Il premier Mario Draghi (LaPresse)

idee e prospettive

Draghi al colle. Why not? Girotondo sulla proposta del Foglio

Scommettere sull'ex presidente della Bce come premier per due anni e poi chissà o puntare forte sulla strada quirinalizia facendo un passo verso una repubblica presidenziale? 

Sul Foglio di ieri, il direttore Claudio Cerasa ha spiegato perché le forze politiche avrebbero il dovere di costruire un whatever it takes per spedire Draghi al Quirinale: “Un’assicurazione sulla vita, per l’Italia, è meglio averla per i prossimi sette anni piuttosto che solo per i prossimi due”. Si può fare? Un piccolo girotondo.

 

Paletti non fideistici  

L’elezione al Quirinale non prevede campagna elettorale, tranne per chi vuol perdere, né esposizione di programmi o anche di generici obiettivi politici. È una specie di premio alla carriera, con connotati da lotteria ed evidenti segni provvidenziali, un riconoscimento alla persona da cui si può ragionevolmente attendere la capacità di ordinare al meglio la partita per il potere politico. Il ruolo, e la sua estensione, sono molto variabili in base alle condizioni della politica parlamentare. Mario Draghi il premio alla carriera l’ha già vinto, ma forse a esso va aggiunta un’ulteriore stagione politica. Il Quirinale, è la tesi del Foglio, sarebbe però, nel suo caso, più politicizzato proprio per l’autorevolezza con cui Draghi diventerebbe il guardiano della corretta attuazione degli impegni e delle opportunità contenuti nel piano di ripresa. Un quasi settennato parallelo, tra presidenza della Repubblica e organi politici comunque vincolati alla realizzazione del piano. Tesi fondata ma non priva di qualche fideismo. Perché l’esito delle prossime elezioni, con il dimagrimento parlamentare, potrebbe consegnare una maggioranza contraria non ai soldi ma ai vincoli del piano e alle riforme. E, di fronte a una maggioranza chiara e coesa, il Quirinale perderebbe forza. Oppure, come si è visto in passato, dovrebbe rifugiarsi in un esercizio del potere arcigno e puntuto.

Potrebbe anche emergerne una effettiva e concreta limitazione dell’antieuropeismo straccione e del pensionificio elettorale, ma a un prezzo che abbiamo già conosciuto. Perché dalle stagioni del vincolo esterno e dell’europeismo corretto e condivisibile, ma, ahinoi, tutto quirinalizio, ovvero dalla stagione ciampiana, è poi derivato un rafforzamento dell’antipolitica. Perciò il Draghi da sogno è quello che ora, con un crescendo, va a ingaggiare le forze parlamentari sugli impegni politici italiani, argomentando, sostenendo su fondamenti sociali ed economici, gli obiettivi del governo. Un processo che, ragionevolmente, richiede un po’ di tempo ancora a Palazzo Chigi e soprattutto un processo di chiarimento politico. E che potrebbe anche essere il modo per costruire la candidatura di Draghi al Quirinale, ma su diverse basi, con il recupero al riformismo europeo di chi adesso si è un po’ perso sulla strada della astuzia fatta di accordi elettorali al ribasso o, dall’altra parte, su quella della competizione verso la sparata più grossa, dal novax allo scassaeuro.

Giuseppe De Filippi

 

Non si gioca in difesa

Non è auspicabile – a mio avviso – che Mario Draghi si trasferisca al Quirinale tra qualche mese. Nell’editoriale di ieri Claudio Cerasa pone la questione in termini aperti e riflessivi, ma sostenendo in conclusione – con una sorta di malcelata rassegnazione – che la chiamata sarebbe “argine”, “scudo”, “garanzia”… Concetti difensivi e preoccupati, di chi pensa che si possa solo giocare per lo zero a zero. Io credo invece che possiamo batterci per vincere la partita della modernizzazione del paese. È un’occasione irripetibile. Abbiamo un governante che gode di una formidabile credibilità in Europa e un mare di soldi da impiegare al meglio nei prossimi anni. Risorse esplicitamente legate a riforme da fare, che saranno tali se non subappaltate a mille voraci corporazioni. E andranno seguite, monitorate, scandite giorno per giorno per essere realizzate senza perdersi nelle nebbie delle eterne resistenze conservatrici. In questo senso  mi porrei il problema di sfruttare al meglio le potenzialità del governo Draghi, piuttosto che accelerarne la fine. Magari chiamando lo stesso PdC a compiere un significativo passo avanti, nel profilare la sua missione. Non certo ficcandosi nel ginepraio di alleanze, schieramenti e partiti.

