La doppiezza di Giggino

Dalla Rai alla Belloni: il talento andreottiano di Di Maio fa impazzire Conte

Salvatore Merlo

“Lavora per il M5s quando c’è il sole, e poi di notte disfa e lavora per sé”, dicono di lui. Gianni Letta lo ribattezzò “il nuovo Andreotti”. Il ministro degli Esteri ha imparato l'arte del doppio gioco, veleno e pugnale. E per questo l'ex premier lo accusa ora di sgarbi e tradimenti, di cui ora vuole vendicarsi

Dopo averlo incontrato a luglio dello scorso anno, Gianni Letta, volendogli fare un complimento esagerato (ma non c’è complimento senza esagerazione) lo ribattezzò “il nuovo Andreotti”. E lui, Luigi Di Maio, questo battesimo pare l’abbia considerato una consacrazione, quella di chi ormai ha capito come gira il mondo, una medaglia. Mentre al contrario per Giuseppe Conte e altri del M5s l’evocazione di Andreotti diventava la conferma d’un atto d’accusa: la doppiezza, antica e perniciosa ginnastica democristiana.

 

Non si vuole qui ripercorrere la storia del conflitto politico tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio sin dalle origini, ricordando magari i dodici acrobatici mesi del governo rossogiallo, quando il  dualismo serpeggiava e scoppiettava, ma pure mai davvero esplodeva. Bensì s’intende qui concentrarsi, dopo le parole di Conte, sull’accusa di doppiezza che di fatto precipita addosso al ministro degli Esteri. Un uomo dedito al sabotaggio. Insomma s’intende qui andare ad analizzare il lungo capo d’imputazione che Conte in questi giorni sta srotolando di fronte a chiunque, mettendo in fila tutti quei piccoli (e grandi) sgarbi, tradimenti e voltafaccia che l’avvocato ritiene di aver subito. E di cui adesso intende far vendetta. A cominciare dall’ultimo, la trattativa parallela per smontare l’elezione al soglio quirinalizio di Elisabetta Belloni.

 

Mentre infatti Giuseppe chiudeva  un accordo con Enrico Letta e Matteo Salvini per portare il capo dei servizi segreti fino alla sommità del Quirinale, ecco che  Luigi secondo l’accusa disponeva i suoi attrezzi da allegro falegname politico e segava, piallava, tagliava, e infine riduceva tutto in  inerti trucioli di legno con la complicità di Renzi, Franceschini e Guerini. Chissà. Dicono che Conte in questi giorni ripensi spesso a quella mattina del 9 febbraio 2021, il giorno della conferenza stampa all’aperto, su piazza Colonna. Lui, il presidente del Consiglio dimissionario, che appoggiatosi al banchetto strapieno di microfoni inizia a parlare in posizione geometrica, con le braccia larghe, a triangolo isoscele, e di fatto si candida a guida politica del M5s. Quel giorno, poche ore dopo, nella sua stanza, arriva Di Maio. Bianco e nervosissimo (anche se è difficile immaginarselo non solo nervosissimo ma soprattutto bianco, visto che è sempre molto abbronzato).

 

Insomma Di Maio lo guarda e gli dice: “Questo è un colpo di  stato”. Bum! Un botto. Nel senso che da quel momento in poi, ciò che prima era un duello incruento si trasforma in una precisa ed efficacissima, per certi versi strabiliante, strategia della tensione. O della goccia cinese. Conte la chiama doppiezza, sì, ma in realtà, a ben vedere, è  qualcosa che rivela del talento e dell’intuito politico. Non solo infatti Di Maio, che aveva già incontrato Mario Draghi e s’era dunque sintonizzato per tempo su ciò che stava per accadere, riesce a farsi riconfermare al governo mentre Conte ruzzola nel sottoscala del Palazzo. Ma il ragazzo di Pomigliano invade persino il terreno politico che Conte stava arando in quel periodo. A quel tempo infatti, come dimenticarlo, l’avvocato era per il Pd un “punto di riferimento fortissimo dei progressisti”.

 

E allora Luigi che fa, dopo aver stretto un legame a destra con Letta zio? Batte a sinistra, ovviamente. E incontra Massimo D’Alema, che di Conte era sponsor e consigliere. Tiè. Poi scrive pure un libro, con il quale traccia la linea evolutiva del M5s, chiedendo lui scusa per gli errori di tutto il Movimento (come farebbe un vero capo). Spingendosi addirittura, proprio qui sul Foglio, a fare abiura del giustizialismo manettaro. Era il 28 maggio 2021. La  svolta. Insomma Luigi invade il campo di Conte, gli taglia la strada, lo anticipa sempre. Fa il capo. Quello è lento, lui è rapidissimo. Persino sulle nomine nelle grandi aziende di stato e nel sottobosco del potere.

 

Appena arriva Draghi, Di Maio non conduce una vera battaglia, ma si dimostra morbido di fronte all’assalto del super premier che intanto decapitava uno per uno tutti gli uomini che  Conte aveva piazzato nelle aziende e pure nei servizi segreti. Cadono anche Arcuri e Vecchione. Fino alla Rai. Un capolavoro. Perché è  sempre Luigi a consentire  la nomina di Monica Maggioni al Tg1. Il primo telegiornale italiano passa così a una giornalista, dopo tre anni in cui il direttore era stato Rocco Casalino. E allora: “Luigi lavora per il M5s quando c’è il sole, e poi di notte disfa e lavora per sé”, dicono. Gli imputano la doppiezza, appunto. Ma turpitudine ed eccellenza spesso vanno a braccetto.  Doppi giochi, tattiche, veleno e pugnale... Le caratteristiche dei fuoriclasse. Anche quelli autodidatti come Di Maio. “Il nuovo Andreotti”, pensa Gianni Letta.
 

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.