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Ultimo tango a Volturara Appula

Il fascino discreto di Mario Draghi

Michele Masneri

Internazionale, plurilingue, elegante. Mario Draghi ha già fatto innamorare tutti. Ma gli italiani, abituati alle sgangheratezze dei governi gialloverdi e giallorossi, riusciranno ad abituarsi a questa magnificenza?

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Son passati solo pochi giorni e son già state dette tutte le parole, sole-cuore-amore, nel Paese innamorato del sovrano straniero: nessun dettaglio è risparmiato, soprattutto Mario Draghi, il sovrano, è riservato, e la riservatezza aggiunge gusto all’indagine. Sappiamo fondamentali dettagli: non ama i cappotti e i soprabiti; ama invece i cani (ha un bracco, e manco un bracco normale, ma ungherese!). Ama arrivare in anticipo (è giunto cinque minuti prima al Quirinale da Mattarella!), è ecologico (nominato governatore della Banca d’Italia fece a piedi la strada da via Nazionale al Quirinale!); è ambizioso ma è rimasto umile, offre bacini alla prima e unica signora Draghi, signora anzi donna Serenella, perché – qui tutti si sono affrettati a ricostruire una genealogia portentosa, un po’ Serbelloni-Mazzanti – discende nientemeno che da Bianca Cappello, moglie di un granduca di Toscana.

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Son passati solo pochi giorni e son già state dette tutte le parole, sole-cuore-amore, nel Paese innamorato del sovrano straniero: nessun dettaglio è risparmiato, soprattutto Mario Draghi, il sovrano, è riservato, e la riservatezza aggiunge gusto all’indagine. Sappiamo fondamentali dettagli: non ama i cappotti e i soprabiti; ama invece i cani (ha un bracco, e manco un bracco normale, ma ungherese!). Ama arrivare in anticipo (è giunto cinque minuti prima al Quirinale da Mattarella!), è ecologico (nominato governatore della Banca d’Italia fece a piedi la strada da via Nazionale al Quirinale!); è ambizioso ma è rimasto umile, offre bacini alla prima e unica signora Draghi, signora anzi donna Serenella, perché – qui tutti si sono affrettati a ricostruire una genealogia portentosa, un po’ Serbelloni-Mazzanti – discende nientemeno che da Bianca Cappello, moglie di un granduca di Toscana.

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Comunque, con Donna Serenella, eccoli in un supermercato deserto, trascinando secchioni di cibo probabilmente per il suddetto bracco (ungherese): immagine perfetta con vari sottotesti: dopo tutti questi anni è fedele alla sua signora, o donna; non come certi marpioni monetaristi (per non parlare del collega Strauss-Kahn). Va al supermercato solo, per di più, senza neanche farsi trascinare il carrello da nugoli di bodyguard (gli italiani, che adorano i privilegi, sono invece stranamente suscettibili al supermarket: tutti ricordiamo la fine della senatrice Finocchiaro all’Ikea, e la compagna del premier Conte rifugiata in un supermercato e protetta dalle scorte per evitare le Iene).

 

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Tutto insomma è piegato al giusto e protocollare innamoramento, alla luna di miele italiana per questo nuovo partner internazionale e altolocato. L’innamoramento è più forte per questi speciali personaggi: così diversi da noi. Succede sempre, dopo una storia. Se ti è piaciuto il biondo, prenderai il moro. E dopo le maggioranze rustiche, è tempo per il fascino della borghesia. Draghi è tutto quello che noi non siamo, liberista o “neoliberale” qualunue cosa voglia dire, quanto gli italiani negli ultimi tempi son diventati indistintamente statalisti: meritocratico, con la sua storia di incredibile ascesa, quanto gli italiani sognano ormai d’esser comprati da una grande Cdp che da Che Guevara arriva fino a Madre Teresa; sobrio, quanto l’Italiano ha amato negli ultimi tempi le sgangheratezze casaliniche, i palazzi del governo illuminati a tricolore, la telenovela cubana col filtro, il dpcm notturno, la conferenza putiniana di Arcuri, la diretta salviniana con la nutella, il centro vaccinale petaloso; insomma il barocco.

