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I leader usa e getta

Dai vertici del consenso all’abisso dello sberleffo. I partiti di plastica, alla lunga, hanno generato politici di cartapesta

Francesco Cundari

I capi dei partiti di ieri erano (o almeno cercavano di apparire) forti e sicuri di sé. Oggi, saranno le nuove mode culturali cui tutti finiscono per uniformarsi, ci appaiono fragili. Imbarazzanti e forse loro per primi imbarazzati

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Quando crollarono i partiti e si cominciò a parlare di personalizzazione della politica, politica-spettacolo e leaderismo, tra la fine della Prima e l’inizio della Seconda Repubblica (o come le volete chiamare), pensavamo di essere all’alba di una nuova era. E così, probabilmente, abbiamo finito per scambiare l’eccezione per la regola. 

Abbagliati dalla forza della leadership berlusconiana, abbiamo pensato che quello fosse il nuovo standard, il modello cui tutti gli altri, volenti o nolenti, si sarebbero conformati. Abbiamo creduto che dalle macerie dei partiti, dei loro apparati e delle loro liturgie, sarebbero emersi i nuovi formidabili protagonisti di un’altra stagione, con tutta la loro dirompente energia. Ci siamo convinti che avrebbero rivoluzionato ogni aspetto della nostra vita pubblica e forse un po’ anche privata, che avrebbero reso la politica italiana più simile a quella americana, che avrebbero occupato il centro della scena per chissà quanto tempo.

 

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 Forse non abbiamo tenuto nel dovuto conto il dettaglio che non tutti potevano avere a propria disposizione un impero televisivo e finanziario, con ciò che comporta anche in termini di relazioni, organizzazione, uomini e mezzi, e sinceramente neanche il talento puro di Silvio Berlusconi (comunque si giudichi il modo in cui lo ha utilizzato).
Ma il Cavaliere, con la sua leadership ultraventennale, è stato un caso unico. Gli altri, quelli del centrosinistra, sono stati al massimo leader intermittenti, carsici, ricorrenti, sempre costretti a lunghi ripiegamenti prima di poter tornare in prima linea, quando ci sono riusciti, per essere poco dopo nuovamente respinti nelle retrovie. 
E’ stato così per Romano Prodi, che Berlusconi lo ha battuto due volte, ma non è mai riuscito a governare per più di un paio d’anni. E’ stato così per Massimo D’Alema e Walter Veltroni, che si sono spesso avvicendati e fatti la guerra nei diversi partiti e coalizioni di cui sono stati di volta in volta il capo o l’eminenza grigia, il fondatore o l’affondatore, ma tutto considerato hanno passato più tempo a leccarsi le ferite e programmare rivincite che non sarebbero mai venute, asserragliati nei rispettivi fortini, che a condurre il proprio esercito in battaglia.

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Certo nulla avevano a che vedere, quei leader dimezzati, sempre in equilibrio tra provvisorie ritirate e precarie riscosse, con i segretari del vecchio Pci, da Palmiro Togliatti a Enrico Berlinguer, che restavano in carica finché erano in vita, o perlomeno in salute, come Luigi Longo, fino all’ictus che lo costrinse ad accelerare la successione, o come Alessandro Natta (solo che, in quest’ultimo caso, furono i successori ad approfittare non troppo delicatamente del suo malore, per accelerare il passaggio di consegne). In ogni caso, anche i capi provvisori della Seconda Repubblica (o come la volete chiamare), con tutti i loro limiti, erano leader intramontabili rispetto a quelli di oggi. E’ come se i partiti di plastica, alla lunga, avessero generato leader di cartapesta, usa e getta, rottamabili, in molti casi magari riciclabili in altri ambienti e contesti, ma non riutilizzabili. Negli ultimi anni il fenomeno ha avuto un’accelerazione notevolissima. Si potrebbe dire persino che l’estrema deperibilità delle leadership sia la caratteristica principale di questa nuova fase della politica italiana.

