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Nomi e strategie

Next generation Draghi

Claudio Cerasa

Istituzioni e burocrazia. Le nomine dell’éra Draghi hanno un  filo conduttore: trasformare il deep state non in un nemico da abbattere ma in un alleato  da usare per trasformare l’Italia. Occhio alle date

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Il decisionismo mostrato da Mario Draghi rispetto alle prime nomine del suo governo merita di essere messo sotto una lente di ingrandimento non solo per il modo in cui le decisioni sono maturate ma anche per un filo conduttore interessante che si coglie osservando con attenzione un dettaglio che accomuna i profili scelti dal presidente del Consiglio per provare a rendere più efficiente la macchina dello stato.

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Il decisionismo mostrato da Mario Draghi rispetto alle prime nomine del suo governo merita di essere messo sotto una lente di ingrandimento non solo per il modo in cui le decisioni sono maturate ma anche per un filo conduttore interessante che si coglie osservando con attenzione un dettaglio che accomuna i profili scelti dal presidente del Consiglio per provare a rendere più efficiente la macchina dello stato.

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Il dettaglio in questione ha a che fare con un elemento non  casuale presente nelle carte di identità dei nomi scelti da Draghi per andare a rafforzare il deep state italiano. E se si mettono in fila alcuni semplici tasselli si capirà che il Recovery a cui sta lavorando Draghi (Next Generation Eu) non è legato solo alle riforme necessarie da mettere in campo per utilizzare bene i miliardi che arriveranno dall’Europa. Ma è legato anche al tentativo molto ambizioso di mettere in campo una sorta di D-Generation (Next Generation Draghi) composta da una serie di soggetti a cui il capo del governo ha scelto di affidare un compito da far tremare le gambe: rinnovare dall’interno le istituzioni italiane.

 

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Succede così che, sfogliando i petali della rosa di Draghi, quella di oggi e quella di domani, si scopre che il braccio destro del presidente del Consiglio, Roberto Garofoli, pezzo da novanta del Consiglio di stato, è nato nel 1966. Lo stesso anno in cui è nato Fabrizio Curcio, nuovo capo della Protezione civile. Lo stesso anno in cui è nato Bernardo Mattarella, nipote del capo dello stato, candidato numero uno alla successione di Domenico Arcuri a Invitalia. Più o meno lo stesso anno in cui è nato il candidato numero uno alla successione di Fabrizio Palermo in Cdp, Dario Scannapieco, classe 1967. E più o meno lo stesso anno in cui è nato il direttore generale del Tesoro, Alessandro Rivera, classe 1970, storico Draghi boy, e il capo dell’Agenzia delle entrate, Ernesto Ruffini, classe 1969, che Draghi si è trovato lì e che avrà un ruolo importante nella fase in cui il governo dovrà riformare il fisco.

 

Sempre negli anni Sessanta sono nati il nuovo commissario all’emergenza Covid, il generale Francesco Paolo Figliuolo, classe 1961; il sottosegretario con delega ai servizi segreti, Franco Gabrielli, classe 1960; l’uomo scelto per guidare l’unità di missione al Mef per coordinare il Recovery plan, Carmine Di Nuzzo, classe 1961, proveniente dalla Ragioneria dello stato; la donna individuata per andare a guidare il demanio, ovvero Alessandra Dal Verme, classe 1961, attuale pezzo da novanta della Ragioneria di stato. Mentre qualche anno prima, ma siamo sempre lì, è nato un altro predestinato come Fabio Panetta, classe 1959, diventato il candidato numero uno alla successione di Ignazio Visco alla guida di Bankitalia (2024). Sono nomi che forse diranno poco ai più.

 

Ma sono nomi cruciali da appuntarsi per mettere a fuoco un processo di rinnovamento che Draghi sta cercando di promuovere all’interno delle istituzioni provando a fare il contrario di ciò che tentarono di fare diversi suoi predecessori: trasformare il deep state non in un nemico da abbattere a tutti i costi ma in un alleato da utilizzare per provare a trasformare l’Italia.

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Il rinnovamento possibile, non la rottamazione ideale. Che avviene non sulla base di un principio di casualità ma sulla base di una scelta precisa. Si premia una nuova generazione che viene dal Consiglio di stato, dalla Banca d’Italia, dall’Esercito, dalle forze dell’ordine, dalla Ragioneria, dal mondo degli avvocati. Si sceglie di scommettere su una generazione diversa da quelle rappresentate da un ex prefetto come Gianni De Gennaro (classe 1948) o da un c onsigliere di stato come Filippo Patroni Griffi (classe 1955).

   

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I governi possono cambiare, i politici possono cambiare, le maggioranze possono cambiare, i premier possono cambiare, ma se l’Italia riuscirà a coltivare una D-Generation capace di diventare all’interno delle istituzioni una sorta di Google translate dell’agenda Draghi nei prossimi anni il nostro paese avrà qualche ragione in più per osservare il futuro con  meno pessimismo e un po’ più di fiducia.

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