Eccolo il congresso del Pd

Idee, rupture, linee da cambiare. Un girotondo sul Pd che sarà

 

Non va lontano un partito in cui da una parte si polemizza su assetti interni e alleanze, dall’altra ci si arrocca agitando il fantasma di Renzi come arma contro gli avversari interni. Eppure di questioni serie da discutere ce ne sarebbero. Il governo Conte bis non c’è più e un’intera strategia politica va reinventata. Il Pd è solo la quarta forza parlamentare della nuova maggioranza e lo si vede chiaramente nella composizione del governo, con le principali leve decisionali in mano a Draghi e ai suoi ministri tecnici e il Pd molto più debole rispetto al Conte bis. E’ stato giusto accogliere l’appello di Mattarella, ma la nostra partecipazione al governo Draghi non può limitarsi alla responsabilità nazionale.

 

E’ necessario identificare rapidamente una nostra “agenda”. Evitando la solita lista della spesa di proposte che nessuno ricorda e concentrandoci attorno ad alcuni temi di grande valenza. Il lavoro, innanzitutto, sollecitando un programma ambizioso di iniziative per crearlo oltre che ammortizzatori sociali più efficaci per difenderlo. La sanità e la scuola, che hanno bisogno di riforme e investimenti. L’assegno unico per le famiglie, assente nel discorso di Draghi ma imprescindibile in un Paese che nel 2020 ha visto sprofondare ulteriormente la natalità. Un nuovo piano nazionale per l’energia e il clima, che declini le scelte necessarie per raggiungere i nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni. Soprattutto, dobbiamo impiegare il tempo che abbiamo davanti per discutere dell’Italia e del nostro ruolo in un Paese che uscirà trasformato dalla pandemia, con un’economia in crisi e una società lacerata da vecchie e nuove disuguaglianze. Ma anche con l’opportunità storica di riavviare il motore dello sviluppo.

 

Nel frattempo, il panorama politico sta cambiando rapidamente. Il riposizionamento europeista di Salvini è tattico ma guai a sottovalutare una Lega di governo e di lotta. Fratelli d’Italia sfrutterà una rendita di (op)posizione destinata a crescere. I 5 stelle sono in profonda crisi ma stanno provando a riorganizzarsi attorno all’ex premier Conte. E noi? Si illude chi pensa che sia sufficiente tirare a campare con un aggiustamento dei gruppi dirigenti e poco altro. Questo è il tempo di rilanciare, di tornare a investire sul Pd. Sapendo che le alleanze sono indispensabili, ma non bastano a definire la nostra identità. Che funzione vuole svolgere il Pd in questa nuova fase? Solo un confronto vero, aperto all’Italia, ci aiuterà a metterla a fuoco. Non un ordinario congresso, ma un vero e proprio percorso costituente.

 

Antonio Misiani, deputato del Pd

  

Che fare con il Pd? Non mi soffermo sugli errori di questi mesi. Diversi problemi vengono da lontano. L’abbandono di un’agenda attenta ai diritti materiali delle persone, e l’aver del tutto subordinato l’iniziativa del partito alla dimensione del governo, hanno allontanato dal Pd ampi strati della popolazione, a partire dalle fasce meno garantite. Va da sé che questa frattura non si ricuce correndo dietro ai populisti, ma rilanciando la nostra identità. Più che alchimie politiciste servono alleanze sociali. Fondate sul lavoro. “Se vogliamo pensare le nostra società in modo diverso – dice Papa Francesco – abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitosi e ben remunerati, specialmente per i nostri giovani”. Io ci vedo la nostra ragion d’essere. Che non coincide con il mero recupero della tradizione.

