Arcuri exit

Draghi è pronto a rimuovere Domenico Arcuri, il "mister mascherina" di Conte

"Un amministratore delegato non può restare al suo posto vent'anni o sedici"

Carmelo Caruso

Dopo Fincantieri arriva il momento di Invitalia. Il premier vuole cambiare i vertici. Tra un mese fuori Arcuri. Si prevedono le resistenze delle correnti del Pd e di Dario Franceschini

Roma. E’ “Bono” che Giuseppe Conte (e un pezzo di Pd) elabori il passaggio. Dopo Fincantieri, il governo vuole sostituire i vertici di Invitalia. Tra un mese  Domenico Arcuri verrà sollevato dall’incarico. Il profilo del possibile successore circola da settimane. E’ Bernardo Mattarella, ed è il nipote del presidente. Dario Franceschini cosa fa? Si oppone? Non si trattava dunque di un semplice pacchetto nomine e non era neppure l’almanacco aggiornato dei “potenti d’Italia”, l’ecco chi “comanda davvero”, l’avvicendamento nelle aziende di stato voluto da Mario Draghi. Sta infatti per esaurirsi l’età del “boiardo”, l’uomo del “lasciate fare a me”, il grigio che non si smacchia (con i governi) ma che assorbe qualsiasi macchia (di governo).

 

L’ad (non rinnovato) di Fincantieri, Giuseppe Bono, è rimasto capo per vent’anni. Arcuri ha “risolto problemi” ai presidenti del Consiglio per sedici. Raccontano che ci stia provando anche ora: “Io sono indispensabile!”. E’ un altro rovinato dalla pochette: “Non potete farlo”. E’ l’ultimo Papa.


Non c’è nulla da sorridere e adesso che è certa la sua uscita pure Arcuri merita la carezza del perdente, la tenerezza che si dovrebbe avere perfino per Conte, il bullizzato alle “otto e mezza de la tarde”, il frustato dai giornalisti: “Parli, dica, risponda!”. In questa disgraziata primavera stanno emergendo i Bob Woodward della quinta giornata, “Contiano, io? Ma per carità”. C’è infatti un filo rosso che unisce queste due figure italiane, Arcuri e Conte, questi eroi del nostro tempo: rotolano insieme così come erano saliti in paradiso dandosi il braccio.

 

Quando era solo l’ad di Invitalia, e non ancora il “mister mascherine”, lui che non aveva mai ceduto alla politica di nessun colore, e quindi ceduto a tutti i partiti, e di qualsiasi colore, raccontava che “anche il M5s ha provato a cacciarmi. Poi anche il M5s è venuto a bussare da me”.

 

Lo chiamano il “Don Ferrante dello Ionio”. Insieme al bergamotto è l’altro vanto di Calabria dove è nato. Si era legato a D’Alema, è vicinissimo a Franceschini (darà battaglia per non farlo rimuovere) ha lavorato con otto premier diversi. Il suo motto è stato sempre “sopire, troncare e comandare”. Si è capito perché li chiamano “boiardi” che è una vecchia invenzione linguistica dello scomparso Alberto Statera? Viene dal turco bay (ricco) ma anche boljaru in slavo, bojar in russo fino a bojard che è francese. Basta pronunciarlo per comprendere che c’è qualcosa di feroce nella parola.

 

Bono e Arcuri rappresentano l’ultima specie di un genere quasi finito. Il loro potere sta (stava?) nel non ostentarlo. Preferiscono “cento giorni da boiardo a uno da presidente”. Altro che geni! In questo paese così strano c’è chi li paragona a Steve Jobs. La verità? Sono solo “uomini che sanno stare al mondo”, i nostri “hanno pelo sullo stomaco”, i nostri “signor sottosuolo”. Finiscono quando si abbronzano di complimenti.

 

Ebbene, è accaduto qualcosa anche ad Arcuri, uno che molto probabilmente ce l’avrebbe fatta anche questa volta se solo non avesse perso la testa per Conte, il premier dei due mondi, che, si dice, gli aveva promesso “ti farò ministro” addirittura prossimo capo di Cdp: “Ti piace?”.

 

E veramente, da parte del governo, di Draghi, non c’è nessuna ostilità verso il funzionario Arcuri, a cui era già stato tolto lo spillone da commissario all’emergenza, affidata a Figliuolo, e non è neppure l’antica norma non scritta “qui ci metto uno mio perché risponde a me”. Si fa sempre più letteratura di quanta ce ne sia. Era da settimane che si parlava di nomine e a Palazzo Chigi si erano dati pure un metodo: “Precisi, ordinati, noiosi, ma le scadenze non le saltiamo. E tra un mese è il momento di Invitalia”. E si ripete troppo spesso: “Tanto non lo faranno”. Invece è come se Draghi si sentisse liberato. Dice più del solito: “Non siamo condizionati da nessuno. Possiamo scegliere i bravi che nessuno conosce”.

 

Sulla scelta di Pierroberto Folgiero, al posto di Bono, nuovo ad di Fincantieri, ha pesato, ad esempio, non tanto la sua esperienza, che è notevole, come manager di Maire Tecnimont e in passato in Agip (sempre come uomo di prodotto e non come semplice uomo di conti) ma il suo essere non noto. Vive a Roma da sempre ma nessun politico lo conosceva. Non si capisce neppure quale sia il suo orientamento ideologico. Quando Draghi lo ha saputo non ha avuto dubbi: “E’ perfetto. Servono figure come queste”. Quando invece gli hanno chiesto perché, e glielo hanno chiesto i partiti, non si confermasse un professionista come Bono, avrebbe risposto che “non esiste in occidente un manager che rimanga nello stesso ruolo vent’anni come Bono o sedici come Arcuri”.

 

Non sono dunque semplici nomi di boiardi ma due incrostazioni italiane, archivi di carne e piccoli favori, sono “l’io so tante cose”. Sostituirli è più importante di una riforma perché modifica un (mal) costume.

  • Carmelo Caruso
  • Carmelo Caruso, giornalista a Palermo, Milano, Roma. Ha iniziato a La Repubblica. Oggi lavora al Foglio