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L'intervento

Al Pd serve un congresso

Goffredo Bettini

Il fronte politico guidato da Renzi vuole scardinare un’alleanza che ha permesso al centrosinistra di tornare competitivo. Ma in nome di cosa? Intergruppo e leadership. Perché al Pd serve scoprire le carte

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Presentando il programma del suo governo, Draghi ha svolto un discorso di grande livello. Concreto, persino dettagliato e allo stesso tempo di ispirazione strategica e riformatrice. C’è stata un’acclamazione da parte di tutti. In parte sincera. In parte più tattica, manovriera e comunque segnata da quella “leggerezza” della politica di oggi che tende sempre a farsi trascinare dal vento del momento. Niente di male. Anche perché, come abbiamo più volte ripetuto, l’Italia con Draghi è in buone mani.

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Presentando il programma del suo governo, Draghi ha svolto un discorso di grande livello. Concreto, persino dettagliato e allo stesso tempo di ispirazione strategica e riformatrice. C’è stata un’acclamazione da parte di tutti. In parte sincera. In parte più tattica, manovriera e comunque segnata da quella “leggerezza” della politica di oggi che tende sempre a farsi trascinare dal vento del momento. Niente di male. Anche perché, come abbiamo più volte ripetuto, l’Italia con Draghi è in buone mani.

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Naturalmente le “spine” si avvertiranno nel momento in cui verranno in Parlamento le scelte e i provvedimenti concreti. Il Pd deve esercitare la sua autonomia, consapevole, tuttavia, che l’impianto di Draghi corrisponde molto ai nuclei fondamentali della sua visione dell’Italia e dell’Europa. Europeismo, valorizzazione del capitale umano, scuola e ricerca, lotta alla povertà, crescita attraverso la transizione ecologica e digitale, risposte in forme nuove di protezione sociale alla disoccupazione che potrà dilagare, riforma della Pa. Si apre, dunque, nel paese e nel Parlamento una lotta serena di egemonia. Ognuno vorrà tirare la coperta dalla sua parte, senza comprendere che il nuovo presidente del Consiglio andrà dritto sulla sua strada, aprendosi al confronto in Parlamento, come ha voluto sottolineare nelle sue prime comunicazioni.

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In queste ore positive e di speranza, alcuni, anche tra quelli che hanno partecipato per un anno e mezzo alla precedente esperienza di governo, gettano fango su di essa. Una caterva di giudizi liquidatori e sprezzanti. Renzi, il “più volte sconfitto”, ha affermato che Conte è il passato. E’ vecchio. Non più utilizzabile nel dibattito pubblico. Sorprendente. Perché Conte (“il mai sconfitto”) ha guidato un processo politico di fondamentale importanza ed è uscito da Palazzo Chigi con notevole dignità, pur avendo in tasca la fiducia dei due rami del Parlamento. E’ uscito perché riteneva non sufficiente la sua base di consenso parlamentare per svolgere il lavoro immenso di ricostruzione dell’Italia dopo la pandemia e la conseguente crisi economica.

  

Dal momento in cui il suo governo è nato (anche su intuizione di Renzi), tante cose sono cambiate in meglio. La marea populista che aveva circondato, dopo le elezioni del 2018, la solitaria isola del Pd è stata spezzata. L’evoluzione del Movimento 5 stelle, saldato precedentemente con la destra sovranista, ha permesso di ricollocare l’Italia pienamente in Europa e di ottenere (contro la destra) risorse grandi che ora Salvini vuole gestire. Ha permesso di gestire la pandemia (contro la destra) con la scienza e non con il pregiudizio; prendendola sul serio e non negandola. Con le scelte del ministro Gualtieri, ha evitato (con quelli che la destra chiama “provvedimenti a pioggia”) che si aprissero ferite drammatiche e conflitti rabbiosi, grazie a un sostegno alle fasce più deboli della popolazione; ha avviato un processo di ripresa della crescita.

  

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Quel tentativo è stato affossato per vari motivi, sui quali tornerò. Ma principalmente da una repentina manovra politica.