Il caso più clamoroso, senza dubbio, è quello di Luigi Di Maio. Capo politico di quel Movimento 5 stelle che alle elezioni del 2018 si afferma come primo partito con il 32 per cento, finisce la legislatura da leader di una lista che i sondaggi più benevoli accreditano dell’1. Tanto da sollevare qualche legittimo interrogativo sulle ragioni per cui Enrico Letta abbia deciso di prenderselo in coalizione, regalandogli pure diversi collegi: un sacrificio ai limiti dell’autolesionismo, non tanto considerando quello che del Pd diceva Di Maio ancora nel 2019 (“Col partito che in Emilia-Romagna toglieva alle famiglie i bambini con l’elettroshock per venderseli io non voglio avere nulla a che fare”), quanto considerando che i voti dei partiti sotto la soglia dell’1 per cento, con l’attuale legge elettorale, non vanno neanche agli alleati: si buttano, come non fossero mai arrivati, sono persi per sempre come lacrime nella pioggia.

Ad ogni modo, quel che è fatto è fatto. Retroscena e speculazioni sulle origini di un simile colpo di scena lasciano ormai il tempo che trovano. Più che sulla quantità e qualità delle giravolte compiute dal ministro degli Esteri, bisognerebbe concentrarsi sulla straordinaria rapidità della sua parabola politica. Non prima però di essersi inchinati dinanzi all’eccezionale dimostrazione di carità cristiana data dal Pd, che lo ha accolto come il figliuol prodigo, e senza nemmeno fargli l’elettroshock.
Di Maio è però solo il caso più estremo di un fenomeno ben più ampio, che in forme diverse ha coinvolto quasi tutti i maggiori protagonisti della politica italiana di questi anni, da Matteo Renzi a Matteo Salvini, passati in un attimo dal vertice dei consensi e del potere all’abisso della delegittimazione e dello sberleffo collettivo, dalle carezze della fortuna allo schiaffo del soldato. E non è solo questione di voti, sondaggi e consensi. Giorgia Meloni è ora in testa ai sondaggi, ultima beneficata di quell’ottovolante che ha già portato alle stelle e poi sbalzato prima Di Maio e poi Salvini, ma già si guarda le spalle e sembra temere la fregatura, timorosa che gli alleati stiano pensando sin d’ora a come estrometterla da Palazzo Chigi, prima ancora di aver vinto le elezioni.

Fino a qualche tempo fa, almeno sui più giovani e ingenui, i leader politici riuscivano ancora a proiettare se non altro un’immagine di sicurezza, fiducia in sé stessi, consapevolezza dei propri mezzi. Davano l’idea di sapere bene o male di cosa parlavano, di avere idee magari sbagliate ma fondate su un qualche studio, su una certa esperienza della politica e della vita, su una qualche conoscenza della cosa pubblica e delle cose del mondo. Oggi è difficile credere che persino un dodicenne possa nutrire anche solo per un attimo la stessa convinzione, guardando i video della nostra classe dirigente su TikTok, leggendone i tweet e seguendone le storie Instagram. Non sarà un caso se il podcast più seguito dedicato alla campagna elettorale è opera di un comico (Luca Bizzarri) e si intitola: “Non hanno un amico”.

Un tempo i politici tentavano almeno di suggerire l’idea di essere migliori dei propri elettori. Anche quando non avevano magari il piglio di un Bettino Craxi o l’autostima di un Ciriaco De Mita, si vedeva comunque, dal modo in cui si presentavano in televisione, da come parlavano nelle interviste, da come stavano in piedi sul palco nei comizi, che un po’, almeno un pochino, tutto sommato, ci credevano pure loro. Anche quando evitavano di guardare gli elettori dall’alto in basso, e non sempre ci riuscivano, si vedeva che la cosa costava loro un certo sforzo, e non facevano nemmeno troppo per nasconderlo. Si capiva che sotto sotto, prima ancora che votati, volevano essere ammirati. Oggi, nell’assurda convinzione che questo possa aumentare i voti, fanno di tutto per presentarsi come l’amico scemo. Quello che si chiama per prendere una birra quando si è soli e depressi, ma ci si vergognerebbe di portare a una festa.