 

Adesso dopo il barocco torna il neoclassico, stile molto poco frequentato, si sa, in Italia. Neoclassico in abito lungo. Secondo Impero. Perché una caratteristica degli ultimi tre anni, destra o sinistra che conta, gialloverde o rosso-giallo, era l’abito corto. Abitucci e giacchette di quelle che vanno di moda nei grandi fratelli, vip e non vip, giacchette che sembrano più bolerini. Completi aderenti. Attillati. Talvolta, lucidi. Gessatini da boutique di provincia, per mostrare il bicipite scolpito e guizzante. Adesso, invece, torna la giacca normale, ampia, sartoriale ma comoda, possibilmente non nuova di zecca (grande giallo sull’identità del sarto).

 

Finisce poi l’inno del corpo morto, la carnezzeria dei politici che magnano, amano, digeriscono, comunicano: su TikTok  e su Chi: Conte al Circeo, Di Maio a Sabaudia, Ponza e panze; sederi sulla schiena photoshoppati. Si assapora un ritorno alle conferenze stampa, alla comunicazione mediata e non egotica del twitter (che Draghi non possiede); insomma una pacificazione, come Biden alla Casa Bianca, e i due sono simili, composti, politici/amministratori di lungo corso, con mogli decorose e famiglie non imbarazzanti. E first dog. E basterà tutto questo, da noi come in America, a rimettere nell’anfora gli spiriti malvagi venuti fuori da chissà dove, attirati dagli sciamani coattoni? E per il giuramento e la fiducia saremo in grado di inventarci una cerimonia da Golden Globe con lady Gaga e J-Lo, e come troveremo una giovane e bellissima poetessa civile in cappottino Prada giallo? E su cosa giurerà Draghi? Se in America si sa che ognuno ha la sua bibbia, e il manufatto su cui si giura ha fondamentale importanza, su cosa dunque alzerà il suo voto Draghi? Sulla rivista Capital? Su Franco Maria Ricci? Su un Keynes rilegato Adelphi?

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Il sovrano straniero è  così diverso da noi. E’ un aristocratico in senso lato. Figlio dell’unica istituzione ancora nobilitante, in grado di creare classe dirigente: la Banca d’Italia. Il padre Carlo, che muore giovane, era un collaboratore dell’indimenticato Donato Menichella,  e Draghi figlio vi entra giovanissimo, per poi diventarne governatore nel 2005. Veramente aristocratica è poi la moglie, si è detto, veneta, come veneto era il padre di Draghi. E dunque, ritorni e vacanze in ville sul Brenta, dove si sono conosciuti. Infanzie da Giorgio Bassani, da Finzi-Contini. Il matrimonio, raccontano, si celebra a villa Morosini-Cappello, detta “il palazzo”, un tempo della di lei famiglia, oggi comunale. Viaggio di nozze niente, ma via a Boston per i fondamentali phd… E lì Ivy league e master e board di banche nell’edera. Se l’Italia fosse una serie, siamo passati da Imma Tataranni a The Crown, da Telenorba a Netflix.

 

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Il plot twist della Dragon life è chiaramente il liceo. L’Istituto Massimo, terza via peculiare tra i licei classici del centro (Tasso, Virgilio, Visconti) e le scuole di pubbliche relazioni (cit., Marymount, St. Stephen’s, Châteaubriand). La preoccupazione di  tutti i cronisti d’Italia in questi giorni è di scovare aneddoti inediti su codesto liceo: stiamo tartassando alunni, sondando ex professori, titillando bidelli. Siamo tutti azzurri di sci. Siamo tutti allievi del Massimo. A scuola con lui Montezemolo, De Gennaro, anche il meno araldico Magalli. Rutelli. “E Cristiano Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli. E un sacco di nobili, i Torlonia, i Colonna”, dice al Foglio Piero Sansonetti, direttore oggi del Riformista, altro ex alunno. La scuola stava nell’ex palazzo Massimo alle Terme, di fronte a Termini, poi si spostò all’Eur, quartiere in pieno boom. Sorge il dubbio che a temprare davvero quella generazione, più che lo studio, sia stata la defatigante traversata di Roma ogni mattina. Non vi annoiavate in quelle trasferte? “Per niente, veniva un pullman a prenderci e c’era tempo per copiare i compiti, mentre Magalli teneva banco recitando già da mattatore”, dice Sansonetti. C’è una disputa sul fatto se il giovane Draghi passasse  o non passasse i compiti.

 

Comunque, bravissimo, intelligentissimo, generosissimo. Sportivissimo, a basket, vabbè. Nelle foto ha sempre le braccia incrociate. Il liceo leggendario ha vissuto il suo momento d’oro negli anni Sessanta; oggi pare meno rilevante. Il liceo leggendario è intestato al settecentesco principe Massimiliano Massimo, famiglia che si vuole più antica d’Europa, discendenti diretti di quel Quinto Fabio Massimo “il temporeggiatore”. Un giorno Napoleone incuriosito chiese se fosse vera quella storia. Gli fu risposto: “Non ci faccia caso, è solo una vecchia storia. A Roma la raccontano da duemila anni”.  

