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Le riforme lente

O si apre alla concorrenza o si finisce soffocati sotto i rifiuti. Appello a Draghi

Dopo le frizioni sulla legge delega, ora tocca alla legge sulla concorrenza. Con uno sguardo anche ai problemi di Roma

Ora che Mario Draghi ha chiarito che andrà avanti con le riforme “senza tener conto del calendario elettorale”, si vedrà se Matteo Salvini può solo abbaiare o anche mordere. Un’altra occasione arriverà con la legge sulla concorrenza. Il settore è oggetto di una doppia denuncia, dell’Antritrust europea e italiana, e riguarda settori come le concessioni balneari, al pari delle discoteche riserva elettorale salviniana. La revisione dei canoni fu prorogata di ben 15 anni nel 2018, quando la Lega governava con i 5 stelle. Ma la concorrenza tocca anche il Pd, essendo in ballo i servizi municipalizzati a cominciare da trasporti urbani e rifiuti. Che a Roma sono gestiti in-house, con fondi a carico dei contribuenti, dipendenti coccolati dal Campidoglio e risultati zero. 

 

Andiamo per ordine. L’applicazione delle regole europee sulla concorrenza può toccare gli stabilimenti dove, accanto chi a fa il proprio lavoro, molti campano di rendita garantita. Bastano alcune cifre. L’Italia ha oltre 29.700 concessioni demaniali marittime. Quelle degli stabilimenti sono 12.166, cresciute in tre anni del 12,5 per cento. Per lo stato gli introiti del 2019 ammontano a 115 milioni, di cui solo 83 riscossi, e un arretrato di 235. In teoria una concessione vale 9.200 euro, ma in media ne vengono evasi due terzi. Quanto ai ricavi, un gazebo al Twiga di Flavio Briatore costa 1.000 euro al giorno; il Papeete di Milano Marittima fattura oltre 3 milioni l’anno. Quelli medi sono di 180 mila euro l’anno. La proroga al 2034 tiene conto della stabilità dell’attività d’impresa, ma senza gare. Varie sentenze dei Tar e del Consiglio di stato chiedono di disapplicare le norme italiane a favore di quelle europee. L’Antitrust ha posto la questione a Draghi per aprire il settore a soggetti nuovi. E l’Ue ha inserito il dossier concorrenza tra le riforme per beneficiare dei fondi Next generation Ue. La Lega si oppone paventando la calata di operatori stranieri, obietta che Twiga e Papeete sono nomi top, che gli stabilimenti danno lavoro a 500 mila persone (cosa che accadrebbe anche con la concorrenza). Ma i pochi spiccioli riscossi dallo stato e garantiti per 15 anni sono una linea dura da difendere, che poco ha a spartire con la “sacra difesa” della casa e l’interesse aziendale (anzi). 

  

Ma c’è un altro fronte segnalato da Carlo Calenda in vista del ballottaggio a Roma, dove rifiuti e trasporti sono in mano al comune, a differenza della rete elettrica dell’Acea, azienda quotata con bilanci attivi, controllata per il 51 per cento del Campidoglio e il resto detenuto da soci come la francese Suez e il gruppo Caltagirone. Il prossimo sindaco dovrà decidere se trasferire Atac e Ama all’Acea o a un altro operatore di mercato, o lasciarle nell’attuale fallimentare modello.

  

Il dossier per il suo impatto anche ambientale è tra le priorità europee: il termovalorizzatore Amager Bakke di Copenhagen è divenuto, con la pista da sci e i ristoranti stellati, un simbolo di successo dell’economia circolare. I cinque municipi proprietari dell’impianto hanno messo tutto a bando, remunerando i privati con il ricavato della gestione e dell’intrattenimento. Oltre alla pista in plastica riciclabile realizzata dall’italiana Neveplast, ci sono una linea di metropolitana realizzata da Salini, il ristorante a due stelle Noma, birrerie, una mega-galleria d’arte e il progetto generale dello studio Bjarke Ingels Group con sedi a Copenhagen, Londra, New York e Barcellona. Roma può immaginare qualcosa del genere anche dopo la fine dell’èra di Virginia Raggi? E l’Italia può mantenere il primato europeo del settore del riciclo, che pure detiene? Utitalia, l’associazione delle utility energetiche, e Assoambiente, che riunisce le aziende private, stimano un fabbisogno nel settore di 8 miliardi in 5 anni, a fronte di 637 imprese pubbliche e private largamente sottocapitalizzate e di cui appena il 19 per cento è quotato in borsa o organizzato come spa. O si apre alla concorrenza o si finisce soffocati sotto i rifiuti, tra bollette sempre più alte, evasione fiscale e autobus e discariche in fiamme.