 

Il “conflitto di lavoro” è tutt’altro che evaporato – si pensi alla compressione di diritti prodotta dalla gig economy – ma il quadro è assai più complesso, a partire dal venir meno di condizioni rigidamente definite. Il proliferare del lavoro autonomo, la frequente trasformazione di operai in piccoli imprenditori, il boom dell’impiego a tempo determinato, l’impatto delle nuove tecnologie e dello smart working: quello del lavoro non è più un universo interpretabile – o non solo – con la lente del conflitto di classe. E’ necessario creare posti di lavoro. E i posti di lavoro vengono creati dalle imprese e dagli imprenditori. In un’economia di mercato il buon funzionamento delle imprese è la condizione per la crescita e per la creazione di nuovi posti di lavoro. Che devono essere “dignitosi e ben remunerati”, ma che innanzitutto devono esistere, in ragione di una competitività che si alimenta di innovazione e qualità del capitale umano (ricerca e formazione, quindi). Mettere il lavoro al centro dell’agenda significa assumere la rappresentanza di chiunque viva del proprio lavoro (nonché di chi aspira ad avere un lavoro, a partire da giovani e donne), nella dimensione pubblica ma soprattutto nel mercato; e nel complesso operare perché produttività, buona occupazione ed equa remunerazione del lavoro possano crescere insieme. Da qui può ripartire il Pd.

 

Giorgio Gori, sindaco di Bergamo

 

Il Pd oggi dovrebbe occuparsi di chi vuole rappresentare anziché pensare alla gestione dei suoi rappresentanti. Se sulla parità di genere nell’organizzazione e nelle azioni del Pd, il vicesegretario Orlando risponde parlando di “funzionalità degli assetti” e di “conseguenza del partito degli eletti”, è evidente che lo scollamento dalla realtà può solo peggiorare. Giustificare i nostri errori indicando i nostri difetti non mi sembra una grande strategia. Il Partito democratico e i suoi ministri invece dovrebbero occuparsi dei problemi quotidiani della gente e farlo con semplicità, anziché arrampicarsi sugli specchi.

 

Un problema a caso: le scuole stanno tornando a chiudere, abbiamo milioni di bambini e ragazzi a casa e le norme Covid su congedi parentali, voucher baby sitter e lavoro agile sono tutte scadute. Dobbiamo aspettare che ne parli la Carfagna? Forse il nostro gruppo dirigente lo ritiene un problema di funzionalità degli assetti. Della chiusura quasi generalizzata della scuola imposta dal nuovo dpcm cosa ne pensiamo? Gli adolescenti non potranno vedersi a scuola, ma con l’asporto libero dopo le 18 probabilmente si vedranno altrove. E intanto i genitori che svolgono servizi essenziali (infermieri, forze dell’ordine) possono solo prendere ferie o permessi per poter seguire i loro figli in Dad. I lavoratori autonomi sono ancora un passo indietro: possono chiedere ferie a se stessi, cioè non lavorare, perché lo Stato per loro non ha ancora pensato a niente. Insomma, se il Pd vuole uscire dalla narrazione che lo vuole dilaniato dai conflitti interni, più che dare l’impressione di un fortino assediato in attesa di un Conte che lo venga a salvare, dovrebbe sparare qualche colpo per difendere coloro che in questa pandemia stanno soffrendo di più. In primis donne e giovani. Anche perché è ormai dimostrato che il fortissimo riferimento dei progressisti, al centrosinistra di sangue più che darlo lo toglie.

 

Chiara Gribaudo, deputato del Pd

 

Nella storia della sinistra, riformisti e massimalisti si sono sempre divisi sul peso da dare al “movimento” (all’azione concreta per far avanzare i diritti sociali nell’immediato) rispetto al “fine ultimo” (al superamento del sistema capitalistico, tenendosi alla larga da qualsiasi miglioria che ne potesse ritardare la caduta). “Il movimento è tutto, il fine è nulla”, diceva il riformista Eduard Bernstein. Il Pd dei nostri giorni ha pensato bene di uscire da questa disputa secolare avanzando un nuovo paradigma: “il movimento è nulla, il fine me lo sono scordato”.

