Meloni, Letta e Renzi alle prese col rebus del Senato. I calcoli dei leader per il prossimo governo

Valerio Valentini

La capa di FdI punta a quota 120 eletti a Palazzo Madama, così da scongiurare "manovre del Quirinale". Il segretario del Pd trova conforto nelle ultime proiezioni arrivate al Nazareno, ma sugli uninominali rischia grosso. L'ex rottamatore guarda già al 2023, e osserva intanto le mosse di Draghi

Dice che “bisogna stare larghi”. E forse lo dice per mobilitare le truppe, per mettere al bando ogni tentazione di rilassamento. E però nell’avvertimento di Giorgia Meloni c’è anche la preoccupazione di chi teme inciampi, convulsioni, di chi insomma sa che, per essere sicura di ottenere l’incarico da premier, vincere, senza trionfare, potrebbe non bastare. E allora lei ha fissato l’asticella: “Almeno 120 senatori”. Tanti dovrebbe prenderne il centrodestra, per evitare trappole. Ma la scommessa della leader di FdI si scontra con le previsioni, e le speranze, di Enrico Letta e Matteo Renzi.

Pronostici, ovviamente, in cui ognuno dei leader riversa ambizioni e velleità, e forse perfino il legittimo tentativo di indirizzare il corso degli eventi inverando profezie propizie. In comune, però, c’è l’attenzione morbosa che un po’ tutti riversano sul Senato: è quello il luogo decisivo, dove le maggioranze si fanno sempre più precarie, è attorno a quei 200 scranni – tanti ne sopravviveranno al taglio dei parlamentari – che gravitano scenari e prospettive di gloria.

La Meloni ha indicato la soglia di tranquillità intorno ai 120 eletti a Palazzo Madama. La linea di guardia che annullerebbe lo spazio per eventuali “manovre quirinalizie” che i fedelissimi di Donna Giorgia paventano spesso, nei loro colloqui, quando ricordano a se stessi di essere stati gli unici a opporsi alla riconferma di Sergio Mattarella. Quota 120, allora. E non sembra un azzardo, in effetti, se è vero che le proiezioni che circolano a Via della Scrofa parlano di un centrodestra che, con non più del 44 per cento dei consensi, si garantirebbe 113 senatori. Frutto della distorsione del Rosatellum, e dello strapotere che Lega, FdI e FI eserciterebbero sui collegi uninominali, vincendone quasi 60 su 72. E questo grazie, ovviamente, alla gagliardia dei patrioti di Giorgia, la cui pattuglia a Palazzo Madama si triplicherebbe: da 21 a 58-60. 

E forse è un po’ su questo che scommettono dall’altra parte: sulle fibrillazioni, cioè, che potrebbero attraversare il centrodestra a fronte di un successo, quello della Meloni, che sembra avvenire a discapito dei suoi alleati. Salvini, tra un mese, pur nelle più favorevoli delle proiezioni finirebbe comunque col dimezzare i suoi gruppi (non più di 65 deputati e 35 senatori); il Cav. potrebbe inviare meno di 40 forzisti a Montecitorio, mentre a Palazzo Madama la squadra azzurra sarebbe ridotta a 15, forse 18 componenti. Di lì, dunque, annichiliti dal trionfo dell’amica Giorgia, Salvini e Berlusconi potrebbero perdere il controllo della truppa, subire atti di ammutinamento. E vai a sapere, allora, cosa accadrebbe.

E’ a questa vaga, forse residuale speranza, che Enrico Letta fa appello, confortato com’è dall’ultimo report commissionato a Nando Pagnoncelli e arrivato sulla sua scrivania nelle scorse ore. Perché se nella “settimana terribile”, tra la faida delle liste e le risse in strada in stile Suburra sull’asse Campidoglio-Frosinone, “abbiamo comunque guadagnato più di un punto, allora vuol dire che il trend è favorevole”. Lo è, agli occhi del segretario, soprattutto perché certifica che l’auspicato processo di polarizzazione tra Pd e FdI si sta consolidando: e del resto, se è vero che il centrodestra, nel suo complesso, è salito anche nelle rilevazioni dei giorni seguenti a Ferragosto, è evidente anche come questa crescita sia trainata dalla sola Meloni, che incassa quasi due punti in più. E così il testa a testa si fa perfino plastico, nei numeri che circolano al Nazareno: coi due partiti appaiati sulla soglia del 25 per cento a un decimale appena di distanza l’uno dall’altro. Certo, l’isolamento del Pd non aiuta, se è vero che al Senato, coi consensi attuali, i dem si attesterebbero intorno alla soglia dei 55 eletti. Che, rispetto ai calcoli iniziali, sono 7 o 8 in meno di quelli ritenuti necessari per sperare di mettere in discussione il successo della destra, appellandosi all’imprevedibilità delle alchimie parlamentari.

Desistere, dunque? Al Nazareno fanno esercizio d’ottimismo: e sanno, anzi, che gli ultimi quindici giorni di campagna dovranno essere quelli in cui andrà confutata la tesi per cui la partita è già chiusa. Rischio reale, se è vero che, a fronte di un sostanziale pareggio tra Pd e FdI, nell’elettorato si registra una percezione assai più favorevole alla vittoria della Meloni: come se, pur tra gli elettori di sinistra, ce ne fossero molti demoralizzati che danno per scontato il successo della destra. 

Crederci, insomma, anche a dispetto delle sensazioni. E di certo ci crede Renzi, nella possibilità di essere, ancora una volta, decisivo. E forse per questo, quando qualcuno gli ha fatto notare che quello di Mario Draghi al Meeting di Rimini è parso come il discorso di chi prende congedo definitivo dal proscenio della politica, il fiorentino ha risposto, sornione, “che se le cose vanno in un certo modo, altro che congedo”. E anche le sue sono speculazioni che finiscono per concentrarsi su Palazzo Madama: perché se 120 è la soglia di garanzia della Meloni, potrebbe anche essere che il centrodestra, “col crollo della Lega e la dissoluzione di Forza Italia”, non superi i 105 senatori. “E allora lì comincia un altro film”. Altrimenti, bisognerà sopportare la Meloni a Palazzo Chigi fino al 2023, non oltre: perché, come ama ripetere Renzi, scherzando chissà fino a che punto, “ogni due anni ci tocca far cadere un governo che non funziona, ormai è una tradizione”.
 

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  • Valerio Valentini
  • Nato a L'Aquila, nel 1991. Cresciuto a Collemare, lassù sull'Appennino. Maturità classica, laurea in Lettere moderne all'Università di Trento. Al Foglio dal 2017. Ho scritto un libro, "Gli 80 di Camporammaglia", edito da Laterza, con cui ho vinto il premio Campiello Opera Prima nel 2018. Mi piacciono i bei libri e il bel cinema. E il ciclismo, tutto, anche quello brutto.