 

E capite che confrontare tutto questo storytelling araldico con le saghe gialloverdi e giallorosse stringe il cuore. Conte ha studiato al liceo Pietro Giannone a San Pietro in Lamis, provincia di Foggia. Pietro Giannone, filosofo, storico e giurista illuminista, figlio di uno speziale, finì al gabbio. Conte invece è nato a Volturara Appula, villaggio nel nord-ovest della Puglia, vicino al confine con Campania e Molise.  “Piccolo grande paese”, come ha raccontato su questo giornale Michele De Feudis. “Se studiate, un giorno potrebbe capitare anche a voi di essere al mio posto”, ha detto Conte agli studenti, ma in quel “capitare” c’è tutto il destino italiano di un caso, di un avvenimento fortuito, la botta di culo, che è un po’ la cifra dell’italianità, e anche in questo Draghi è diverso. In Draghi c’è il senso della predestinazione, del merito, dall’ambizione, del – parola vietata in Italia, esotica in un paese basato non sul lavoro ma sull’invidia sociale – successo.

 

Povero Conte. Che invece è very proud of Volturara Appula, lo dichiara a ogni pié sospinto. Villaggio quasi tutto di pensionati. C’è una foto, a corredo di quell’articolo da Volturara Appula – chiamiamola la foto di Volturara. C’è Conte all’apice del successo, immortalato mentre, sudatissimo e con un’aria torva, nel suo monopetto Facis, l’immancabile pochette, il bottone chiuso, dà un calcio a un pallone pesto, circondato dal codazzo. Sulla faccia di Conte, pare concentrato tutto lo sforzo di quell’avventura, da Volturara a palazzo Chigi. L’immane fatica. Dietro di lui, bambini e Carabinieri sullo sfondo, serramenti di alluminio anodizzato. Il sud eterno, il patriarcato col bar sport e l’alzata d’occhi.

 

A Volturara oggi sono incazzati neri. A Volturara contestano Draghi. Rivogliono premier il loro Conte, e sono pronti a votarne un partito (Volturara come la Florida, coi Volturara-men pronti a credere nel loro Conte, nonostante tutto? Ultimo rifugio di populisti, QAnon nostrani; una Mar-a-Lago del contismo? Mah). Certo, però, già il nome, Volturara: vogliamo paragonarla alle location della storia Draghi? Mit, Banca Mondiale, Londra, Parioli. Non regge. Se Draghi è un apostolo delle élite, Conte è un apostrofo rosa tra le parole Volturara e Appula. L’unica gloria di Volturara Appula, prima di Conte, è stato Alessandro Geraldini (1455-1524), leggendario personaggio cinquecentesco, che a un certo punto ricevette  la titolarità   di  questo modesto vescovato, dove  però probabilmente non andò  mai. Era troppo occupato a salpare per le Indie e divenire il primo vescovo cattolico d’America. Consigliere spirituale della regina Isabella, sponsor di Cristoforo Colombo, è seppellito nella cattedrale di Santo Domingo. Unico legame   possibile tra queste due storie, tra queste due antropologie, Draghi e Conte, Volturara e l’MIT, è Manfredi Geraldini, imprenditore, gran signore romano.

 

Anche lui ha fatto il Massimo, con Draghi, vivevano addirittura nello stesso palazzo, a via Piemonte. “Mia madre mi diceva sempre: studia con Mario, o almeno come Mario. Ma io perdevo un sacco di tempo, e lui invece studioso, determinato, ambizioso, già allora”, dice al Foglio. Geraldini ricorda soprattutto il padre spirituale del liceo, Alberto Parisi, che fu parroco di San Roberto Bellarmino, “e sposò sia Draghi che me”. Geraldini è discendente diretto di quel celebre vescovo di Volturara Appula. Ma il suo antenato come si trovava a Volturara Appula? Geraldini ci pensa su, poi controlla su Wikipedia, “non mi risultava questa cosa. Sapevo naturalmente della spedizione nelle Indie, di Cristoforo Colombo. Di Santo Domingo. Ci sono molti documenti. Ma questa Volturara, e poi, come si chiama?”. Appula. “No, non ne ero proprio a conoscenza. Devo chiedere a mio fratello, lui ne sa certamente di più”.  

