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la giornata di super mario

Così Draghi userà i suoi poteri per un governo Ursula e very politico

Le aperture di FI (dalla Carfagna a Gianni Letta), la cautela di Renzi. Di Maio: "La coalizione di centrosinistra non va rotta, perché è con questa che ci presenteremo alle elezioni". L'incontro a Palazzo Chigi e quella battuta sulla Roma

Valerio Valentini

Il mandato ricevuto da Mattarella è privo di vincoli. "Deciderò dopo aver ascoltato i partiti e le parti sociali", dice l'ex banchiere. Ma dalla palude rossogialla sale il No alla Lega. Franceschini costringe il M5s ai doveri dell'alleanza, e Di Maio ci sta. Zinga si spende per un ministero a Conte

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Potrebbe soffrire della sua stessa forza, finire con l’indispettire coloro che pure, per larga parte, lo glorificano, ma che si avvertono il rischio di finire annichiliti nel gorgo della sua ombra. Sergio Mattarella, del resto, lo ha lasciato totalmente libero di fare le sue valutazioni. Talmente è impervio il compito assegnatogli, talmente accidentato il sentiero che dovrà percorrere, che Mario Draghi s’è visto assegnare un mandato pieno, senza vincoli né paletti prestabiliti. I tempi e i modi con far nascere il suo governo, l’ex governatore della Bce lo capirà nel corso delle consultazioni che partiranno domani a Montecitorio: questo, in buona sostanza, è il senso dell’incarico concessogli dal Quirinale. 

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Potrebbe soffrire della sua stessa forza, finire con l’indispettire coloro che pure, per larga parte, lo glorificano, ma che si avvertono il rischio di finire annichiliti nel gorgo della sua ombra. Sergio Mattarella, del resto, lo ha lasciato totalmente libero di fare le sue valutazioni. Talmente è impervio il compito assegnatogli, talmente accidentato il sentiero che dovrà percorrere, che Mario Draghi s’è visto assegnare un mandato pieno, senza vincoli né paletti prestabiliti. I tempi e i modi con far nascere il suo governo, l’ex governatore della Bce lo capirà nel corso delle consultazioni che partiranno domani a Montecitorio: questo, in buona sostanza, è il senso dell’incarico concessogli dal Quirinale. 

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Ma d’altronde Draghi, che della palude romana e delle sue insidie è un discreto conoscitore, agli incontri coi presidenti Fico e Casellati c’è arrivato con una contezza dei numeri e degli equilibri parlamentari che ha sorpreso i suoi interlocutori. Quando si è recato a Palazzo Chigi per incontrare colui che, se tutto andrà come deve, gli passerà la campanella, s’è concesso una battuta appena sulla comune fede giallorossa (nel senso della Roma), poi s’è chiuso nell’ufficio di Giuseppe Conte per un colloquio riservato, a tu per tu, chiedendo qualche dritta sulla tribolazione rossogialla (nel senso della maggioranza) e su come affrontarla.

 

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In fondo una prima indicazione, con un intervento tutt’altro che improvvisato, gliel’ha fornita Luigi Di Maio. Che fingendo di seguire la linea oltranzista, è intervenuto durante l’assemblea dei gruppi parlamentari del M5s per indicare un compromesso possibile: “La via democratica alla ricostruzione dell’Italia è quella di un governo politico”, ha messo a verbale il ministro dimissionario, ben accorto a non citare mai il nome di Draghi. E’ in fondo il compromesso che anche i dirigenti del Pd, da Dario Franceschini a Lorenzo Guerini, considerano necessario. Per sedare i malumori del grillismo, ovviamente, e forse anche per limitare l’autonomia di questa sorta di extraterrestre uscito di buon mattino dalla sua casa dei Parioli, senza ancora uno staff e dei portavoce, per stravolgere gli equilibri del Palazzo, e che però pare sia più affezionato, per quel che valgono i parallelismi, al paragone con quel fu Ciampi, che non con Monti. E d’altronde anche il Cav., che nel vertice coi leader del centrodestra c’ha tenuto a ricordare che il più accreditato sponsor di Draghi è stato proprio lui (avendolo voluto prima a capo di Banca d’Italia e poi dell’Eurotower), ha rimandato la scelta di Forza Italia al giudizio sulla composizione del governo: “Servirà almeno un Guardasigilli non giustizialista”, s’è lasciato scappare, forse con riferimento a quella Marta Cartabia che, nei conciliaboli del Transatlantico, ieri risultava tra le primissime scelte per Via Arenula.

