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Effetto Draghi

Il nuovo governo costringe il Pd a una svolta per rilanciare la vocazione maggioritaria

Andrea Romano*

I profondi cambiamenti nel panorama politico e l'occasione per i dem di riappropriarsi di quel patrimonio trasversale di valori, incentrato su crescita economica e incrocio tra coesione e innovazione. Prima che siano altri a occupare quello spazio

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Se ancor prima di nascere il governo Draghi ha già terremotato il perimetro di gara della politica italiana, è inevitabile che i prossimi mesi vedranno profondi cambiamenti nelle squadre in campo e negli schemi di gioco. E immaginare di arrivare al prossimo voto politico con la stessa fisionomia di identità e alleanze che davamo per immutabile qualche settimana fa, rischia di essere un esercizio inutile e velleitario per qualunque partito. Non solo perché non conosciamo neanche la cornice della prossima legge elettorale (è ancora realistico immaginare un proporzionale con sbarramento, ora che la Lega è nella maggioranza di governo con la sua ostinazione anti-proporzionale?), ma soprattutto perché è già in atto una scomposizione di Destra e Cinque stelle.

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Se ancor prima di nascere il governo Draghi ha già terremotato il perimetro di gara della politica italiana, è inevitabile che i prossimi mesi vedranno profondi cambiamenti nelle squadre in campo e negli schemi di gioco. E immaginare di arrivare al prossimo voto politico con la stessa fisionomia di identità e alleanze che davamo per immutabile qualche settimana fa, rischia di essere un esercizio inutile e velleitario per qualunque partito. Non solo perché non conosciamo neanche la cornice della prossima legge elettorale (è ancora realistico immaginare un proporzionale con sbarramento, ora che la Lega è nella maggioranza di governo con la sua ostinazione anti-proporzionale?), ma soprattutto perché è già in atto una scomposizione di Destra e Cinque stelle.

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Detto e ribadito che “la svolta” di Salvini dovrà essere verificata alla prova dei fatti, il principale impatto del governo Draghi sul campo della politica italiana potrà essere nel suo svolgere una funzione di transizione da un’Italia divisa tra sovranisti ed europeisti ad un’Italia capace di tornare al più tradizionale conflitto tra centrodestra e centrosinistra. Una transizione che potrebbe europeizzare – e forse civilizzare – la politica italiana, anche per effetto della sconfitta di Trump e dunque della scomparsa del principale riferimento strategico sovranazionale del sovranismo. Vedremo se e come questa transizione si concretizzerà. Ma certo è che già ora il cambiamento nel campo da gioco chiama in causa principalmente il Partito democratico, che se con il Conte Bis era riuscito a spostare l’asse di governo dall’antieuropeismo all’europeismo da oggi potrà (e dovrà) essere il baricentro di ogni alleanza di centrosinistra che si costruirà con i materiali politici trasformati dalla stagione del governo Draghi. Ma potrà esserlo solo se nel nuovo campo che va costruendosi – e di cui ancora ignoriamo i contorni precisi – partirà da se stesso piuttosto che dagli alleati; solo se saprà dare all’Italia un racconto di sé che non sia solo quello (sacrosanto!) del suo essere stato diga contro una marea sovranista che da domani sarà quanto meno ridimensionata; solo se accanto al valore fondamentale della responsabilità e della protezione dell’Italia dagli avventurismi, che abbiamo saputo declinare nel solco delle migliori tradizioni politiche repubblicane, sapremo porre il valore della progettualità e delle riforme necessarie.

 

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È ovvio e scontato che non si debba (né si possa) tornare alla stagione dell’isolamento del Pd, che abbiamo pagato duramente e che abbiamo superato tutti insieme. Ma pare altrettanto ovvio che il probabile impatto del governo Draghi sui confini interni della politica italiana ci debba spingere a riflettere sul rilancio della centralità del Pd anche oltre i confini dell’alleanza con il Movimento Cinque Stelle. Un’alleanza, questa, che è stata ormai assorbita nei fatti della politica e nelle convinzioni della comunità dem, senza bisogno di ritualità ideologiche ma essenzialmente attraverso la capacità del Pd di spingere concretamente i Cinque Stelle ad un ribaltamento quasi integrale delle proprie posizioni (in sintesi: 100% egemonia, zero subalternità; e l’uscita di Di Battista e di altri dal Movimento ne è suggello). Ma al contempo un’alleanza che non può diventare il paradossale e invalicabile confine per un’ulteriore capacità egemonica che il Pd potrebbe dimostrare nei prossimi mesi, se sarà in grado di cogliere le opportunità politiche e progettuali della nuova stagione. E qui il punto cade sul cosiddetto “centro”.

 

Non tanto nella sua consistenza partitica – che è ormai quella di un accampamento popolato da piccoli e litigiosi velleitarismi personali, ancor più ridimensionati dall’ampiezza della maggioranza che sostiene il governo Draghi – quanto nei valori e nei temi che si associano a quello spazio progettuale ed elettorale. Un patrimonio di idee e suggestioni che il Pd sbaglierebbe a regalare ad una destra sempre più mobile e sempre più avida di contenuti in grado di sostituire i più classici temi sovranisti. Anche perché quel patrimonio, largamente incentrato sui temi della crescita economica e dell’incrocio tra coesione e innovazione, appartiene già al Pd e alle radici della sua vocazione maggioritaria. Si tratta dunque di non perderla né di cederla ad altri, ma semmai di riappropriarsene appieno: sfruttando l’occasione del “Grande Rivolgimento” a cui il governo Draghi costringerà tutta la politica italiana, declinandola in chiave di contenuti e non di semplici alchimie elettorali destinate a sfasciarsi un giorno dopo il voto, non rassegnandosi a chiudere il Pd e le sue ambizioni dentro un recinto troppo angusto.

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Andrea Romano, deputato del Partito Democratico

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