PUBBLICITÁ

il foglio del weekend

Avanti popolo. E poi?

Stefano Cingolani

È da oltre dieci anni che nei paesi europei il ricorso alle elezioni non assicura la stabilità politica. Elogio delle élite

PUBBLICITÁ

Il mantra è “diamo la parola al popolo”. Lo ripetono Matteo Salvini e Giorgia Meloni (vedremo con quanta insistenza di fronte a Mario Draghi), ma quante volte l’abbiamo sentita, ci bombarda dai talk show, ci rincorre lungo le colonne dei giornali, risuona in parlamento. “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Così recita la nostra carta fondamentale, anche se si cita solo la prima parte, senza arrivare in modo alla subordinata relativa. Il popolo parla, grida, tumultua, ma la sua autentica espressione, quella che conta davvero, avviene attraverso il voto.

ABBONATI PER CONTINUARE A LEGGERE
Se hai già un abbonamento:

Altrimenti


Il mantra è “diamo la parola al popolo”. Lo ripetono Matteo Salvini e Giorgia Meloni (vedremo con quanta insistenza di fronte a Mario Draghi), ma quante volte l’abbiamo sentita, ci bombarda dai talk show, ci rincorre lungo le colonne dei giornali, risuona in parlamento. “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Così recita la nostra carta fondamentale, anche se si cita solo la prima parte, senza arrivare in modo alla subordinata relativa. Il popolo parla, grida, tumultua, ma la sua autentica espressione, quella che conta davvero, avviene attraverso il voto.

PUBBLICITÁ

   

    

Tutti i popoli d’Europa hanno parlato, lo hanno fatto più volte e spesso in un solo anno, da tempo però non si riesce a capire che cosa dicono. In nessun paese, dalle coste dell’Atlantico a quelle del Baltico, sono emerse maggioranze chiare e durevoli. Coalizioni grandi e piccole, governi di minoranza, governi delle astensioni, governi tecnici, governi del presidente sono diventati la norma con qualsiasi sistema elettorale, proporzionale, più o meno sbarrato, o maggioritario. Le elezioni sono l’evento chiave, ma non perché la democrazia sia governo del popolo, “non lo è mai stata, non può esserlo, né deve esserlo”, ha scritto Karl Popper, uno dei maggiori pensatori liberali del secolo scorso. E aggiungeva: “La cosa più importante di una forma democratica di governo consiste nel permettere di licenziare il governo senza spargimento di sangue, in modo tale, così, che un nuovo governo assuma le redini del comando”.

 

PUBBLICITÁ

Per fortuna non s’è versato sangue ad ovest dell’Ucraina nell’ultimo decennio, a differenza dagli Stati Uniti dove abbiamo dovuto assistere a un evento che sembrava inconcepibile come l’assalto al Parlamento. Tuttavia la possibilità di affidare solide e stabili redini a un governo espresso dal voto popolare è diventato un rebus finora non risolto, forse irrisolvibile nelle condizioni attuali. Passiamo in rassegna i fatti al di là dei confini italiani, poi le opinioni. Luis Zapatero cade nel dicembre 2011, poco dopo Silvio Berlusconi, l’uno per mano del popolo, l’altro per mano del Parlamento e del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Da allora la Spagna fibrilla, sballottata da nuove formazioni politiche, Podemos a sinistra, Ciudadanos al centro, Vox all’estrema destra. Mariano Rajoy, capo della destra moderata, governa due volte, l’ultima per soli due anni. Poi si vota nel 2018 e di nuovo nel 2019. Nel gennaio 2020 Pedro Sanchez, il leader del Psoe, forma il governo insieme a Podemos che si regge sull’astensione di 13 deputati catalani. Gli ultimi sondaggi, nel dicembre scorso, dicono che se si andasse a votare ancora, il Psoe avrebbe meno del 18 per cento, il Partito popolare il 23 per cento, l’ultradestra il 15 per cento, il resto sparso. Insomma, come prima peggio di prima.

