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Prospettive

Per il Pd è l’ora di riprovare un neolaburismo tosto e non classista

Giuliano Ferrara

Le ambizioni del partito di Enrico Letta e della grande tenda dem all’americana sono fallite. Forse bisogna rivalutare una schietta socialdemocrazia immune dal massimalismo

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Forse bisogna rivalutare il laburismo, una schietta socialdemocrazia immune dal massimalismo. Tony Blair è stato ed è laburista, e i suoi tre mandati sono stati decisivi per la modernizzazione liberale del Regno Unito, oggi alle prese con gli effetti retrogradi di Brexit e generoso avventurismo neoconservatore. Olaf Scholz è socialdemocratico, e gli è riuscito di costruire una compagine di governo che include Verdi e Liberali dopo una intera epoca dominata dal popolarismo di Angela Merkel, determinando una svolta di politica estera e di politica energetica nel cuore della nuova guerra europea. Lo stesso si può dire per Gerhard Schröder, che con la sua Neue Mitte aveva cambiato la faccia della Germania e innestato un processo riformatore del profondo, influente in Europa.

 

Emmanuel Macron è tutto un altro discorso, ma nell’eccezionalismo francese e parigino. Sta di fatto, e questo riguarda anche Pedro Sánchez e altri governi centro e nord europei, che un argine intelligente ai populismi lo hanno eretto anche e sopra tutto i laburisti. Il Pd era nato con altra ambizione, e se l’amalgama è mal riuscito, come si è detto, dipende da fattori come la incompiuta conversione socialista dei post comunisti, fondata come fu sull’eccidio del socialismo italiano, e sulla damnatio memoriae della tradizione democristiana, solo in parte e mal recuperata dalla sinistra cattolica alla Prodi, poca vera laicità e poca ambizione di modernizzazione politica. L’idea di una grande tenda, un partito democratico all’americana, fondato su primarie e assemblee elettive e amministratori, dotato di una vocazione maggioritaria autentica, si è infranta perché un partito leggero, capace di autofinanziarsi con i contributi privati, vero contenitore di liberal e progressisti riformatori, richiedeva altra immaginazione e altro coraggio da quello delle classi dirigenti piccolo piddine: a loro modo Veltroni e Renzi ci hanno provato, ma hanno alla fine fallito.

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E ora altro che blairismo e terza via, altro che coalizione semaforo, tutto un fronte potenziale si è disfatto e ognuno per sé. I sindacati e i lavoratori, non solo i lavoratori dipendenti del vecchio mondo, anche i nuovi lavori e le nuove configurazioni della compagine laburista classica, pensionati compresi, imprenditori piccoli e medi compresi, tecnici compresi, precari compresi, non hanno rappresentanza, questo è un fatto. Un neolaburismo non classista, non ottocentesco e nemmeno novecentesco, dovrebbe forse aspirare a ricomporre questo pezzo decisivo del paese, che populismi antipolitici e destre sovraniste si sono accaparrate senza troppa difficoltà. L’identità non è tutto in politica, e il fanatismo dell’identità è generatore degli equivoci peggiori, e questo è il vero rischio di un governo guidato dalla destra postmissina, ma senza identità non si va da nessuna parte. Perfino Bettino Craxi, che vantava i risultati della Borsa di Milano e del made in Italy, che aveva rotto il patto della scala mobile con un referendum capace di dividere aspramente sindacati e sinistra. 


Che governava senza sentirsi tributario del vecchio mondo e dei suoi simboli, si preoccupava di non recidere le radici socialiste e sindacali della sua impresa o avventura riformista. Può darsi che un tempo congruo di opposizione politica seria, diversa dalla famigerata accozzaglia anti berlusconiana il cui prezzo antipolitico e di subalternità alla magistratura militante ancora oggi si paga, possa risollevare un progetto identitario non scontato e non rinunciatario in quella parte del paese che è destinata a perdere la sfida elettorale secondo tutte le previsioni. La chiave può essere un riesame del laburismo e della socialdemocrazia.
 

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