 

Giuseppe Conte invece appena può torna a Volturara. E si reca a San Giovanni Rotondo a omaggiare Padre Pio, cui è devotissimo. Religiosità simmetriche per Conte e per Draghi: due premier entrambi cattolici, cattolicissimi, uno però assiduo del Santo più pop e self made man, padre Pio, a cui rende ripetute visite quando si trova in terra di Puglia. L’altro invece è seguace di Sant’Ignazio di Loyola, arci aristocratico fondatore della compagnia di Gesù. Gesù e la sua compagnia ricambiano: l’estate scorsa Papa Francesco ha nominato Draghi membro ordinario della Pontificia accademia delle scienze sociali, think tank vaticano che per statuto ha quello di “promuovere lo studio e il progresso delle scienze sociali, economiche, politiche e giuridiche, offrendo alla Chiesa elementi da usare nello studio e nello sviluppo della sua dottrina sociale”. Il Cnel del Papa.

 

Ma il gesuitismo, religione dei capi di Stato, dei re e degli imperatori, è la religione del potere, e dell’opportunità. Raccontano che Draghi abbia assorbito la dottrina ma anche certi modi di fare. Alla Banca d’Italia, narrano di certi piccoli escamotage da politico democristiano, anche un po’ da quei mitici Dc degli anni d’oro, quei veneti alla Tognazzi, severi e integerrimi ma con dei guizzi di genio parrocchiale. Nel 2005, appena nominato governatore, invita magnanimamente il suo predecessore caduto in disgrazia, Antonio Fazio, ad assistere alle Considerazioni finali, il superbowl di Bankitalia, ma poi la sera prima manovra per convincerlo a non andare, cosa che poi avviene. Oppure si fa mettere un provvidenziale convegno last minute quando si tratta di dover decidere se lasciare sempre al predecessore villa Huffer, la foresteria di fronte alla sede centrale di Bankitalia… insomma sa sparire al momento giusto, Draghi, per ricomparire altrove. “Altrove”, insieme ad “atermico” e “Supermario”, sono alcuni dei suoi soprannomi. Che lui, dicono, detesta, così come detesta, e anche qui c’è un tratto che lo umanizza, non piacere.

 

Dietro quel sorriso ironico, dietro quei silenzi, c’è un grande comunicatore, infatti, con un tratto di narcisismo (ma allora è umano!). Sempre in Banca d’Italia, raccontano che la prima cosa che abbia avocato a sé sono stati i rapporti con la stampa, e nello specifico coi direttori dei quotidiani. Rapporti che coltiva con molta attenzione. E nella mazzetta quotidiana, se detesta la facile adulazione, peggio sopporta gli errori, e più ancora però le critiche (il bracco ungherese una volta fu scambiato per alano, e lui telefonò).

 

Ma ci sono anche esempi non canini. Sansonetti racconta al Foglio che a un certo punto, quando era a capo di Liberazione, venne convocato dalla segretaria di Draghi all’epoca governatore. “Lo attaccavo spesso, ma più per goliardia che altro. Mi sembrava che fosse il simbolo della borghesia, dei padroni”, racconta. Fino alla convocazione. “Mi disse che si ricordava di me ragazzino, ed è impossibile, perché mi fece il ritratto di un me bambino grande giocatore di calcio, e non lo ero proprio; ma soprattutto mi disse anche molto duramente che lui era allievo di Federico Caffè, e non di Agnelli. Insomma volle mettere in chiaro il suo essere più a sinistra di quello che si pensava, e non certo uno che stava dalla parte dei padroni”.

 

“Ma quindi, sire, lei è comunista? Non proprio, Fantozzi, non proprio”. Non si sa se abbia senso parlare di idee politiche in questo empireo, in questa aristocrazia globale. Draghi studiò con Caffè, l’economista poi misteriosamente scomparso, e poi andò in America, e proseguì col Nobel Modigliani, fissato coi tagli agli sprechi della spesa pubblica. Al meeting di Rimini dell’estate scorsa, l’ultima sua uscita pubblica prima dello showdown di questi giorni, ha citato Keynes, un altro dei suoi maestri, e poi la “preghiera per la serenità” di Reinhold Niebuhr che chiede al Signore: “Dammi la serenità per accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso cambiare, e la saggezza di capire la differenza”. Un po’ Quelo, la risposta è dentro di te, e però è sbagliata. Secondo Bruno Tabacci, che lo conosce da quarant’anni, da quando Draghi era uno dei due giovani consulenti del ministero del Tesoro negli anni Ottanta, insieme a Innocenzo Cipolletta, è un “cattolico sociale di mercato. Un keynesiano con gli occhi aperti”, dice al Foglio. Proprio al ministero del Tesoro nasce un altro capitolo fondamentale dell’epopea Draghi, quando diventa consulente dell’allora ministro Goria; e da lui poi verrà spedito alla Banca mondiale come executive director (uno dei 25).