  

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La crisi al buio che si è successivamente aperta è stata risolta dal presidente Mattarella nel modo migliore. Mettendo a disposizione la figura di più grande prestigio nazionale e internazionale di cui l’Italia è dotata: Mario Draghi. E sottolineo che la crisi era al buio, tant’è che non si è potuta risolvere con la formazione di un nuovo governo politico, con un’alternativa politica, con una diversa coalizione di partiti. No.

  

Si è potuta risolvere con un uomo d’eccezione e decretando di fatto una fase anch’essa di eccezione. Nella quale, transitoriamente e necessariamente, i partiti (alcuni assai claudicanti) hanno dovuto concedere una parte non marginale della loro sovranità. Dico necessariamente: perché ad un certo punto la contesa politica irrisolta poteva intaccare la sostanza dell’impalcatura democratica e portare ad avventure pericolose.

  

Draghi si è riferito ai momenti drammatici del Dopoguerra, quando nel mondo diviso in due, tra comunismo e capitalismo, le forze democratiche si unirono senza esitare. Si può capire, proprio a partire da quel riferimento, quanto esso sia nelle corde del Pd. Un partito nel quale, bene o male, sono confluite le tradizioni migliori del socialismo e dell’impegno politico cattolico e democristiano, del pensiero laico azionista e delle correnti più stimolanti del pensiero liberale. Taluni scambiano per una presenza anonima (quante critiche alla saggia conduzione di Zingaretti!) la naturale predisposizione del Pd a far coincidere la sua funzione con quella della difesa e del rinnovamento delle istituzioni e della stabilizzazione del sistema politico e costituzionale.

  

E quanta strumentale incomprensione, in riferimento a questo, si è dovuta sopportare circa il nostro rapporto con i Cinque stelle. Infatti, al di là della pura convenienza politica (Renzi disse che si poteva baciare il “rospo” per impedire l’aumento dell’Iva) quel rapporto è stato la scommessa di includere forze ingenti dell’antipolitica in un processo razionale e graduale, in grado di riassorbire una parte di quegli elettori che si erano allontanati anche dalla sinistra democratica, per i nostri errori e i nostri silenzi.

 

  

C’è stato un dibattito vivace circa la costituzione di un intergruppo al Senato tra Pd-Cinque stelle e Leu. L’iniziativa del senatore Marcucci mi è sembrata, in verità, improvvisata; dettata da esigenze contingenti e riferibili a logiche strettamente d’Aula. Niente di grave. Perché, a mio avviso, l’impostazione di fondo che ha sorretto nei mesi passati l’alleanza del governo Conte II non muore affatto nelle sue ragioni e nelle sue potenzialità politiche. Anche perché definisce il solo campo esistente competitivo a quello della destra. L’avvenire ci dirà in che forme questo patrimonio potrà essere speso: come allargarlo, come declinarlo nei nuovi scenari, come dotarlo di una classe dirigente robusta, credibile e capace.

  

Dico questo perché lo stato d’emergenza, per il suo stesso nome, è destinato a chiudersi nel momento in cui ha esaurito il suo compito. Draghi lo ha specificato bene. A lui non spetta solo affrontare il caos dell’oggi. Ma realizzare, simultaneamente, le riforme che occorrono per rendere efficaci i provvedimenti immediati. Dunque: emergenza e riforme. Un’ambizione alta, che non può essere limitata in un tempo prestabilito e tiranno, già nel suo avvio. La Lega renderà instabile l’andamento dell’azione del nuovo esecutivo. Lega e Fratelli d’Italia vorranno a un certo punto concludere tutto, per andare al voto. Non è questa la linea del Pd. Per quanto ci riguarda, è tutto molto più lineare: agiremo sull’emergenza con forza e lealtà e contribuiremo alle riforme che Draghi riterrà indispensabili. Sapendo, ripeto, che questa fase nuova di un governo del presidente avrà il tempo che ci vuole per l’esaurimento completo del suo programma. Poi tornerà la politica.