Ma definendo un ambizioso progetto di benchmarking competitivo, per superare le crescenti, insopportabili distanze tra noi e il resto d’Europa, in infrastrutture materiali e digitali, giustizia, burocrazia, vivibilità e scalare le attuali, disastrose classifiche. Una grande operazione di sistema, non di parte, cui tutti potrebbero e dovrebbero guardare con interesse. Poi – ma solo poi – c’è il punto politico, figuriamoci se non lo vedo. Ma dando tempo al tempo. Vediamo intanto cosa ci dicono le prossime amministrative, come si riconfigurano le forze in campo. Si trovi una soluzione equilibrata e condivisa per il Quirinale, sapendo che la riconferma di Mattarella ha come solidissimo argomento anche il fatto che nel 2023 eleggeremo un Parlamento con una rappresentanza radicalmente nuova. Si faccia infine – almeno questo è il mio auspicio – una legge elettorale proporzionale, con sbarramento, che misuri nel 2023 nuove identità e rapporti di forza. A quel punto a nessuno potrà essere impedito di chiedere voti per sé, auspicando al contempo che al Draghi1 segua il Draghi2, dopo le elezioni. Certo, è un percorso strettissimo. Per realizzarlo bisognerà passare attraverso la cruna dell’ago degli egoismi delle forze politiche e del conformismo dei media. Ma quanto più appassionante e sfidante di un ripiegamento difensivo, dell’accontentarsi di spenderci il più capace di tutti per esercitarsi dal Colle più alto in attività di moral suasion, quando non per fare da foglia di fico di eventuali spiacevolezze che dovessero profilarsi all’orizzonte.

Claudio Velardi

 

Un problema legato ai numeri 

Quale maggioranza per “un Draghi al Quirinale”? L’appello/proposta del direttore di questo giornale ha una questione politica preliminare essenziale per la sua stessa praticabilità. Una maggioranza troppo dissimile da quella attuale ridurrebbe l’energia necessaria a completare le riforme, garantire l’attuazione del Pnrr e insomma a evitare il progressivo distanziamento delle forze politiche da se stesse specie in vista di uno scenario elettorale comunque in avvicinamento, al più tardi nel 2023. La sindrome Monti, si potrebbe dire. Matteo Salvini ha più volte candidato Draghi per la presidenza della Repubblica con operazione insidiosa ancor più nella oggettiva consonanza con gli auspici di Matteo Renzi. Forza Italia sarebbe solo favorevole all’elezione dell’uomo che Berlusconi volle alla testa della Bce. I problemi sono a sinistra. Nell’ostilità di Giuseppe Conte e della parte contiana dei 5 stelle in parlamento per ora maggioritaria e rafforzata all’esterno dalla linea anti Draghi del Fatto Quotidiano assai influente presso l’ex premier. Potrebbe Draghi essere votato solo da una parte dei 5 stelle? Potrebbe bastare politicamente oltre che numericamente il sostegno dei pentastellati vicini a Di Maio? E poi c’è il Pd.