 

La Germania è l’emblema dell’equilibrio, con Angela Merkel alla guida da sedici anni. Eppure la Kanzlerin ha sempre guidato delle coalizioni, con i socialdemocratici o con i liberali. Mai la coppia democristiana Cdu-Csu ha avuto la maggioranza, ma una cosa è governare con la Fdp, lo storico alleato liberale, tutt’altro con la Spd che, stressata dalla pandemia, adesso cerca di prendere le distanze in vista delle elezioni di settembre. Anche in Olanda Mark Rutte è rimasto in sella dal 2010 con tre diverse coalizioni, e il 2 gennaio si è dimesso per lo scandalo dei sussidi negati alle famiglie di immigrati. Dal 2012 al 2017 è stato insieme ai laburisti, il cui leader Lodewijk Asscher ha gettato la spugna, poi ha imbarcato una maggioranza conservatrice. Coalizioni variegate e instabili troviamo in Austria, dove dal maggio 2016 a oggi si sono avuti quattro governi con partiti diversi. Il Belgio sembrava aver trovato pace con Charles Michel e il suo Movimento riformatore liberal-democratico. Invece è rimasto seicento giorni senza esecutivo, il re Filippo ha dato una dozzina di incarichi, dall’ottobre 2019 si sono succeduti tre governi con due coalizioni e due leader diversi (Sophie Wilmès, erede di Michel e Alexander De Croo, in carica adesso con sette partiti diversi). In Francia, dove il sistema elettorale assicura governabilità, Emmanuel Macron al primo turno ha ottenuto soltanto il 24 per cento dei consensi, rivelando un problema di rappresentatività, e dal 2017 ha formato gabinetti con due primi ministri; il progetto di En Marche, che doveva superare la vecchia destra e la vecchia sinistra, è in stallo. Nel Regno Unito abbiamo visto come la Brexit abbia generato divisioni e incertezza, nei partiti e nel paese (si pensi alle convulsioni della Scozia e dell’Irlanda e alla frattura tra Londra e il resto dell’Inghilterra).

 

   

PUBBLICITÁ

 

PUBBLICITÁ

Secondo il filosofo Biagio de Giovanni è entrato in crisi in occidente “il costituzionalismo politico che riusciva a integrare il popolo nell’ordinamento giuridico-sociale. Da qui la rottura del rapporto tra popolo e diritto, che si mostrano come due entità estranee, incomunicabili”. Questa lacerazione è apparsa più evidente proprio nella culla della democrazia moderna, gli Stati Uniti. Che cosa l’ha provocata? E’ colpa della globalizzazione? Una delle ragioni che apre la porta al sovranismo, si dice frequentemente, è la fine del rapporto esclusivo tra democrazia e stato-nazione. Ma quanto era solido quel rapporto durante la Guerra fredda se si pensa alla teoria comunista della sovranità limitata, ma anche, nell’occidente democratico, al golpe in Grecia o a quello in Cile? L’esportazione della democrazia prevale o no sulla difesa dei confini, come sostengono i neocon?

 

PUBBLICITÁ

Quel che è accaduto nell’Europa centro orientale è per molti versi ancor più paradossale. Il vento della democrazia liberale è durato vent’anni, poi ha ripreso forza l’autoritarismo, tra nostalgia e voglia di “democratura”, senza per questo trovare stabilità. Nei paesi del patto di Višegrad il popolo parla con voce biforcuta. L’Ungheria di Victor Orbàn è l’esempio più noto. Ma anche nella Polonia paladina della libertà ai tempi di Solidarnosc (e decisamente anti-russa) è avvenuta una svolta nel 2015, con la vittoria di Prawo i Sprawiedliwosc (Libertà e Giustizia), il partito guidato da Jaroslaw Kaczynski che ha affidato la presidenza ad Andrzej Sebastian Duda, riconfermato nel luglio 2020. Dopo tredici anni al potere, la destra è stata sconfitta in Slovacchia nel febbraio del 2020 da una coalizione tra europeisti e populisti chiamata Olano, che ha dato una sberla anche ai progressisti della presidente Zuzana Caputova. Nella Repubblica ceca, il paese di Vaclav Havel, guida il governo Andrej Babiš, detto il Trump ceco, installato dal presidente Milos Zeman, ex comunista, fuoriuscito dal Partito socialdemocratico nel 2007 e al potere dal 2013 quando, in barba a ogni regola, mise al governo il suo vecchio amico e sodale Jirí Rusnok.