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Anche Berlusconi, che pure non perdeva occasione per abbassare il più possibile il tono, per fare battute triviali o raccontare improbabili barzellette (comunque un po’ meglio di come si ostina a fare ancora adesso, pure lui, su TikTok, perché è proprio vero: non hanno un amico), non per questo, neanche per un momento, smetteva di comunicare molto chiaramente al suo pubblico, ai suoi ammiratori e ai suoi attuali o potenziali elettori, che Berlusconi era lui. E che loro erano, per l’appunto, il pubblico.  Nemmeno per un secondo smetteva di ricordare che come lui non ce n’erano, che nessuno aveva raggiunto i suoi risultati come imprenditore edile, come editore televisivo, come dirigente sportivo né come capo di governo, che nessuno al mondo aveva vinto più elezioni, più coppe dei campioni e più telegatti di lui. Qualunque cosa si pensi dei suoi successi e dei suoi fallimenti, delle sue debolezze e delle sue prepotenze, non si può negare agli uni e alle altre una certa grandiosità, al vertice del potere come nell’abisso dello squallore. In fondo, bisogna avere un caos dentro di sé per poter generare una cena elegante.

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I leader di ieri erano o almeno cercavano di apparire forti e sicuri di sé. Oggi, sarà lo spirito dei tempi, saranno le nuove mode culturali cui tutti finiscono per uniformarsi, ci appaiono fragili. Imbarazzanti e forse loro per primi imbarazzati, indifesi e intontiti. Spiazzati, come Pier Luigi Bersani all’indomani delle elezioni del 2013, quelle che avrebbe dovuto stravincere, quelle che tutti, a cominciare da lui, erano convinti che avrebbe stravinto (se non ve lo ricordate non è colpa vostra: all’indomani del voto rimase a lungo praticamente irreperibile). Imbambolati, come Matteo Salvini nel giorno della sfiducia al primo governo Conte, con il presidente del Consiglio che gli mette una mano sulla spalla e gli dà del cialtrone per quaranta minuti filati, in diretta tv. Spaesati, come Laura Castelli nel 2018, davanti a Pier Carlo Padoan che tentava invano di spiegarle gli effetti dello spread sull’economia, sentendosi rispondere “questo lo dice lei”; o forse come Pier Carlo Padoan quando si sentiva spiegare che Laura Castelli, in quel momento, era sottosegretaria alle Finanze; o forse come gli elettori del Pd oggi, quando si renderanno conto che sulla scheda troveranno Castelli, promossa nel frattempo viceministra e candidata in coalizione con i democratici, e non Padoan, passato nel frattempo alla presidenza di Unicredit. 

Questa fragilità non è affatto in contraddizione con il tentativo di presentarsi come l’uomo forte, come il leader assertivo e decisionista che ognuno di loro sognava di essere. Al contrario. Pensate all’uomo che nella storia d’Italia è stato indiscutibilmente, per decenni, il simbolo e l’incarnazione stessa del potere, anche nei suoi aspetti più oscuri e inquietanti. Pensate a Giulio Andreotti: al suo aspetto fisico, al suo tono di voce, al suo modo di parlare e di presentarsi. Un uomo che ha attraversato, sempre al vertice, i passaggi più torbidi e violenti della politica italiana, senza dare l’impressione di perderci mai non dico il sonno, ma nemmeno il gusto della battuta. 

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Chissà se oggi un giovane Andreotti, invece di salire sul palco del Bagaglino e scherzare lui per primo sulle sue imperfezioni, racconterebbe qualche episodio di bullismo subito da bambino nelle storie Instagram, parlerebbe di quanto lo facciano soffrire i vignettisti che gli accentuano la gobba (o magari direbbe le “difficoltà posturali”), per concludere con un appello a smetterla di usare l’espressione “schiena dritta”, così indelicata nei confronti di chi ce l’ha storta e non può farci niente. Certo è che quell’uomo curvo, che parlava sempre sottovoce, sempre con un sorriso e una battuta ironica sulle labbra, appariva ed era ben più forte di tutti gli aspiranti leader che si mostrano oggi ai loro costernati follower in costume da bagno o in tenuta da runner, urlanti e sudati. E chissà se la colpa è più loro o più nostra, di loro che si esibiscono o di noi che clicchiamo, fosse anche solo per sghignazzare.

Forse la verità è semplicemente che il potere vero – che nella società dello spettacolo consiste anzitutto nel non avere la necessità di rendersi ridicoli – è andato da un’altra parte, e ha abbandonato i leader politici insieme con i partiti di massa e tutta l’architettura istituzionale, politica e culturale di cui i partiti erano l’architrave, con le tribune politiche di una volta (quelle in cui si poteva persino fumare) e la tv in bianco e nero. Come dimostra la banale considerazione che Mario Draghi non ha nemmeno un account twitter.

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