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Il modello Flaiano

La normalizzazione di Meloni non passa dall'atlantismo ma dalla sua romanità

Claudio Cerasa

Flaiano diceva che in Italia non si potrà mai fare una rivoluzione perché ci conosciamo tutti: la destra difficilmente farà le pericolose rivoluzioni che in molti temono, conoscendo tutti, a Roma

Era il suo punto di debolezza, è diventato il suo punto di forza. Era il suo tallone d’Achille, è diventato il suo scudo difensivo. Era il suo fianco scoperto, è diventato il suo tratto protettivo. Roma, per Giorgia Meloni, ha sempre coinciso con un tratto di vulnerabilità e dunque con un elemento di debolezza. C’è il suo passato, a Roma, e con il suo passato ci sono i molti peccati da scontare della destra estremista di cui Meloni è erede. C’è il suo presente, a Roma, e Roma per Meloni significa sconfitte, delusioni, non vittorie, come quella delle elezioni del 2016, quando Meloni non riuscì ad arrivare al ballottaggio, e come quella delle elezioni del 2021, con il candidato scelto da Meloni sconfitto malamente. C’è anche altro a Roma, ovviamente, e per i suoi avversari il dialetto di Meloni è sempre stato sinonimo di rudezza, per non dire altro.

 

Oggi, però, che Meloni si sente insieme con il suo partito a un passo dall’obiettivo grande, succede che la romanità per Meloni non viene più considerata dall’establishment politico e istituzionale come un elemento di debolezza, come un elemento distintivo di una più generale impresentabilità, ahó, ma diventa magicamente un tratto rassicurante, capace di smussare preventivamente e forse inopportunamente alcuni spigoli dell’estremismo della nuova destra sovranista.

 

La romanità, da punto di debolezza, diventa così un punto di forza, indicando una prossimità al potere, una vicinanza alle istituzioni e una contiguità con l’establishment che i leader della destra hanno fatto in passato molta fatica a conquistarsi anche in virtù della loro estraneità alle alchimie romane (chiedere al milanese Berlusconi, chiedere al milanese Salvini). E così, da mesi, in molti salotti romani, distanti anni luce dalla destra meloniana, può succedere di ragionare con preoccupazione su ciò che potrebbe essere un’Italia guidata da una destra sovranista ma può capitare con altrettanta frequenza di imbattersi in un numero impressionante di nuovi e vecchi boiardi di stato romani desiderosi di far sapere ai propri interlocutori che loro, “Giorgia”, la conoscono da una vita e che in fondo si fidano della sua romanità, della sua capacità di adattarsi al mondo e non di adattare il mondo alle sue idee. E’ la romanità che ha permesso in questi mesi di far apparire Meloni al potere romano come un qualcosa non più incompatibile con l’establishment del paese (la romana Meloni, romana e romanista, ha sempre avuto un rapporto cordiale con il romano Draghi) ed è la normalità che ha proiettato Meloni all’interno del così detto paradigma Flaiano.

 

Flaiano diceva che in Italia non si potrà mai fare una rivoluzione perché ci conosciamo tutti, e il potere romano ha semplicemente iniziato a sostituire la parola “Italia” con la parola “Roma” per cercare di tranquillizzare se stesso e autoconvincersi che la destra che potrebbe presto governare l’Italia, e che potrebbe essere costretta a chiedere una mano ad altri romani che si trovano alla guida di alcune grandi istituzioni europee, il romano Paolo Gentiloni, che nella vita fa il commissario all’Economia, e il romano Fabio Panetta, che nella vita fa il membro del board della Bce, è una destra che conoscendo tutti, a Roma, difficilmente farà le pericolose rivoluzioni che in molti temono. E così, ora che il potere la cerca (non Cdb, ma pazienza), ora che a differenza del passato di fronte alla destra il potere non soffre ma semmai s’offre, succede che i telefoni dei massimi dirigenti di Fratelli d’Italia siano pieni di messaggi di attuali capi di gabinetto, di consiglieri di stato, di pezzi intermedi della burocrazia che piuttosto che organizzarsi per preparare il proprio whatever it takes contro le destre si preparano a presentarsi loro come figure presentabili per governare con la destra. Nel volto rassicurante che Meloni cerca di offrire in questa campagna elettorale, una parte la gioca l’atlantismo, una parte la gioca il non esplicito anti europeismo ma una parte cruciale la gioca la romanità, come nuovo e insospettabile elemento di potenziale normalizzazione dell’estremismo.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.