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Lo show di un reset chiamato Draghi

Claudio Cerasa

Lo gnagnerista collettivo usa Draghi per dimostrare la sconfitta della politica, ma non capisce che il nuovo governo in realtà permetterà al realismo di affermarsi sull’antipolitica. Ragioni per metterci la faccia

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Diciamo la verità: ma che cosa c’è di più politico di un governo Draghi? Se si ha la pazienza di abbassare di qualche decibel il suono prodotto dal rullo di tamburi che da giorni accompagna la marcia di Mario Draghi verso Palazzo Chigi si sentirà con facilità, sullo sfondo del dibattito pubblico, un primo accenno di lamento portato avanti da alcuni osservatori accigliati, specializzati da anni a mettere la cultura della gnagnera al servizio dell’agenda dell’antipolitica. In queste ore, i fautori della cultura della gnagnera sono lì pronti a sostenere, con molta convinzione, una verità simile a quella offerta qualche giorno fa a “Otto e mezzo” dal filosofo Massimo Cacciari, che in un modo come sempre brillante ha anticipato quella che sarà con ogni probabilità la prossima frontiera dei professionisti della politica anti casta. Una frontiera che in modo sbrigativo potremmo riassumere così: la vittoria di Mario Draghi sarà con ogni probabilità una bella vittoria per l’Italia ma sarà certamente una grande sconfitta della politica.

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Diciamo la verità: ma che cosa c’è di più politico di un governo Draghi? Se si ha la pazienza di abbassare di qualche decibel il suono prodotto dal rullo di tamburi che da giorni accompagna la marcia di Mario Draghi verso Palazzo Chigi si sentirà con facilità, sullo sfondo del dibattito pubblico, un primo accenno di lamento portato avanti da alcuni osservatori accigliati, specializzati da anni a mettere la cultura della gnagnera al servizio dell’agenda dell’antipolitica. In queste ore, i fautori della cultura della gnagnera sono lì pronti a sostenere, con molta convinzione, una verità simile a quella offerta qualche giorno fa a “Otto e mezzo” dal filosofo Massimo Cacciari, che in un modo come sempre brillante ha anticipato quella che sarà con ogni probabilità la prossima frontiera dei professionisti della politica anti casta. Una frontiera che in modo sbrigativo potremmo riassumere così: la vittoria di Mario Draghi sarà con ogni probabilità una bella vittoria per l’Italia ma sarà certamente una grande sconfitta della politica.

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La tesi può apparire suggestiva e persino lineare – se arriva un non politico a guidare i politici significa che la politica ha perso – ma se ci si riflette un istante si capirà che la tesi è molto fragile, molto debole, molto contraddittoria, molto superficiale e in definitiva facilmente smontabile. Il governo Draghi non rappresenta il tonfo della politica ma rappresenta al contrario un cristallino trionfo della politica, come capita in ogni occasione in cui il realismo politico si afferma sulla fuffa dell’antipolitica. E a prescindere da quale sarà l’esito del secondo giro di consultazioni (già domani sera il presidente incaricato vorrebbe salire al Quirinale con la lista dei ministri, ma vista la decisione del M5s di di votare tra mercoledì e giovedì su Rousseau l’ipotesi del governo Draghi il passaggio dovrebbe slittare di qualche giorno) lo spettacolo offerto negli ultimi giorni dai vecchi campioni dell’antipolitica, al cospetto dell’ex presidente della Bce, che come avranno avuto modo di scoprire in queste ore i suoi primi interlocutori è un politico di razza, non può che creare entusiasmo: lo show quotidiano dei populisti che cercano in tutti i modi di rottamare con passione lo stesso populismo che hanno contribuito ad alimentare.

 

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Succede così di vedere un magnifico Beppe Grillo impegnato – giusto pochi anni dopo aver insultato in tutti i modi l’ex presidente della Bce accusandolo di essere il capo dei “parassiti” d’Europa e accusandolo di essere una delle dimostrazioni viventi della necessità da parte dell’Italia di uscire dall’euro – a portare avanti una complessa attività di persuasione, whatever it takes, finalizzata a spingere i suoi parlamentari a combattere senza freni la dottrina grillina e a considerare colui che un tempo era il simbolo di ciò che il Movimento 5 stelle doveva combattere, in nome dell’uno vale uno, in nome del rispetto delle scie chimiche, in nome del rispetto della politica delle sirene, in nome del rispetto degli scettici sull’allunaggio, nel simbolo di ciò che oggi invece il grillismo deve orgogliosamente difendere. Grillo, in pochi anni, è passato con splendida allegria dal modello Jeffrey Sachs al metodo Goldman Sachs.

 

Succede così di vedere Matteo Salvini deciso – più per convenienza che per convinzione, più seguendo il modello Zelig che il modello De Gasperi – a usare la scopa di Draghi per cancellare il salvinismo e nascondere sotto al tappeto della politica tutte le fesserie disseminate negli anni della sua leadership: nazionalismo, protezionismo, anti europeismo, lepenismo, putinismo, trumpismo, indipendentismo; tutte categorie della politica che con l’abbraccio a Mario Draghi (che chissà se Mario Draghi farà di tutto per accettare) la Lega ha scelto di infilare automaticamente nel cestino della sua storia (se il Milan non fosse stato in testa al campionato, non ci saremmo stupiti se Salvini avesse colto l’occasione anche per diventare interista). In questo senso, lo spettacolo della resa senza condizioni dei populisti non è la sconfitta della politica ma è il trionfo assoluto della politica. Politica che oggi potrebbe sprecare l’occasione del reset imposto da Draghi facendo quello che ci auguriamo non accada: fare del governo di tutti il governo di nessuno, tenendo cioè lontano dai posti di governo i volti più rappresentativi dei singoli partiti. Sarà difficile vedere forse i segretari di partito nel governo Draghi (anche se sarebbe entusiasmante vedere discutere in un Consiglio dei ministri Matteo Salvini, Luigi Di Maio, Roberto Speranza, Nicola Zingaretti e Matteo Renzi) e sarà più semplice forse vedere i vice dei leader al governo (il governo Draghi avrà non più di 15 ministri, 13 saranno senza portafoglio, di questi, se resisterà lo schema del tutti dentro tranne la Meloni, due dovrebbero spettare al M5s, due al Pd, due alla Lega, due a Forza Italia, uno dovrebbe andare a Italia viva, uno a Leu, gli altri dovrebbero essere tecnici, con un’unica certezza al momento che coincide con il nome di Cartabia al ministero della Giustizia). Ma la politica oggi ha un modo per non perdere la faccia nella stagione dei Draghi: evitare di fare quello che ha suggerito di fare proprio Massimo Cacciari, ovvero nascondersi e lasciare posto al governo ai tecnici, e metterci invece la faccia portando al governo il meglio di ciò che oggi possono offrire i partiti, anche a costo di dover dimostrare ogni giorno, come un tempo avrebbe suggerito Giuseppe Prezzolini, che l’essere incoerenti con le proprie idee a volte è l’unico modo per non fare la figura degli imbecilli. Diciamo la verità: ma che cosa c’è di più politico di un governo Draghi?

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