 

Da Bernstein a Corrado Guzzanti: il semaforo come orizzonte politico. Sotto il semaforo tutte le auto corrono, si agitano, mentre lui resta tranquillo. Immobile. Fermo. I risultati di questa strategia non sembrano granché. Ma di fronte all’accelerazione inferta dal governo Draghi, le cose non possono che peggiorare. Tutti si muovono. I 5 stelle si rifondano intorno a Conte. La Lega si ripensa in chiave europea. Al centro si parla di federazioni. Nuovi soggetti ecologisti scalpitano. Se il Pd-semaforo non si dà una mossa, rischia di condannarsi all’irrilevanza politica. Darsi una mossa non vuol dire affidarsi all’ennesima resa dei conti fra bande, all’ennesima disfida tra leadership sempre più muscolari e sempre meno carismatiche (tutte declinate rigorosamente al maschile). E non vuol dire neanche dividersi intorno ad alchimie politiche (con chi mi alleo?) o risse personalistiche (ce l’hai con Zingaretti? Sei amico di Renzi?).

 

Tutte queste discussioni sono roba da marziani. I nodi da sciogliere sono altri. Il Pd è ormai scomparso da interi territori, non sa attrarre le energie di giovani, donne e movimenti sociali, in preda com’è al patto di sindacato tra oligarchi e correnti: vogliamo continuare così, facendoci del male? Vogliamo lasciare ad altri la rappresentanza di giovani, donne, partite Iva? Vogliamo provare a fare qualcosa di sinistra, contrastando rendite e clientele che impediscono ai servizi pubblici (dal lavoro alla formazione, dalla scuola alla salute) di fare redistribuzione, dando risposte alla vita delle persone? L’elenco delle domande potrebbe continuare. Diamoci una mossa e forniamo qualche risposta. Se non vogliamo chiamarlo congresso, chiamiamolo big bang. Ma facciamolo in fretta.

 

Tommaso Nannicini, senatore del Pd

  

C'è una cosa semplicissima che il Pd potrebbe fare per uscire dal nulla in cui è sprofondato in questi mesi: tornare ad essere il Pd. Smettere di pensare ossessivamente a cosa il M5s vorrebbe che fosse il Pd o a come blandire il trasformista Conte. E ricominciare invece a dire all'Italia cosa vogliamo fare. Come vogliamo rilanciare e cambiare il nostro paese. Chi vogliamo rappresentare, quali sono i nostri riferimenti sociali, come innovare la nostra cultura politica. Che idea di democrazia, di sviluppo, di modernizzazione del paese vogliamo incarnare.

 

C’è un popolo enorme che chiede di poter tornare a sentirsi rappresentato, un popolo che ha bisogno di riformismo e radicalità. E al quale abbiamo offerto solo politicismo, alleanze, subalternità.  Un lungo elenco di “no”, “non ora”, “non si può” quando invece si poteva e doveva organizzare una parte del paese intorno a un progetto e a una battaglia di cambiamento. Perché proprio in questo c’è un nodo di fondo che dobbiamo sciogliere: non fondammo il Pd per farne uno strumento di mantenimento dello status quo, ma perché divenisse il propulsore del cambiamento e dell’innovazione. Oggi non siamo all'altezza di quella ambizione e non svolgiamo quella funzione: non dettiamo l’agenda, ma inseguiamo i temi posti da alleati e avversari. Non guidiamo i processi, ma li subiamo. Non abbiamo la forza di un pensiero autonomo, e quindi ci scopriamo subalterni e afoni. La nascita del governo Draghi obbligherà tutti partiti a ridefinire il proprio profilo e progetto e provocherà trasformazioni profonde nel sistema politico. Ne vediamo già i primi segni a destra. Ma di un Pd che riscopra la propria forza e il proprio ruolo c'è ancora bisogno. Anzi, ce ne è ancora di più nell’Italia dolente e ingiusta di oggi. Evitiamo di perdere questa occasione indugiando nella difesa di una linea ormai superata dai fatti o peggio chiudendo il Pd in un bunker di politicismo autoreferenziale.