  

Allora la questione che si pone oggi è: la politica, che nei prossimi mesi continuerà a far valere le sue ragioni in Parlamento ma che oggettivamente dovrà tener conto di un’aumentata sovranità della figura del presidente del Consiglio, vivrà tale periodo in modo passivo o attivo? Soffrirà la situazione aspettando che il prima possibile si torni a fare come prima o rifletterà su se stessa, preparando un terreno più avanzato, stabile e sicuro, per agire nel futuro?

  

 

Non ho dubbi. Non serve lo “sciopero” della politica. Piuttosto utilizzare il tempo che ci è dato per irrobustire il sistema politico italiano, per definire meglio il profilo del Pd, per consolidare un’alleanza futura, per tornare dopo questa fase a alternative nette tra la sinistra, il campo democratico e la destra sovranista, sperando almeno in parte convertita a principi e finalità più accettabili in Europa. Ecco perché sarebbe utile già da subito aprire un confronto in Parlamento di carattere “costituente”. Verificare la possibilità di riformare il sistema politico-elettorale, per renderlo maggiormente rappresentativo e stabile. E poi occorre scegliere con nettezza qual è il destino del Pd. Qual è la sua funzione.

  

Credo che uno dei motivi che hanno portato alla crisi del precedente governo risieda nel tentativo di destrutturare il sistema politico italiano. La coalizione che ha subito un colpo non era priva di difetti. A volte ha commesso errori e accumulato ritardi. Ma non è caduta per questo. Al di là dei numeri che improvvisamente sono mancati, quel progetto non era affidabile per diversi soggetti in campo. Per il “salotto buono” della borghesia italiana, che si è comprata giornali e ha preso d’assalto Confindustria. Per chi è sempre stato diffidente rispetto ad un’Europa autonoma, forte, centro di un dialogo mondiale tra Est e Ovest. Per chi vuole un’Europa che, prima di essere Europa, deve essere atlantica. Per diffusi interessi del tessuto industriale del Nord, che provano insofferenza verso il Mezzogiorno; non tanto per i suoi aspetti arretrati o per le sue zone di parassitismo e di rendita, ma per le sue possibilità di valorizzare i propri talenti e le proprie risorse, in un rapporto privilegiato con il Mediterraneo.

  

Siamo alle solite. Si accampano parole confuse e ormai gergali (innovazione, riformismo, modernizzazione) per abbellire il ventre molle di una parte d’Italia che non intende cambiare. Se mi si chiedesse qual è in questo quadro il ruolo del Pd (che per svolgerlo bene deve migliorare), direi: riformare il capitalismo con la buona politica. C’è una forza immensa del mercato e del turbocapitalismo che si è messa in moto con la globalizzazione. Il problema non è astrattamente fuoriuscirne o tantomeno abbatterla. Il problema è come renderla più umana, più giusta, finalizzata anche a interessi generali e alla valorizzazione di una diffusa cittadinanza democratica. Questo lo può fare solo la politica. Una politica riformatrice e ispirata da una visione del futuro in grado di assicurare ai cittadini alcuni beni comuni e imprescindibili: il lavoro, la scuola, la sanità, un ambiente pulito, la cultura e lo svago, la libertà di vivere le proprie potenzialità e di realizzare la propria creatività. O si considerano questi obiettivi in fondo una chiacchiera o una aggiunta posticcia e caritatevole al modello produttivo e sociale che ha vinto e che è ritenuto immutabile, oppure si sceglie un’altra strada. La più realistica. Quel modello, infatti, non regge più. Ha in sé una prevalenza vegetativa, di mancata autocoscienza, di coatta ripetizione di sé, di incapacità di calcolo che lo destina, per sua intima natura, al disastro di sé medesimo e dell’intera società.

 

Ecco la riforma che serve: una riforma sostanziale. Considerare certe finalità non un dopo malamente riparatore rispetto alle conseguenze di un modello squilibrato, ma vincoli interni del processo produttivo.

