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contro mastro ciliegia

I populisti in declino (e i loro fan) si aggrappano a vecchie bufale

Maurizio Crippa

Scuola, lavoro, Rdc e altre leggende che non vogliono passare. Ecco gli ultimi colpi di coda del fu populismo

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Sono passate senza danni anche le radiose giornate di maggio, gonfie ogni anno di sacri furori di piazza, di scioperi dei trasporti per la pace, di sparute adunate di apostoli che plaudono avvocati del popolo in disarmo, di roboanti penultimatum per fermare le armi che offendono, di proteste dei prof fallite anche se “la piazza aveva una bella faccia”. Le radiose giornate del populismo si vanno definitivamente sgonfiando, il sovranismo è un rutto da quando essere contro l’Europa significa stare con Putin, l’hanno capito tutti (tranne uno), e la saggia economia di guerra dragoniana demolisce scemenze fuori moda: i redditi di cittadinanza, le quote cento, le tasse piatte. Eppure, mentre la paccottiglia viene spazzata dalla storia, dalla guerra e da un governo che sa quel che si può fare e lo fa, c’è come un refolo finale, in queste giornate di maggio, un agitarsi inconsulto di sindacalisti, politici, parolai ed economisti da tastiera. Il colpo di coda del populismo.

    
Come ad esempio il fallimentare sciopero della scuola di lunedì scorso (sempre attaccare uno sciopero a un giorno festivo) indetto contro una riformina del sistema di abilitazione e reclutamento avvertita, però, come una minaccia mortale perché “il tratto vero è un percorso competitivo per selezionare i docenti”. Lo ha detto il segretario cigiellino dei “lavoratori della conoscenza”, Francesco Sinopoli; che, alla faccia della conoscenza, considera una minaccia sindacale la competizione dei saperi. “Vogliono mettere i docenti l’uno contro l’altro”, gridavano in piazza i pochi che hanno scioperato, fautori evidentemente dell’intelligenza piatta, così nessuno eccelle. Ci vorrebbe un po’ dell’ottimismo che invece ci manca, per poter affermare che, per la scuola, si tratta davvero di un ultimo colpo di coda. Ma essere passati dalla richiesta di più soldi all’opposizione contro la qualità la dice lunga di un populismo ormai purtroppo  entrato nelle vene di parte del (peraltro glorioso) corpo docente.

   
Oppure, altro caso strabiliante, l’agitarsi tardo guevarista (o dibbattista) attorno al Reddito di cittadinanza, altra acqua pestata nel mortaio. Una riforma che non funziona perché non ha mai funzionato – del resto persino il Riformista del popolo, all’epoca premier, s’era strozzato in una spiegazione contorta: “E’ una riforma complessa, perché è fondata su un patto di lavoro, un patto di formazione e un meccanismo di inclusione sociale”. Eppure è evidente che il reddito non verrà mai abolito, al massimo un po’ restaurato: è ormai entrato nei capitoli di spesa inemendabili e indiscutibili, come il bilancio Rai, e che ci sia soltanto Matteo Renzi a volerlo abolire dovrebbe rassicurare anche il più descamisado degli opinionisti. Invece il solo parlarne, del Reddito di cittadinanza, genera un’alzata di slogan patriottici come manco i russofoni nel Donbas. Come se davvero qualcuno volesse affamare la gente. E infatti, muovere la pur minima critica a un meccanismo mal funzionante è per Nicola Zingaretti addirittura una malvagità: “L’ossessione di chi è contro è accanimento contro la povera gente”. Persino Beppe Sala, che ha il cuore più a sinistra di Zingaretti, l’altro giorno all’assemblea di Assolombarda ha ammesso, dopo avere premesso che “non è un male assoluto”, che “il Reddito di cittadinanza deve avere un futuro diverso da quello attuale, su questo mai avuto dubbi”. Eppure, apriti cielo, non solo i Cinque stelle, che poveretti non hanno più altro, non solo il Pd che non sa più cosa fare per tenersi attaccato ai Cinque stelle, compreso il No (populista) ai referendum, ma persino opinionisti che si vorrebbero informati gridano al bambino buttato con l’acqua sporca. 

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Si sono lette più critiche a Carlo Bonomi che nemmeno a Putin, solo perché il presidente di Confindustria ha detto una ovvietà, che il reddito di cittadinanza è un “competitor per i tanti giovani che contattiamo per offrirgli un lavoro”. Evidentemente significa che sono i giovani a dover decidere tra due opzioni; invece l’alzata di scudi del populismo ferito ha interpretato: “Adesso la concorrenza agli industriali la fa il reddito di cittadinanza”. Persino il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha twittato: “Molti di quelli che prendono posizione sul #redditodicittadinanza non conoscono la legge e non conoscono i numeri, si dovrebbe discutere di #salari e di politiche industriali, ma si cerca un parafulmine: quello ideale è il reddito di cittadinanza”. Eppure nessuno ha replicato a Bonomi, quando ha detto: “Siamo arrivati al paradosso che abbiamo un ministro del Lavoro che deve trovare lavoro ai navigator”. Lo stesso riflesso pavloviano – cioè senza capacità di riflessione – è scattato dopo la pubblicazione  di un grafico di Openpolis che rielaborava i dati Ocse sulla variazione dei salari in Europa dal 1990. Italia unico paese ad aver perso reddito, e tutti a dare la colpa all’avidità dei padroni, qualcuno persino a Berlusconi. Pochissimi in grado di ammettere un problemino: in Italia c’è la tassazione più alta d’occidente. E nessuno, nessuno, così onesto da ammettere che in Italia è diminuita anche la produzione, e se si produce meno torta, si assottiglia anche la fetta. Il mantra populista non può essere smentito. Causa guerra russa il populismo di sovranità non va più di moda. Resta ancora quello economico, che ha molte sponde a sinistra. Ma se la fortuna ci assiste, com’è passato maggio, passerà anche il colpo di coda del populismo.

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