 

Altra tappa americana determinante; e però qualche malelingua sostiene che al tempo, dovendo scegliere tra Cipolletta e Draghi, Goria decise di spedire il secondo a Washington perché Cipolletta, più sveglio, era più utile a Roma. Certamente cattiverie, di funzionari invidiosi per la parabola stellare dell’ex governatore. Ma come ogni rockstar anche Draghi ha i suoi haters. E se c’è la leggenda nera del Britannia, il panfilo su cui si sarebbero decise le sorti delle privatizzazioni italiane (teoria cara anche all’ex presidente Cossiga), episodio che fa più che altro tenerezza oggi, in tempi in cui si statalizzano pure le pizzerie (aridatece er Britannia), anche tra i suoi odiatori Draghi ovviamente ha il meglio del meglio. L’aristocrazia dei mitomani. I rettiliani.

 

Si legge sul sito del Cicap, il comitato italiano per il controllo affermazioni sul paranormale, fondato da Piero Angela: “C'è stato un tempo in cui gli enormi sauri, antenati dei più modesti rettili di oggi, dominavano il pianeta. Un meteorite, diversi milioni di anni fa, estinse i dinosauri creando le condizioni per la comparsa e la dominanza sulla Terra da parte dell'homo sapiens. Secondo alcuni - almeno dodici milioni di americani dicono recenti sondaggi - ancora oggi convivrebbero accanto a noi degli esseri di origine aliena dissimulati sotto forma umana: i rettiliani. I rettiliani sono soggetti nascosti sotto sembianze umane che nel remoto passato avrebbero ibridato il Dna extraterrestre di una evoluta stirpe rettiliana con il Dna terrestre di noi umani. Tutto ciò, da parte della stirpe rettiliana, al fine di dominare in modo occulto il nostro pianeta. Facendosi apparire umani per controllarci e sfruttarci meglio, senza che noi se ne sia consapevoli. Occupando posti di potere e di influenza in campo politico, economico, militare, spionistico. Ma pure nel mondo dell'arte, dello spettacolo e dell'informazione”.

 

Dei rettiliani farebbero parte:  “tutta la famiglia Bush, ovviamente la regina Elisabetta, Obama, Madonna, l’ex presidente americano Clinton con la famiglia al completo, Putin, l’attrice Angelina Jolie, l’esuberante cantante Lady Gaga. Per gli italiani, in primo luogo Draghi (poi Monti, Elsa Fornero, ecc.)”.  Per individuare i rettiliani, spiega il Cicap, “Basta prendere una foto o un filmato e, con un programma di fotoritocco, mettere in risalto quella particolare ombreggiatura del volto, quella fenditura verticale della pupilla tipica dei sauri, un'impercettibile increspatura del volto che rivela la compresenza di un corpo squamoso sotto la pelle”. C’è da dire che Draghi non ha bisogno di photoshop, perché oltre al curriculum, all’atermia tipica di questi esseri, anche gli occhi sono diversi da noi umani. Sembra un po’ il serpente del libro della Giungla, con gli occhi a elica.

 

Come il pitone Kaa è un grande incantatore. Certo incantatore nordeuropeo e wasp, non mediterraneo. Comunicatore più di pause e di silenzi, di certo non manda “vocali”. Distante anni luce dallo show casalinico, dalla comunicazione emozionale e imbonitiva. Pare che una delle prime decisioni prese a Bankitalia fu quella di rendere più brevi le riunioni: tipo regina Elisabetta che tiene i cortigiani in piedi per evitare sprechi di tempo. Eppure bravissimo (e interessatissimo) a come veicolare meglio le proprie gesta, ad avvalorare la leggenda. Scuola regina Elisabetta: più mistero, meno esposizione. Non sarà un sovrano in bicicletta ma poco ci manca. Così ecco la cortina fumogena che avvolge tutto, riservatezza micidiale sulla sorella Andreina, storica dell’arte, unica sua presenza online un video in cui discetta di “collezioni d’arte delle banche italiane”. Riservatezza totale anche sul fratello Marcello, e sui figli, uno banchiere internazionale, l’altra scienziata nel biotech.