 

La crisi del 2008-2010 ha segnato uno spartiacque perché ha mostrato la debolezza del modello economico, sia di quello anglo-americano – che assicurava prosperità attraverso il libero mercato – sia di quello renano – con la protezione statale dalla culla alla tomba. Così sono diventati attraenti persino il nuovo zar Vladimir Putin, il nuovo imperatore Xi Jinping, il nuovo sultano Recep Erdogan. La rivoluzione digitale ha rivelato il suo volto oscuro: la democrazia del click è fonte di un potere manipolativo che nemmeno George Orwell era riuscito a immaginare. La globalizzazione ha fatto emergere in modo distorto la paura di perdere l’identità, come ha scritto Francis Fukuyama. Ciascuna di queste analisi ha la sua scintilla di verità, ma “nessun fattore può spiegare da solo la comparsa simultanea della controrivoluzione illiberale”, come la chiamano Ivan Krastev, presidente del Centre for Liberal Strategies a Sofia e Stephen Holmes della New York University. Poi arriva la pandemia.

 

  

 

Il Covid-19 “ha colpito in piena recessione democratica, nel momento più difficile per la democrazia dalla fine della Guerra Fredda”, sottolinea Larry Diamond della Hoover Institution. “Ci vorrà del tempo, forse alcuni anni – aggiunge – prima di poterne valutare in pieno l’impatto. La gravità dei danni dipenderà da quanto durerà la crisi sanitaria e da quanto essa danneggerà le economie e le società. Dipenderà pure da come se la passeranno le democrazie rispetto alle autocrazie nel contenere gli effetti del virus, da chi vincerà la gara per il vaccino e, più in generale, da chi – Cina, Stati Uniti o paesi democratici nel complesso – sarà visto come il fornitore più generoso ed efficiente di beni pubblici globali per combattere la pandemia”.

 

Con i negazionisti la voce del popolo risuona non più solo contro l’élite, ma contro la razionalità. Cosa può fare la politica che è il regno della volontà, contro il virus che scaturisce dal regno della necessità? Ogni sogno s’infrange di fronte all’acido ribonucleico o alla proteina spike. Il primato della politica si arrende di fronte al primato del contagio. Hai voglia a criticare la tecnocrazia quando solo la scienza applicata può salvare la nostra vita o quando solo la competenza e l’efficacia gestionale può difendere il nostro lavoro. Secondo Sergio Fabbrini, direttore del dipartimento di Scienze politiche alla Luiss e professore a Harvard, “la risposta nazionalista non ha funzionato. Intanto perché essa, nella sua radicalizzazione, è giunta a mettere in discussione le basi liberali delle democrazie di mercato, come abbiamo visto nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio scorso e come vediamo ogni giorno nell’assalto alle istituzioni e alle pratiche liberali a Varsavia o a Budapest. Ma soprattutto perché essa, dopo aver denigrato le istituzioni multilaterali, si è trovata a mani nude per affrontare sfide che andavano al di là dei singoli confini nazionali. Come poteva, il nazionalismo, affrontare la diffusione delle malattie, il cambiamento climatico, l’innovazione tecnologica, la mobilità della finanza, gli spostamenti delle popolazioni, la trans-nazionalità della ricerca?”.

 

E’ possibile, allora, si chiede Diamond una risposta democratica alla pandemia? “Molto dipenderà da come le democrazie sapranno controllare l’incremento dei poteri dei governi che normalmente è associato alle emergenze nazionali, così come dalla capacità di far convergere la determinazione collettiva per difendere la libertà a livello globale”. De Giovanni mette in guardia dal riproporre il passato, e invita a guardare avanti, in sostanza a un processo riformatore che costruisca un ponte tra popolo e diritto. Nessuno ha la soluzione, ma è già importante appendere il cartello “lavori in corso”.

 

Di più su questi argomenti:
PUBBLICITÁ