Per ora nel novero di quelli che Claudio Cerasa descrive come desiderosi semmai di mantenere Draghi a Palazzo Chigi fino al 2023 per poi archiviarlo. Un Pd che vorrebbe, accantonando realisticamente ambizioni di molti e illustri esponenti, costruire semmai un Mattarella bis. “Va costruito, non può essere nè un tappabuchi, nè una soluzione maturata sulle macerie”, osservano in queste ore dirigenti vicini al segretario Enrico Letta. Concordi nel rinviare l’esame della questione e la chiarezza nelle aspirazioni a dopo le amministrative. Perché è innegabile il peso del primo test post pandemia sulle dinamiche parlamentari, sul peso delle leadership e la loro capacità di controllare i giocatori della partita, deputati e senatori presidenti di regione in aule tribalizzate. Draghi ha bisogno di una maggioranza simile all’attuale per poter gestire la formazione di un nuovo governo garante della continuità indispensabile, per non vedere estenuato il suo potere e la sua immagine nei gorghi e nelle ricadute politiche di una mancata elezione. Mettere al sicuro legislatura e Colle è l’obiettivo del Pd. Ma Draghi al Quirinale per il Pd centra l’obiettivo?  È questo il punto da chiarire senza ambiguità, una valutazione rispetto all’esperienza e alla linea del Draghi presidente del consiglio. E infine cosa vuole fare Draghi? Difficile che non avverta l’allettamento del Quirinale, ultima trincea istituzionale. Troppo concreto e attento per abbandonare la diga della dissimulazione. Protetto dal benaltrismo, “ambisce a benaltro, la commissione europea o chissà”, dalla sua credibilità, dall’europeismo in una Unione in transizione e dall’atlantismo può stare anche bene e fare bene dove è.

Alessandra Sardoni


Assicurazione anti cigno nero

Può, almeno per una volta, una democrazia malata compiere una scelta razionale e mettersi relativamente al sicuro nel medio termine? Sembra essere questo l’interrogativo su cui si fonda l’intervento del direttore Cerasa. Come nella più classica delle operazioni di risk management, considerati rischi e benefici, la soluzione proposta appare essere la più ragionevole. Quindi nessuna obiezione? Nessun rischio all’orizzonte? L’impressione è che la cucina della politica italiana non sia il palco del Meeting di Comunione e Liberazione. Su quel palco ieri abbiamo visto i leader dei principali partiti politici confrontarsi con inchini, fioretto e argomenti razionali. Qualcuno dei presenti, come il segretario del Pd Enrico Letta, ha chiesto esplicitamente a Mario Draghi di restare Presidente del Consiglio “almeno” fino al 2023 segnalando così un’opzione preferenziale che non è detto fosse necessariamente quella degli altri leader politici che condividevano il palco con lui. Così un’analisi che a fine agosto può apparire razionale potrebbe non esserlo necessariamente a gennaio poiché, contrariamente a quanto accade in tante democrazie non malate, quattro o cinque mesi nella politica italiana di oggi portano in dote infinite asimmetrie informative che rischiano di rendere impossibile, o almeno miope, ogni analisi che voglia ancorarsi a dati stabili. Non sappiamo ancora quale sarà l’evoluzione dell’epidemia nelle prossime settimane o l’esito delle elezioni di ottobre. A queste variabili si aggiunge la transizione dell’ordine liberale internazionale sempre più accerchiato e in crisi e il difficile passaggio dell’Unione europea all’era post-merkeliana. Può allora, se questo è lo scenario, un Paese come l’Italia permettersi si escludere dal suo orizzonte a medio-termine un’“assicurazione sulla vita per i prossimi sette anni”? Del resto, ognuno si assicura come può. È passata pressoché inosservata in Italia la scelta di Palantir (la società di Peter Thiel che produce software per governi e aziende) che, intravedendo all’orizzonte la possibilità di un nuovo “cigno nero”, ha deciso di investire 50,7 milioni di dollari in lingotti d’oro. Se Palantir si assicura contro il prossimo “cigno nero”, perché non dovrebbe farlo l’Italia?

Pasquale Annicchino


Eterno stato d’eccezione?

Mi sembrate tutti matti. Mica perché volete Draghi al Quirinale, per carità: avercene di scelte di quel livello. Non perché volete Draghi: per i motivi. Meglio sette anni che due, scrive il direttore: giacché provare a tenerlo a palazzo Chigi dopo le elezioni è troppo rischioso, mandiamolo al Colle. Cioè, quanto deve durare l’emergenza in Italia? O non ci ricordiamo perché Draghi è presidente del Consiglio? Per il fallimento della politica, avete scritto voi mainstream. Per la vittoria di una pessima politica direi io (discorso lungo). Perché non si poteva votare, per l’emergenza sanitaria, per non rischiare di perdere i fondi europei. No mi spiace, amici. La Costituzione non dice che si incarica di fare il governo l’italiano migliore, ammesso che Draghi lo sia e non ho ragione di metterlo in dubbio. Solo circostanze eccezionali spiegano “un governo senza formula politica”. Che voi, secondo motivo che mi mette i brividi, vorreste prorogare previo trasferimento al Colle affinché garantisca non tanto la Costituzione, ma l’attuazione del suo programma. Un presidente garante di se stesso, già premier grazie a uno stato d’eccezione. Sarebbe il primo caso di capo dello stato designato dal suo predecessore, peraltro (e credo che Mattarella stesso inorridisca all’idea). Intanto che destra e sinistra passano i prossimi anni a misurarsi le reciproche lunghezze in elezioni che non decidono nulla. Ma la democrazia, quando torna? Ma vi fa davvero tanto schifo la politica, amici del Foglio?