 

Ah Volturara mia, quanto sei lontana. Certo c’è sempre Roma in mezzo, tra queste due storie: ma sono due città opposte, la Roma di Conte, studente fuori sede a Villa Nazareth, collegio per studenti svantaggiati del Sud; e poi Roma del centro storico dove Conte come molti non romani di successo abita, le viuzze e i vicoletti pittoreschi dove si aggirano tutti gli homines novi della politica, tra pizze al taglio e fritture e affreschi, e gabbiani e morose di Salvini che zac, sbucano al mattino, con su la tuta della Polizia…

 

E’ la Roma dell’all you can eat contro la Roma del whatever it takes. E  l’italian-english sfuggito al primo discorso di Draghi, “le sfide che ci confrontano”, to confront, transitivo, è il suo “se sbaglio mi corrigerete”, e insomma è il Papa straniero. Intanto lui è un romano che ce l’ha fatta, e già questo lo rende differente. Un romano gran borghese, borghese globale in una città che non conosce questa classe. Nato nel quartiere Pinciano, sottospecie cool dei più vasti Parioli; e lì ha mantenuto una casa, in quel viale Bruno Buozzi, tra un Naturasì e la casa Girasole disegnata da Luigi Moretti, epitome della palazzina romana  nobilitata a simbolo architettonico (e residenza di Totò, ai tempi). Una romanità da quartiere europeo di città mediterranea (esiste!), in quelle vie dove abitano tanti diplomatici a riposo, e come i diplomatici anche Draghi la casa di Roma ai Parioli la tiene, lì pronta, perché non si sa mai, può sempre servire, in queste carriere: ritorni improvvisi, chiamate, nomine. Ripartenze.  E così nel ’91 quando diventa direttore Generale del Tesoro, e poi nel 2005 quando va a governare Bankitalia, in fretta e furia via da Washington e Londra, con case magari appena messe su. Ma ormai torna più spesso a dormire a Città della Pieve, in Umbria, già ribattezzata “la Camp David di Draghi” (il Messaggero). Bruno Tabacci, che lo conosce dai tempi del Tesoro, lo chiama di nascosto “l’Umbro”.

 

Coi Parioli, rapporti complessi. Raccontano al Foglio che a un certo punto andasse nell’aspirazionale Roman Sport Center, che oggi si chiama Heaven ed è chiusa come tutte le palestre, ma narra la leggenda che se ne sia andato perché qualche compagno di spogliatoio riferì delle confidenze ricevute tra quegli antri. Riesce comunque difficile immaginare Draghi confabulare in quel regno ipogeo disegnato (anche quello) da Luigi Moretti, sotto i pini di Roma, accanto al parking sotterraneo di villa Borghese. Una specie di surrogato di circolo romano, ma senza fiume. Palestrona aspirazionale dove negli anni d’oro, gli Ottanta, scendevano Madonna, Schwarzenegger e Lou Ferrigno (quello di Hulk) quando in hotel nella vicina via Veneto. Ma più generalmente notai, commercialisti, commercianti di macchine, soubrette (e oggi anche Zingaretti, che quando si ammalò di Covid gettò il panico tra i personal trainer). “Se non sei in coppia, la Roman è perfetta”, sosteneva il protagonista di “Ho voglia di te” di Federico Moccia; “finita ogni serie, ci si guarda e ci si spizza, un sorriso e poi vai”. Draghi è sempre stato in coppia, e tutto questa roba, spizzarsi e confidarsi, e – giammai – sudare, tra un tapis roulant e un materassino, è chiaro, è too much per Draghi, che piuttosto di questo cinema corre tutto di nero vestito, col bracco (ungherese) sul Lungotevere.

 

E però, alla fine, rettiliano o umano, termico o atermico, sorge il sospetto, e la paura, che finita l’isteria per i festeggiamenti, e l’eros dell’innamoramento, io e te, rettiliano, che se dovemo dì? Noi forse di tutto questo ben di Dio, dei master e dei phd, non siamo degni. E il paese reale, il famigerato paese reale, non è che, nella sgangheratezza a cui si è abituato, sprofondando tra i posati di Chi e le elemosine e le prebende e le tute, e il sogno dello Spid di Stato, siamo davvero disposti e abbiamo tutta questa voglia di tornare indietro, di diventare composti e addirittura competitivi? Tra Francoforte e Volturara, dopo un anno di lockdown, non chiedeteci di scegliere.

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