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La difficile partita di Draghi sullo sblocco dei licenziamenti

Luciano Capone

Fmi e Commissione Ue dicono di superare il divieto. Il presidente del Consiglio lo sa, ma deve convincere i partiti

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Le osservazioni delle istituzioni internazionali sul mercato del lavoro, e in particolare sul blocco dei licenziamenti, possono essere intese in due modi: da un lato sono una critica al governo Draghi per non aver fatto abbastanza, dall’altro sono un supporto al premier che si sta muovendo nella direzione giusta nonostante le forti resistenze dei sindacati e dei partiti di maggioranza (dal Pd al M5s, passando per la Lega di Matteo Salvini, che cambia idea ogni giorno e spesso più volte al giorno). Anche il Fmi, nella sua consultazione annuale con l’Italia prevista dall’articolo IV, accende una luce sul mercato del lavoro dicendo che il turnover “dovrebbe riprendere una volta che la crisi sanitaria si sarà ritirata e il divieto di licenziamento sarà gradualmente eliminato”. 


Sul medesimo tema era intervenuta l’altroieri, con parole più nette, la Commissione europea nel report sull’Italia dicendo che “il blocco dei licenziamenti tende a influenzare la composizione ma non la portata dell’aggiustamento del mercato del lavoro”. In pratica, scarica i costi sui lavoratori precari tutelando gli “insider”, quelli con un contratto a tempo indeterminato, ma senza un effetto positivo complessivo. “L’Italia è l’unico stato membro che ha introdotto un divieto universale di licenziamenti all’inizio della crisi Covid-19”, ma un confronto con l’andamento del mercato del lavoro in altri stati membri che non hanno introdotto tale misura, come la Francia e la Germania, “suggerisce che il divieto di licenziamento non è stato particolarmente efficace e si è rivelato superfluo in considerazione dell’uso esteso di schemi di mantenimento del posto di lavoro (cassa integrazione, ndr)”. 


Il problema vero non è tanto che il blocco sia “superfluo” ma che, scrive sempre la Commissione europea, “potrebbe persino rivelarsi controproducente, più a lungo resta in vigore, poiché ostacola il necessario adeguamento della forza lavoro a livello aziendale”. Non sono, quelle inviate da Bruxelles, osservazioni diverse dal Draghi pensiero. Poco prima di diventare premier, a dicembre 2020, in un report del Gruppo dei Trenta sull’economia post Covid, Draghi scriveva che la crisi produrrà effetti permanenti e pertanto “i governi dovrebbero incoraggiare le trasformazioni necessarie o auspicabili e gli aggiustamenti nell’occupazione. Ciò potrebbe richiedere una certa quantità di ‘distruzione creatrice’ poiché alcune aziende chiudono e ne aprono di nuove, e dato che alcuni lavoratori hanno bisogno di spostarsi tra aziende e settori, attraverso un’adeguata assistenza e riqualificazione”. Una visione, quella dello stato che accompagna le trasformazioni, molto diversa dallo schema “blocco dei licenziamenti” più “cassa integrazione” prorogato all’infinto, portato invece avanti dai sindacati e dai partiti di maggioranza.

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Le criticità di questa misura introdotta dal governo Conte, d’altronde, erano già state segnalate l’anno scorso dalla Banca d’Italia: “L’estensione  del blocco dei licenziamenti – scriveva  Via Nazionale in una memoria sul dl “Agosto” – potrebbe rallentare nel medio periodo la riorganizzazione aziendale e la riallocazione dei lavoratori tra imprese e tra settori, penalizzando i lavoratori espulsi dal mercato del lavoro nei mesi scorsi, in larga parte giovani”. E dall’Ocse, secondo cui il divieto dei licenziamenti “può provocare ulteriori fallimenti aziendali” e “rischia inoltre di spostare ulteriormente l’onere dell’adeguamento sui contratti temporanei”.
E’ evidente che bisogna andare verso un superamento, ma ciò pone un problema politico. Perché il blocco dei licenziamenti è uno di quei provvedimenti che fanno raccogliere facili consensi all’inizio, ma che diventano politicamente costosi quando è il momento di toglierli perché creano troppi danni. Anche per questo motivo non doveva essere introdotto.

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