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Fiducia e capitale umano: le parole da cui dipende il successo del governo

Claudio Cerasa

Investire sul futuro dei giovani, non sui propri follower. Perché il miglior alleato di Draghi sarà la generazione che chiede alla politica non sussidi per non lavorare ma opportunità per tornare a sognare

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La stagione potenzialmente entusiasmante (speriamo) che si apre con la nascita del governo Draghi sarà guidata da un motore speciale formato da alcune parole importanti. Una parola chiave sarà certamente “populismo”, che insieme ad altre parole altrettanto cruciali, come “nazionalismo”, “sovranismo”, “protezionismo”, “antieuropeismo”, sparirà almeno per un po’ dallo spazio del dibattito pubblico, lasciando il posto a parole probabilmente più attuali come “crescita”, “competenza”, “ripartenza”, “resilienza”, “realismo”, “riformismo”. Ma se a bocce forme dovessimo scommettere sulle due espressioni che costituiranno la spina dorsale del discorso che Mario Draghi pronuncerà alle Camere questa settimana – e che con buona probabilità andranno a costituire l’anima della sua esperienza di governo – la nostra scommessa ricadrebbe principalmente su tre parole: fiducia e capitale umano. Per Draghi, la parola “fiducia” ha una sua centralità in tre ambiti molto diversi l’uno dall’altro. E’ centrale nell’accezione della fiducia da ridare agli italiani – nei mesi della pandemia gli italiani hanno messo da parte, nei propri depositi di conto corrente, qualcosa come 160 miliardi di euro, e compito di Draghi sarà quello di mobilitare questi risparmi in consumi e investimenti. 

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La stagione potenzialmente entusiasmante (speriamo) che si apre con la nascita del governo Draghi sarà guidata da un motore speciale formato da alcune parole importanti. Una parola chiave sarà certamente “populismo”, che insieme ad altre parole altrettanto cruciali, come “nazionalismo”, “sovranismo”, “protezionismo”, “antieuropeismo”, sparirà almeno per un po’ dallo spazio del dibattito pubblico, lasciando il posto a parole probabilmente più attuali come “crescita”, “competenza”, “ripartenza”, “resilienza”, “realismo”, “riformismo”. Ma se a bocce forme dovessimo scommettere sulle due espressioni che costituiranno la spina dorsale del discorso che Mario Draghi pronuncerà alle Camere questa settimana – e che con buona probabilità andranno a costituire l’anima della sua esperienza di governo – la nostra scommessa ricadrebbe principalmente su tre parole: fiducia e capitale umano. Per Draghi, la parola “fiducia” ha una sua centralità in tre ambiti molto diversi l’uno dall’altro. E’ centrale nell’accezione della fiducia da ridare agli italiani – nei mesi della pandemia gli italiani hanno messo da parte, nei propri depositi di conto corrente, qualcosa come 160 miliardi di euro, e compito di Draghi sarà quello di mobilitare questi risparmi in consumi e investimenti. 

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E’ centrale nell’accezione della fiducia da ridare a chi vuole tornare a investire in Italia – dalla chiusura dei mercati del 2 febbraio, vigilia dell’incarico all’ex presidente della Bce, a venerdì scorso il differenziale di rendimento fra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi si è ridotto di 25 punti, per un risparmio spalmato sull’anno di circa 1,5 miliardi di euro di spesa in meno sugli interessi dei titoli di stato. Ed è centrale anche nell’accezione della fiducia da creare nel rapporto tra i cittadini e le istituzioni, e da tempo Draghi nei suoi discorsi insiste su quanto sia importante per l’Italia creare un sistema di regole tale da non far sentire i cittadini italiani furfanti fino a prova contraria – portare gli italiani a cambiare il proprio rapporto di fiducia con la pubblica amministrazione, la giustizia e il fisco potrebbe essere per Draghi un’operazione persino più complicata di quella portata avanti nel 2012 per rinnovare la fiducia nell’euro.

 

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Parlare di fiducia significa parlare di futuro ma per provare a capire cosa significa per Draghi ragionare sul futuro occorre mettere al centro dell’attenzione, come hanno già fatto nei giorni scorsi Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera e Alberto Orioli sul Sole 24 Ore, un’espressione solo apparentemente retorica che coincide con il “capitale umano”. Nella grammatica di Draghi, parlare di capitale umano è qualcosa di più dell’evocare un’espressione apparentemente vuota: è qualcosa che si intreccia in modo cruciale con un tema che riguarda il futuro e che riguarda in particolare le generazioni che il futuro lo guideranno. E prestare attenzione al capitale umano non significa solo “concentrare i nostri sforzi sulla conoscenza”. Ma significa “favorire la crescita dimensionale delle imprese” e significa fare di tutto, whatever it takes, per mettere le imprese nelle condizioni di avere lavoratori sempre più qualificati (“tanto è maggiore il capitale umano tanto sarà maggiore la capacità di assorbire nuove tecnologie”) considerando che l’Italia fra i 36 paesi più avanzati del mondo (quelli appartenenti all’Ocse) ha la percentuale di laureati più bassa in assoluto e considerando che i dati Eurostat da anni segnalano che  il 37 per cento degli occupati italiani classificati come manager aveva completato solo la scuola dell’obbligo contro il 19 per cento della media europea a 15 e il 7 per cento di paesi come la Germania.

 

Significa questo, ovviamente, ma significa anche capire che per provare a fare in Italia quello che in questi mesi ha provato a fare in Francia Emmanuel Macron e per provare cioè a costruire un piano di rilancio del paese ideato non per tutelare lo status quo, versando cioè miliardi di sovvenzioni, anche nei settori che sappiamo che non potranno operare come prima, ma investendo prioritariamente nei settori più trainanti che guideranno l’economia e creeranno i lavori di domani, per trasformare il rischio in chance, la crisi in opportunità, occorre rendersi conto che non esiste transizione che non passi dalla presa d’atto di un problema troppo spesso ignorato dalla classe politica del nostro paese: la mancanza non solo del lavoro ma prima di tutto di lavoratori qualificati che abbiano le giuste competenze per affrontare il futuro.

 

“Per anni – ha detto la scorsa estate Mario Draghi in un bel discorso offerto alla platea del Meeting di Rimini – una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico: ciò non è più accettabile oggi. Privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza. I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire, ma ai giovani bisogna dare di più. Perché i sussidi finiranno e quando questo succederà resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuro”. La differenza tra debito buono e debito cattivo in fondo è tutta qui: il debito buono è quello che una volta speso permette a un paese di investire sul futuro dei giovani, il debito cattivo è quello che una volta speso permette di investire sul futuro dei propri follower. Fiducia e capitale umano: e se il miglior alleato di Draghi fosse, ancor più della coalizione che questa settimana voterà la fiducia al suo governo, quella generazione che da anni chiede alla politica non sussidi per non lavorare ma opportunità per tornare a sognare? Il successo del governo, se ci sarà, si misurerà anche partendo da qui.

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