Chiara Geloni


Non facciamo confusione

Caro direttore, ho letto il tuo articolo sulla partita del Quirinale, la cui descrizione, seppure accurata e prudente, non mi trova d’accordo. So bene che in politica il miglior scenario possibile è quello che più raramente si avvera, ma quando si stratta di tratteggiare scenari, tanto vale azzardare per il meglio. Mario Draghi oggi rappresenta la garanzia (non la sola e forse neppure sufficiente) che il treno del Pnrr non deragli appena partito, portandosi appresso nel disastro non solo i destini del paese ma che quelli dell’EU, che sul successo del NGEU si gioca il suo equilibrio e il suo futuro. Questo governo sta posando i binari lungo il quale quel treno dovrà correre nei prossimi anni, e dunque costruire una sorta di percorso obbligato per portarlo alla meta del 2026, alla fine del progetto. Questo mi pare il compito essenziale e irrinunciabile che Draghi e il suo team stretto di ministri si è preso in carico in questa ultima fase della legislatura. Lasciare i binari a metà con il trasferimento al Quirinale, vorrebbe dire far proseguire il convoglio dei finanziamenti europei senza una strada tracciata e dunque aperto ad ogni strada, anche la più avventurosa. Credo che Draghi non dovrebbe mollare la sua postazione a Palazzo Chigi fino all’ultimo giorno utile: senza quella strada tracciata infatti, anche la sua influenza dal Quirinale sarebbe molto marginale, affidata a tentativi di  aggiustamento di una rotta che non c’è o che sarà dettata dalle alterne convenienze dei partiti alla guida.

Neppure SuperMario può trasformare la presidenza della Repubblica in qualcosa che non è. Nel migliore degli scenari possibili Sergio Mattarella dovrebbe accettare di accompagnare questo compito fino all’ultimo giorno, d’altronde è lui ad averlo immaginato e costruito, ne è il tutore e il garante. Il tandem quindi potrebbe proseguire costruendo per il prossimo Parlamento e per il Governo che ne nascerà un legato stringente almeno per quanto riguarda il procedere del Pnrr. Quello che accadrà dopo questo biennio scarso è troppo lontano da intravedere, ma sempre azzardando lo scenario miglior, potrebbe essere proprio il prossimo Parlamento, probabilmente a maggioranza di centro-destra, a mandare Draghi al Quirinale. D’altronde non sono proprio Salvini e Meloni a chiedere un giorno sì e l’altro pure di mandarcelo sin da subito? Mi sentirei però di dire che, in cambio di un Draghi al governo fino alla fine della legislatura e di un Mattarella disposto a prolungare la sua permanenza al Quirinale, sarei disposto a lasciare il futuro presidente della Repubblica nelle nebbie della distanza. A quel punto, avendo fatto ciò che si deve, accada quello che può.

