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nuovi scenari

Così Draghi, "la livella", costringe Lega e Pd a cambiare le loro strategie

Il vertice tra Pd, M5s e Leu per andare compatti alle consultazioni. Poi Rousseau fa saltare tutto. I forzisti moderati mugugnano: "Speriamo che i dem non si appiattiscano sui grillini". E nel Carroccio si guarda già al 2023: "Dobbiamo diventare noi la nuova Forza Italia"

Valerio Valentini

Zingaretti tra il Cav. e Rousseau: "Ma se rinforziamo l'alleanza giallorossa, mettiamo FI nelle mani di Salvini", dicono nel Pd. Giorgetti corteggia Tajani: l'obiettivo è il Ppe a gennaio 2022. L'incognita della legge elettorale, l'inaffidabilità del M5s. Cosa cambia col nuovo governo

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La tentazione sarebbe quella di far prevalere la tattica sulla strategia, privilegiare le necessità più contingenti. E infatti Nicola Zingaretti lo ripete con convinzione, che “fare blocco compatto, con 295 deputati e 133 senatori, è il modo migliore per far valere le ragioni di un’alleanza progressista” nel governo che verrà. E anche per questo, lunedì, aveva dato mandato a Graziano Delrio e Andrea Marcucci di promuovere un vertice tra i capigruppo della vecchia maggioranza, esclusa ovviamente Italia viva. 

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La tentazione sarebbe quella di far prevalere la tattica sulla strategia, privilegiare le necessità più contingenti. E infatti Nicola Zingaretti lo ripete con convinzione, che “fare blocco compatto, con 295 deputati e 133 senatori, è il modo migliore per far valere le ragioni di un’alleanza progressista” nel governo che verrà. E anche per questo, lunedì, aveva dato mandato a Graziano Delrio e Andrea Marcucci di promuovere un vertice tra i capigruppo della vecchia maggioranza, esclusa ovviamente Italia viva. 

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E così si erano ritrovati tutti intorno a un tavolo, i presidenti dei gruppi di Pd, Leu e M5s, e avevano stilato una lista di punti condivisi. D’altronde Stefano Patuanelli, ministro uscente e forse anche rientrante, da giorni si spendeva perché  le delegazioni dei tre partiti si presentassero congiunte da Mario Draghi per il secondo giro di consultazioni. “Il che - spiegava  ai dirigenti dem - servirà anche a mostrare ai più recalcitranti dei nostri che noi nel governo ci entriamo per portare avanti il programma già avviato nel Conte II”. E la riunione non era andata neppure male, se non che, arrivati al dunque, a dichiararsi contrari a diramare un comunicato collettivo, per rendere pubblica la riunione carbonara, sono stati proprio i grillini. L’indizione del voto su Rousseau ci ha impedito di dare il nostro assenso”, è sbottato poi coi colleghi del M5s Riccardo Ricciardi. E così anche Francesco Silvestri, reduce dall’ennesimo vertice col capo politico Vito Crimi allarga le braccia: “Per ora non possiamo muoverci a causa di Rousseau. Ma è chiaro che entrare al governo come coalizione ci darebbe una grande forza negoziale”.

 

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Eccola, dunque, la convenienza del momento. Solo che poi c’è anche la strategia. “Il governo Draghi sarà una livella che costringerà tutti i partiti a ripensarsi, e il Pd non potrà continuare a suonare sempre lo stesso spartito di prima”, osserva Enrico Borghi, deputato dem di rito gueriniano, mentre fuma il sigaro nel cortile di Montecitorio. E lo dice non solo pensando all’inaffidabilità degli alleati di governo, proprio mentre lì a pochi metri passa Andrea Orlando, che dell’alleanza demogrillina è il principale fautore, e si ritrova placato da Sergio Battelli, deputato M5s tra i più governisti, che gli lancia una battuta che forse non lo è: “Andrea, ci date una mano su Rousseau per far vincere il Sì?”. “Certo, così finiamo col diventare i riformisti del M5s”. Matteo Orfini, poco più in là, scuote il capo: “Se ci schiacciamo sui 5s, rimettiamo Forza Italia nelle braccia della Lega”

 

E non è un caso, infatti, se mercoledì, mentre attendevano che il Cav. terminasse il suo colloquio con Draghi, i più inquieti erano proprio quegli esponenti azzurri che meno  sopportano la subalternità alla Lega. “Io spero che questo governo archivi definitivamente il bipopulismo, col Pd allineato al M5s e l’area moderata succube del sovranismo”, rifletteva Valentino Valentini. Matteo Perego gli andava dietro: “L’asse di questo governo dovrà essere l’intersezione liberale e riformista”. E Alessandro Cattaneo, annuendo, confermava: “Speriamo però che il Pd non vada dietro alle fumisterie di Leu e dei grillini”. E così Marcucci, da dem eretico, catechizza i suoi senatori: “E’ proprio ora che bisogna lavorare perché Ursula diventi realtà”.

 

La prova del fuoco sarà, non a breve, sulla legge elettorale. “Per noi il proporzionale è irricevibile, e ad accettare un pacchetto già definito non ci stiamo”, sentenzia il salviniano Edoardo Rixi. Ma è proprio col proporzionale che nel Pd hanno sempre pensato di agevolare il distacco del Cav. dalla Lega. Costretta pure lei, d’ora in poi, a convergere al centro, in una specie di corsa contro il tempo per accaparrarsi il campo azzurro. La svolta europeista, necessaria per ottenere la benedizione di Draghi e vedersi rimessi i peccati del sovranismo, è riuscita. “Ma la traversata sarà lunga”, come ripete  Giancarlo Giorgetti: il quale sa che diventare il partito di riferimento dei conservatori italiani, sostituire insomma FI, è il compito che spetta alla Lega, per poi diventare l’interlocutore naturale dei centristi. Vaste programme, certo, ma i due anni che mancano al nuovo appuntamento elettorale andranno sfruttati. E infatti il vice di Salvini ha stretto contatti solidi come non mai con Antonio Tajani. Sa che sarà solo grazie al nulla osta di FI se la Lega riuscirà a entrare nel Ppe, che è poi lo scopo vero che giustifica oggi ogni abiura e ogni ipocrisia, pur di entrare nel governo Draghi. I primi contatti coi tedeschi della Cdu non sono stati positivi, finora. Ma Giorgetti  spera nelle convenienze comuni: e a gennaio prossimo, quando col cambio di metà legislatura si ridefiniranno presidenze e incarichi d’ogni tipo al Parlamento europeo, ai Popolari potrà far comodo arruolare i 27 leghisti, per pesare di più nella spartizione dei posti.

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