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Il nuovo what ever it takes

La formidabile lezione del professor Draghi

Più opportunità, meno status quo. La forza del testo di Draghi è in due parole: giovani e futuro

Claudio Cerasa

Ma alla luce del discorso di ieri non è un errore dire che la vera trasversalità di Draghi va ricercata in un elemento cruciale: non nella sua capacità di mediare tra i partiti ma nella sua capacità di diventare il miglior alleato di una generazione che alla politica chiede più che sussidi per galleggiare opportunità per tornare a sperare

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La formidabile lezione di realismo politico tenuta ieri mattina al Senato dal professor Mario Draghi offre agli osservatori diverse chiavi di lettura utili a inquadrare la traiettoria molto ambiziosa che a partire da oggi imboccherà l’esecutivo guidato dall’ex presidente della Bce, che con la fiducia ricevuta ieri a Palazzo Madama diventa a tutti gli effetti il presidente del Consiglio sostenuto da una delle più ampie maggioranze mai registrate in Italia dal Dopoguerra a oggi.

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La formidabile lezione di realismo politico tenuta ieri mattina al Senato dal professor Mario Draghi offre agli osservatori diverse chiavi di lettura utili a inquadrare la traiettoria molto ambiziosa che a partire da oggi imboccherà l’esecutivo guidato dall’ex presidente della Bce, che con la fiducia ricevuta ieri a Palazzo Madama diventa a tutti gli effetti il presidente del Consiglio sostenuto da una delle più ampie maggioranze mai registrate in Italia dal Dopoguerra a oggi.

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Il discorso di Mario Draghi – che è il discorso di un premier che ragiona su un orizzonte più di legislatura che di breve termine – colpisce per le sue parole nette su temi potenzialmente divisivi come il futuro dell’euro (“irreversibile”), come il destino del sovranismo (“non c’è sovranità nella solitudine”), come la difesa della concorrenza (le cui restrizioni “limitano gli investimenti, sia italiani che esteri”), come la tutela dell’ambiente (la cui protezione va conciliata “con il progresso e il benessere sociale”), come il giusto spazio da concedere allo stato in economia (“il ruolo dello stato e il perimetro dei suoi interventi dovranno essere valutati con attenzione”), come la doverosa svolta sulla pubblica amministrazione (“occorrerà selezionare nelle assunzioni le migliori competenze e attitudini in modo rapido, efficiente e sicuro”) e come la ridefinizione del collocamento atlantista del nostro paese (un po’ più vicino a Israele, un po’ più costruttivo con la Turchia, un po’ più lontano dalla Cina, molto distante dalla Russia). Ma il primo discorso da presidente del Consiglio di Mario Draghi – che prima delle 35 mila battute consegnate ieri al Senato aveva parlato pubblicamente dopo l’incarico ricevuto dal capo dello stato la bellezza di 380 secondi – passerà alla storia più per quello che non ha detto che per quello che ha detto. E in particolare per una rara combinazione tra lo spazio concesso a una parola (pensioni) e lo spazio concesso a un’altra parola (giovani). Draghi non solo non cita una sola volta il tema delle pensioni (zeru tituli) ma sceglie di dedicare un terzo del suo discorso di insediamento a un tema non scontato che riguarda più che la parola giovani (citata nove volte) la parola futuro (citata cinque volte). Parla di futuro Draghi quando ricorda che la pandemia finora ha colpito soprattutto l’occupazione giovanile. Quando ricorda che la non continuità del servizio scolastico creerà diseguaglianze che andranno a colpire soprattutto la generazione più giovane. Quando ricorda che senza investire nella formazione del personale docente non vi sarà un’offerta educativa all’altezza delle nuove generazioni. Quando ricorda che non c’è strategia di sostegno alle imprese che abbia senso se non scommette sui più giovani. Quando ricorda che l’obiettivo di questo governo è costruire un percorso che dovrà puntare a disegnare l’Italia dei prossimi trent’anni. 


Quando dice che la missione di chi fa politica è consegnare un paese migliore e più giusto ai figli e ai nipoti. Quando ricorda che la breve durata dei governi non può impedire di compiere scelte decisive per il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti. E quando infine si chiede se la generazione di Draghi  ha fatto per i nostri figli  tutti i sacrifici che i nostri nonni e i nostri padri hanno fatto per noi. La particolarità del discorso di Draghi è che non è solo ispirato da una buona retorica ma è ispirato da una serie di idee non incompatibili con la premessa iniziale. Per difendere davvero il futuro dei giovani, sembra essere il ragionamento del premier, occorre non solo usare le frasi a effetto ma occorre assicurarsi che il proprio paese faccia tutto quello che deve fare (whatever it takes) per spendere bene i propri soldi (meno quota 100), per rendere più efficiente lo stato (occhio al perimetro), per rendere più competitivo il mercato (occhio alla concorrenza), per rendere più attrattivo il paese (occhio alla fiducia) e in definitiva per sostituire la difesa dello status quo (“sarebbe un errore proteggere indifferentemente tutte le attività economiche: alcune dovranno cambiare, anche radicalmente”) con la ricerca di nuove opportunità (viva la globalizzazione). Fare di Draghi un messia venuto a salvare l’Italia sarebbe un errore che creerebbe aspettative eccessive. Ma alla luce del discorso di ieri non è un errore dire che la vera trasversalità di Draghi va ricercata in un elemento cruciale: non nella sua capacità di mediare tra i partiti ma nella sua capacità di diventare il miglior alleato di una generazione che alla politica chiede più che sussidi per galleggiare opportunità per tornare a sperare. L’inizio è buono, incrociamo le dita. 

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