 

  

Se si riflette bene, non è questo il vero tentativo, visionario ma assolutamente indispensabile per la sopravvivenza del pianeta, che solo l’Europa può mettere in campo? L’Europa, culla della politica: vale a dire della fiducia che il soggetto umano possa perseguire un suo obiettivo e determinare la propria vita. L’Europa, con la sua cultura e il suo avanzato modello sociale. Ecco, tutto questo è la funzione sostanziale che dà identità al Pd.

 

La destrutturazione del sistema politico, al contrario, potrà essere solo utile a quella pigrizia di certe classi dirigenti italiane che sono state mere spettatrici di ogni salto in avanti del nostro paese. Il Risorgimento. La Liberazione dal nazifascismo. La fondazione della Repubblica. Assenti, perché prive, al contrario della Francia, dell’Inghilterra e della Germania, di una propria storia combattuta e vinta sul campo. Ho visto che queste scelte del Pd stanno facendo gioire Renzi. Dice che si apre per lui una prateria al centro. Sono contento dell’assunzione di questa missione da parte sua. E’ da mesi che indico come una necessità democratica unire l’elettorato diviso tra +Europa, Italia Viva, Azione, una parte o tutta Forza Italia. Ho detto che si sarebbe potuta costituire per questa via una “gamba” decisiva del campo democratico contro il sovranismo. A me non preoccupa affatto la giusta ambizione di unificare e semplificare la rappresentanza di un pezzo del moderatismo e liberalismo italiano. Anche in una collocazione del tutto autonoma. Ciò che mi preoccupa è se essa diventa l’addensamento di un corpaccione centrista senza anima, senza ideali, di puro potere, subalterno all’Italia di sempre e al suo comando. Altro che rottamazione!

 
E questo non c’entrerebbe nulla con Macron, che dice: “Siamo in un momento di frattura del sistema capitalistico, che deve pensare allo stesso tempo alle disuguaglianze e al cambiamento climatico. Non credo ci sia stato un periodo della storia che abbia concentrato così tanti elementi di frattura. Il cambiamento di amministrazione americana è una opportunità per continuare in modo totalmente pacifico e sereno a continuare a costruire la nostra autonomia per noi stessi, come gli Stati Uniti fanno per loro e come la Cina fa per sé”. Potrei continuare. Queste parole parlano a noi. Ad un pensiero moderno ma critico. Alla sinistra democratica. Parlano alla preoccupazione della Chiesa verso gli ultimi. All’opinione pubblica più avvertita circa la conservazione e la valorizzazione dell’ambiente. All’imprenditoria diffusa, che produce ricchezza e la investe nei territori, svolgendo una funzione di coesione sociale. A chi lavora e non accumula rendite. Parla alle eccellenze del Mezzogiorno e al talento non valorizzato delle donne e degli uomini che fuggono all’estero.

 

Nei giorni passati ho promosso la nascita di un’area di dibattito culturale e politico che sta lavorando con passione. Tra qualche giorno verrà reso pubblica una piattaforma più completa e coerente rispetto alle note che ho presentato oggi. Essa, tuttavia, già nelle sue denominazioni chiarisce dove si vuole arrivare: “Le Agorà”, come la necessità di una riforma della rappresentanza anche interna al partito, che privilegi l’esercizio di una sovranità degli iscritti e dei cittadini. Oltre le correnti, per un dibattito aperto, arricchente, che promuova i migliori. Socialismo: come forma politica che esprime quel sentimento ineliminabile degli esseri umani all’uguaglianza e alla speranza di riscatto. Infine, cristianesimo: quello di san Paolo, che interviene nel tempo che gli è dato. E che non solo predica, ma combatte e mina la tirannia dell’Impero romano. Un cristianesimo “politico” che aiuta a superare l’errore grande della sinistra del Novecento: sacrificare le singole persone sull’altare di modelli astratti, ideologici e sociali. Quella difesa radicale della vita, unica, irripetibile, che si può concepire solo in relazione alla vita dell’altro.

 

Ecco il Pd. Almeno come lo penso io. Ben venga un congresso per confrontare diverse scelte, opzioni o letture del mondo che ci circonda.

 

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