 

Matteo Orfini, deputato del Pd

 

Oggi abbiamo davanti a noi due urgenze, la campagna vaccinale e il rilancio economico del paese. Ma è pur vero che si è aperta una fase politica nuova e per essere protagonista il partito democratico non può esaurire la sua proposta politica al tema delle alleanze strategiche con i cinque stelle, ma deve aprire una discussione vera, per la quale serve un congresso, per rilanciare la propria identità. Il partito democratico è nato come partito a vocazione maggioritaria e come casa dei riformisti italiani. Oggi il Partito democratico è semplicemente “non riconoscibile”. L’orizzonte del Pd deve continuare ad essere il riformismo, anzi forse sarebbe il caso di dire che deve tornare ad essere il riformismo. Ma come spesso accade per ciò che è troppo detto o troppo sentito, è facile cadere nello scontato, e dare per scontate molte cose.

 

Scordandoci prima di tutto che riformismo non significa semplicemente “fare le riforme” ma rappresentare il nuovo, dare voce a quei settori della società che vogliono cambiare e che rappresentano la società che cambia. Nei suoi anni migliori la sinistra ha rappresentato il nuovo, e i suoi dirigenti erano selezionati proprio per rappresentare il nuovo. Sono gli anni in cui la sinistra è stata un grande partito di governo, anche stando all’opposizione. Se non rappresenti il nuovo, dal governo finisci nel sottogoverno, ossia nell’ordinaria amministrazione dell’esistente. Il nuovo oggi sono i nuovi lavori frutto della flessibilità che inevitabilmente arriva con la terziarizzazione, le nuove forme del commercio anche queste figlie della globalizzazione, la spinta migratoria, la richiesta di inserimento a pieno titolo nel governo della società da parte delle donne, uno sviluppo che ha nell’economia verde e circolare il suo fulcro propulsivo.

 

A tutto queste domande di cambiamento la sinistra si è posta troppe volte dalla parte dei garantiti, finendo per assumere un profilo statico, e perdendo il contatto con la società. Non abbiamo governato il cambiamento ma l’abbiamo subito. Il Pd che vorrei è invece un Pd che governa il cambiamento. Accetta la sfida delle migrazioni globali ma non si limita ad accogliere, puntando invece a integrare; ascolta la richiesta delle donne ma non si riduce a fornire quote di rappresentanza quanto promuove effettive pari opportunità anche per le donne per potersi misurare con la selezione del mondo del lavoro; è attento ai nuovi lavori, alle nuove partite Iva, da tutelare come quelli che sono a reddito fisso e impiego sicuro. La rappresentanza dei lavoratori è rappresentare anche chi non lavora, chi è sottoccupato o chi è in cerca di lavoro, non solo chi un posto già ce l’ha. Sono questi i mondi con la sinistra ha perso i contatti, e che occorre al più presto recuperare. Il nostro terreno è il futuro, la nostra sfida è percorrerlo prima e meglio degli altri. Il sole dell’avvenire, si diceva una volta per definire i partiti di sinistra. Avvenire, appunto, non tramonto.

 

Simona Bonafè, vicepresidente al Parlamento europeo
Gruppo Socialisti & Democratici

 

In questi anni tumultuosi e di profondi cambiamenti, il Partito democratico ha assunto decisioni difficili e delicate, che ho condiviso senza riserve: dall’alleanza con il Movimento 5 stelle per sbarrare la strada a una deriva sovranista e antieuropea, fino alla decisione di sostenere il governo Draghi per completare il percorso di uscita dall’emergenza economica e sociale della pandemia. Ciò è stato possibile anche grazie alla segreteria di Zingaretti che ha consentito al Pd, attraverso una accurata salvaguardia dell’unità interna, di superare passaggi difficili, che hanno visto attraversare scissioni amare e scongiurare presagi di sventura.

