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"Nicò, ma fai sul serio?"

Zingaretti sorprende tutti. E sull'assemblea del Pd grava l'incognita di Bonaccini

Valerio Valentini

Orlando ha saputo all'ultimo. Franceschini lo ha cercato, per ora, invano. I vertici dem scioccati dalla scelta del segretario. L'ipotesi della Pinotti reggente. E intanto Bonaccini incontra i senatori di Base riformista. "Candidarmi? Vediamo"

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L’unico che l’accreditava, l’ipotesi, era Goffredo Bettini: “Nicola non ne può più, non è da escludere che molli”, diceva alla vigilia, col tono del mentore. Ma pareva talmente assurda, come ipotesi, che nessuno la prendeva sul serio: tanto più che lui, Zingaretti, non s’era confidato con nessuno. Perfino Andrea Orlando, che è il suo vice, l’ha scoperto quando il post su Facebook che annunciava le dimissioni era già pronto. E quando ha incrociato lo sguardo di Dario Franceschini e Lorenzo Guerini, sulla soglia del Cdm, ha allargato le braccia.

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L’unico che l’accreditava, l’ipotesi, era Goffredo Bettini: “Nicola non ne può più, non è da escludere che molli”, diceva alla vigilia, col tono del mentore. Ma pareva talmente assurda, come ipotesi, che nessuno la prendeva sul serio: tanto più che lui, Zingaretti, non s’era confidato con nessuno. Perfino Andrea Orlando, che è il suo vice, l’ha scoperto quando il post su Facebook che annunciava le dimissioni era già pronto. E quando ha incrociato lo sguardo di Dario Franceschini e Lorenzo Guerini, sulla soglia del Cdm, ha allargato le braccia.

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Ma la solitudine in cui è maturata la mossa del segretario, più tattica che strategica, sta lì a dimostrare che la sfida lui la rivolge a tutti, perché evidentemente da tutti si sentiva sfidato. Dal correntone di Base riformista, certo, quello degli ex renziani da stanare. Ma anche da chi dovrebbe essere fedele alleato del segretario. Perché “lo stillicidio” è venuto da ogni parte: da Bettini, Orlando e Gianni Cuperlo che da sinistra lo esortavano ad aprire il rodeo del congresso; e  da chi, come Luigi Zanda e Pierluigi Castagnetti, con le proprie sferzate lasciava intendere che anche il cordone di sicurezza che lega Franceschini al Colle si fosse rotto.

 

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E non è un caso che proprio il ministro della Cultura - che pure sulle prime nasconde a stento la sua irritazione per l’avventatezza di un segretario che poi stacca il telefono per ore - sia il primo, allora, a indicare la strada. E’ lui che chiede a Zingaretti di ripensarci e a tutti di dismettere “ogni conflittualità interna”, e a lui s’accodano tutti, nessuno escluso. Un profluvio di attestati di stima che arriva fino a Giuseppe Conte, che di certo nel destino di Zinga vede ora un punto di riferimento anche della propria scalata al cielo pentastellato. Alla fine anche Guerini - che al precipitare degli eventi aveva imposto ai suoi la linea del silenzio, fiutando puzza di tatticismo - si associa al coro, ma senza rinnegare la legittimità del confronto,  del dibattito interno. Stessa posizione assunta da Andrea Marcucci e Graziano Delrio.

 

Perché in fondo è proprio questa la convinzione diffusa: che l’azzardo di Zingaretti sia funzionale a scansare l’insidia incombente di un congresso che pareva  inevitabile e a guadagnare tempo, rimandando la resa dei conti almeno fino all’autunno. Quando magari un’eventuale vittoria del Pd alle amministrative potrebbe dargli nuova forza. Sempre che il passo indietro sia definitivo, e allora Zinga potrebbe perfino pensare a una candidatura a sindaco di Roma. Tutto passerà adesso dall’assemblea del 13 e del 14 marzo. A cui il segretario dovrà però arrivare con una posizione chiara: e se ripensamento dovrà esserci, dovrà maturare prima di allora. Perché, da statuto, l’assemblea potrà solo prendere atto delle dimissioni del segretario, e stabilire se eleggere un successore (e già si parla di Roberta Pinotti come reggente) o imboccare la via delle primarie. E nella buriana generale, a governare il partito per ora, dovrà essere quella Valentina Cuppi che un anno fa visse la sua apoteosi quasi per caso, lei che da giovane sindaca di Marzabotto la tessera del Pd doveva ancora prenderla. Venne scelta come presidente per svecchiare il partito, e ora si ritrova a doverlo guidare nel mezzo della crisi. Anche per questo nessuno osa sbilanciarsi.

 

Neppure quello Stefano Bonaccini da molti considerato lo sfidante designato. E infatti ieri, sceso a Roma per gli impegni legati alla Conferenza stato-regioni, tra un impegno e l’altro s’è affacciato anche in Senato per un colloquio con alcuni esponenti di quella Base riformista che potrebbe puntare su di lui. E certo Bonaccini non s’è sottratto all’ipotesi di una sua candidatura. “Ma prima bisogna capire cosa succede”, ha precisato. E cosa stesse per succedere, però, non lo immaginava neppure.

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