilla continuamente tra il culto della memoria e l’ossessione del nuovo, la mitizzazione del proprio passato e l’ansia di cancellarne ogni traccia, la continua retorica delle radici e l’abitudine ormai inveterata di risolvere qualunque problema cambiando, ogni volta, il nome e l’insegna, come piazzisti in fuga dai creditori.


Ed è davvero singolare, ma forse anche la prova ultima di quanto il famoso amalgama, in fondo, sia perfettamente riuscito, che una tale sindrome abbia ormai contagiato anche chi con la storia del post-comunismo italiano non ha proprio nulla a che fare. Lo dimostra abbondantemente l’ultima direzione, con la sfilata di ministri e sottosegretari intenti a spiegare il duro sacrificio compiuto nell’ultimo decennio, per farsi carico dell’interesse del paese, andando praticamente sempre al governo, pur prendendo, proprio per questo, sempre meno voti (analisi che peraltro la dice lunga sulla reale considerazione che tanti dirigenti del Pd hanno delle proprie capacità). Lo dimostra la generale invocazione, da parte di tutti, a cominciare da Letta, di un rigenerante e possibilmente lungo ritorno all’opposizione. Dopo tanti anni, insomma, si direbbe che la fusione tra Ds e Margherita abbia prodotto l’esito più impensato: una Democrazia cristiana che si crede il Partito comunista.