 

Credo però che in un tempo di trasformazioni che sfida anche la nostra identità, occorra oggi ridefinire con chiarezza il nostro ruolo, la nostra vocazione e posizione dentro la società italiana, le nostre idee ed aspirazioni. Anche affrontando un passaggio congressuale, se necessario, e possibilmente senza ambiguità e infingimenti. Partendo dalla nostra natura, di un partito che è nato con l’ambizione di essere un “country party”, per dirla con le parole di Beniamino Andreatta, vale a dire un partito che si rivolge all’intera società italiana, che non si rinchiude a priori dentro un recinto. Un partito cioè che, grazie alla peculiare storia del nostro paese, fa dell’incontro tra le anime riformiste di impronta socialista, cattolica, laica ed ambientalista la sua vera ricchezza. Un partito geloso delle sue tradizioni ma che non guarda al passato, e che non rinnega niente, anche della propria storia recente.

 

Tradotto in scelte politiche che valgono per l’oggi, questo profilo politico significa alcune cose. Sul piano della leadership, significa che il partito democratico non rinuncerà mai a proporsi al paese come soggetto in grado di esprimere la responsabilità della guida del paese, senza delegare questo incarico ad altri. Sul piano delle alleanze, vuole dire che se è vero che il Movimento 5 stelle, soprattutto in ragione della indubbia evoluzione e maturazione compiuta in questi anni, e del positivo percorso di governo del Conte bis, è un nostro naturale interlocutore, è anche vero che questo rapporto non è esaustivo né sufficiente, e che il nostro sguardo è volto anche al centro dello schieramento politico. Sul piano dei programmi, allude ad una nostra vocazione naturale al perseguimento di un equilibrio faticoso ma ineludibile, da rinvenire di volta in volta nelle concrete scelte di governo, tra l’equità e la giustizia sociale da un lato, e la tutela della libertà di impresa, del mercato di concorrenza, delle autonomie dall’altro. Solo in questo modo, io credo, il Partito democratico potrà continuare a rappresentare quella grande infrastruttura della nostra democrazia che ha contribuito alla stabilizzazione del paese in questi anni difficili.

 

Alfredo Bazoli, deputato del Pd

 

Il governo Draghi apre un’altra fase politica. Più che fossilizzarci a ricostruire le colpe e i meccanismi che ci hanno portato fin qui, serve capire cosa comporta questa fase. Il Pd è pronto ad affrontare la novità? La prima innovazione di questa fase riguarda il dovere dell’unità. Cercare cioè che unisce è un esercizio complesso e sfiancante, a cui nessuna forza politica è abituata. Per il Pd il dovere dell’unità non deve essere scambiato con la tirannia della stabilità che spesso sbiadisce le nostre idee e paralizza le nostre richieste. Dovremo avere chiaro quale idea di futuro vogliamo costruire, per chi ci battiamo.

 

La seconda novità riguarda l’identità. Nella sua storia, il Pd spesso ha corso il rischio di definirsi non per quello che è ma in opposizione all’identità dell’avversario (prima Berlusconi, poi Salvini, e ora?). Questa fase di unità presenta quindi una sfida ulteriore. Non c’è dubbio che le identità tra noi e la Lega sono decisamente distinte. Ci sarà un rapporto di collaborazione, per quello che riguarda il governo, e di competizione, nella società e nei territori, a partire dalle amministrative di quest’anno. Competeremo innanzitutto sulla rappresentanza: chi rappresenterà i ceti produttivi? Noi dobbiamo stare con chi fa fatica. Con la mamma single con due figli che ha bussato alla Caritas e con le imprese che fanno fatica (in questo anno di Covid anche le imprese sane stanno facendo fatica) che però non sanno come affrontare un passaggio epocale come quello che stiamo vivendo. E poi dovremo confrontarci con la Lega sull’idea di nazione. L’Italia è un paese con complessi di inferiorità, diffidente, insolente, sullo stile di Giorgia Meloni, o un paese che ha fiducia in se stesso, che occupa un posto nel mondo senza odiare i vicini e che vuole collaborare con le altre nazioni?

 

Lia Quartapelle, deputato del Pd

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