Giancarlo Loquenzi

 

Un patto degasperiano 

Condivido in toto la riflessione del direttore Cerasa. Grazie alla sapiente regia del presidente Mattarella, con il governo Draghi l’Italia ha ritrovato una larga unità nazionale attorno ai valori fondanti, “degasperiani”, dell’europeismo, dell’atlantismo, del multilateralismo. E di una visione modernamente keynesiana del rapporto tra finanza pubblica e sviluppo economico e sociale. È importante che il governo Draghi porti a termine il suo mandato. Ma, se possibile, è ancora più importante che la riconquistata unità degasperiana dell’Italia non si esaurisca insieme alla legislatura e sia posta alla base della scelta del successore di Mattarella alla presidenza della Repubblica. Dal 1992 in qua, nonostante bipolarismo e maggioritario, i governi hanno continuato a vivere in modo stentato se non effimero, sostenuti da maggioranze parlamentari fragili e non di rado contraddittorie. La stabilità del paese, se non il suo sostanziale indirizzo politico, sono stati orientati, per non dire determinati, in larga misura dal Quirinale, che è diventato, nella seconda ancor più che nella prima Repubblica, l’istituzione chiave del paese. È dunque decisivo che il patto degasperiano che sostiene il governo in carica, nella persona che lo incarna fisicamente e politicamente, Mario Draghi, salga da Palazzo Chigi al Quirinale: è la migliore garanzia che, chiunque vinca le elezioni politiche, comunque ormai prossime, e qualunque governo si formi, i fondamentali della politica estera, europea ed economica e sociale del paese resteranno nella rotta tracciata dal governo Draghi. Visto dall’angolo visuale del Pd, Draghi al Quirinale rappresenta la continuità di un indirizzo che da Scalfaro arriva a Mattarella, passando per Ciampi e Napolitano. E la sfida a raccogliere l’eredità del governo Draghi, candidandosi a dar vita ad un nuovo esecutivo, sulla base di un chiaro mandato popolare. Enrico Letta ha  i numeri per  realizzare questa impresa.

Giorgio Tonini

 

Non basta un Draghi al Quirinale 

L’elezione del Presidente della Repubblica in un contesto parlamentare indefinito assume un significato di portata politica decisiva. Non si tratta, quindi, di scegliere soltanto la personalità più adatta ad incarnare l’unità del paese e la saldezza  delle istituzioni. Se il tema è politico, è quella la chiave che deve guidare ogni previsione circa le mosse che saranno assunte dai leader delle forze presenti in parlamento. Con occhi attenti ai rapporti di forza attuali, ed a quelli che potranno uscire dal voto del 2023. In base ai sondaggi, le forze di centrodestra unite tra loro paiono confermare un significativo vantaggio. E non è quindi imprevedibile che siano queste forze a spingere in via prevalente per l’elezione di Mario Draghi, per accorciare la distanza dal voto. Ma il tema più importante è quello che riguarda l’offerta politica nel suo insieme. L’Italia resta l’unico dei grandi paesi europei ad essere privo di un centrodestra repubblicano e popolare saldamente europeista e ad avere un centrosinistra attorcigliato in un tema simile, se si guarda alla prospettiva di una alleanza tra PD e M5S, dove il primo soltanto assolve a quella funzione stabilizzatrice ed euroatlantica. Ma questa offerta politica non riflette i rapporti di forza che si sono determinati nel paese a seguito della crisi del governo Conte 2 e della nascita del Governo Draghi.

Quello di Mario Draghi non è un governo tecnico, ma un governo di grande coalizione. Draghi, se solo si leggono le sue lezioni, se si interpretano i suoi atti, se si distillano le idee politiche dal contesto delle sue espressioni istituzionali, ha una robusta formazione liberaldemocratica, con una origine ancor più marcatamente progressista. E oggi è proprio l’azione del governo, fortemente caratterizzata dalla personalità e dalle idee del Presidente del Consiglio, ad avere il più ampio consenso nel paese. È elevato l’apprezzamento sulla politica economica, sulle politiche di tutela sociale, di riconversione dell’economia; vi è consapevolezza che la sua presenza è la garanzia per l’Europa, che per la prima volta ha innescato la marcia dell’integrazione fiscale con il più massiccio piano di investimenti pubblici dopo il Piano Marshall. E, quindi, la sorte di Draghi rispetto alla vicenda del Quirinale non può che essere legata alle iniziative che saranno assunte per dare peso elettorale, oltre che capacità d’influenza, a questa posizione politica.

E se queste iniziative, allo stato ancora molto sparpagliate e fragili, dovessero vedere la luce in un arco temporale breve, molto potrà cambiare nel clima politico che farà da sfondo all’elezione del presidente. Se, ad esempio alle elezioni di Roma, si dovesse affermare al secondo turno un naturale asse tra Gualtieri e Calenda, se cioè il centrosinistra cominciasse ad assumere quelle sembianze, allora l’effetto potrebbe prodursi in modo visibile anche in vista del voto politico. Al di la dei meriti indiscutibili di Draghi, che ne farebbero il migliore dei presidenti della repubblica possibili, non si può girare lo sguardo dall’altra parte rispetto alla prospettiva che al governo, se nulla cambia, si insedi una maggioranza scettica sull’Europa, sui vaccini, sulle alleanze internazionali e sulla credibilità rispetto al piano di riforme che costituisce l’ossatura di qualunque governo utile dell’Italia dei prossimi anni. E quindi, se questo fosse il prezzo, sarebbe agevole prevedere che non avverrebbe anzitutto per decisione dello stesso Draghi e dei suoi grandi elettori, in particolare europei.

Carlo Cerami


Fidarsi del nuovo podestà

Qual è stata l’unica personalità in grado di far entrare nella stessa maggioranza Di Maio, Letta, Salvini, Renzi e Berlusconi? Mario Draghi, e solo questo risultato mette il Presidente del Consiglio in cima alla lista dei candidati al Quirinale. Draghi è per la politica italiana degli anni venti del ventunesimo secolo ciò che i podestà sono stati per i comuni medievali: un tecnico con grande sensibilità politica capace di pacificare fazioni litigiose e inconcludenti e di addomesticare conflittualità fratricide dannose per la Repubblica poiché generatrici di instabilità e inaffidabilità. Nessun uomo di buon senso si aspetta da questa ampia formula di governo un riformismo sfrenato e radicale. La misura di questo governo sono la moderazione e il gradualismo. Draghi ha in primo luogo evitato le peggiori derive presentiste e clientelari di tutti i partiti preservando la credibilità internazionale dell’Italia. E questo è già molto, considerati i trascorsi degli ultimi tre anni. Inoltre, Mario Draghi capo dello Stato sarebbe garanzia di equilibrio tra il vincolo esterno europeo e quello interno della politica economica, oltre che operoso alfiere dell’euro-atlantismo in un momento in cui si stringeranno le maglie dell’Occidente di fronte a una nuova potenziale guerra fredda con la Cina. E se tali motivazioni non dovessero bastare per promuovere Draghi al Quirinale, ve ne sarebbero altre di più pragmatica e concreta fattura. Il centrodestra non ha un proprio candidato al Quirinale, Silvio Berlusconi è troppo avanti con l’età e tutte le altre figure hanno ben poche chances di farcela con questo Parlamento, e dunque Lega e Forza Italia farebbero bene a puntare sul sopraelevato Draghi.

Il centrosinistra, come spesso accade, ha troppi candidati e ognuno vittima del potenziale fuoco amico nel gioco incrociato tra correnti del Pd, Italia Viva, Leu e M5s. Quest’ultimo è ancora la prima forza numerica del parlamento ma non ha più nomi-simbolo da lanciare al Quirinale, né possiede personalità politiche con l’esperienza necessaria al prestigio dell’incarico in discussione e quindi deve necessariamente accordarsi con gli alleati di governo su un nome terzo, non di sinistra e non di destra. A questo punto c’è chi si spaventa poiché l’eventuale elezione di Draghi alla Presidenza della Repubblica aprirebbe la strada alle elezioni anticipate nel 2022 con lo scioglimento anticipato del Parlamento proprio ad opera del nuovo Capo dello Stato. Tuttavia, questo presunto automatismo non è scritto nella Costituzione. Le stesse forze politiche che sostengono l’attuale esecutivo, o anche solo parte di esse, possono accordarsi per costituire un governo che arrivi alla fine della legislatura. Sono diversi, infatti, i ministri con l’esperienza e la capacità necessaria per subentrare a Draghi e preservare la continuità del programma di governo fondato sul Recovery Plan. Anche perché lo stesso Mario Draghi supervisionerebbe l’operato del nuovo governo proprio dal Quirinale. E’ uno scenario possibile anche perché nessun partito di maggioranza, Lega inclusa, ha convenienza nel tornare alle urne da qui a pochi mesi.

Lorenzo Castellani

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