 

E qui si viene al secondo aspetto dell’enigma Draghi: il perimetro della maggioranza. Fosse per Giancarlo Giorgetti, che ancora lunedì ha propiziato quella telefonata tra Matteo Salvini e l’ex capo della Bce che ha contribuito a superare lo stallo nelle trattative, inducendo Matteo Renzi all’azzardo finale, la Lega dovrebbe sostenerlo senza tentennamenti, il governo che verrà. Ma per Nicola Zingaretti, che all’appello di Mattarella ha risposto con l’aria di chi proprio non può farne a meno, la pregiudiziale sul Carroccio resta intatta. Bisogna insomma provare a restringere il campo dentro il confine di Ursula. “In Parlamento la stessa maggioranza che ha eletto la Von Der Layen in Europa può sostenere Draghi”, spiega il senatore Dario Stefano, vicino al capogruppo Andrea Marcucci e presidente della commissione Affari Ue.

 

E i segnali di fumo, dal fronte azzurro, non sono certo mancati. Mara Carfagna è già ferma nei suoi intendimenti, a prescindere dalle scelete del resto del centrodestra. “Volevamo un governo dei migliori: è arrivato il migliore dei migliori”, sorride Andrea Cangini, suo luogotenente a a Palazzo Madama. Giovanni Toti è sulla stessa lunghezza d’onda, e con lui Maurizio Lupi, che non a caso ieri ai leghisti che gli parlavano dell’unità inviolabile della coalizione, ricordava il precedente del governo gialloverde. “Con Draghi a Palazzo Chigi, il mondo si divide tra buoni e cattivi: io sono pronto a votargli la fiducia”, sentenzia il deputato Matteo Perego, vicino agli umori di Gianni Letta, andando oltre alla già significativa apertura di Maria Stella Gelmini, che ha lasciato intendere il suo favore alla chiamata dell'ex banchiere. E in fondo lo stesso Renzi, nei giorni passati, il suo scenario ideale lo descriveva tracciando il contro di Ursula, e prospettando però un’astensione non belligerante della Lega. E’ così che lì, al centro, lo spazio del centro riformista ed europeista diventerebbe evidente a tutti.

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E bilancerebbe quel fronte rossogiallo che, a giudizio del Nazareno, dovrebbe comunque sopravvivere al trapasso del BisConte. Per questo Zingaretti, su suggerimento di Franceschini, ieri ha convocato un vertice coi leader di Leu e del M5s: per ribadire la comunità d’intenti e prendere le distanze da Renzi, certo, ma in fondo anche per costringere i grillini dentro questa nuova avventura. “Deve essere chiaro che dicendo no a Draghi, rinnegano un’intera esperienza di collaborazione”, dicevano i maggiorenti dem ieri. E Di Maio l’ha afferrato primo di tutti, quell’appglio, e davanti ai parlamentari del M5s ha detto chiaro e tondo che “questa coalizione di centrosinistra non si deve rompere, perché è con questa che ci presenteremo alle prossime elezioni”. Lo fa, Di Maio, anche per accreditarsi lui, come garante del M5s nel nuovo assetto, per rendere inessenziale il patrocinio di Conte sul nuovo accordo. Ché forse l’ex capo del M5s sa bene che Zingaretti, per disinnescare le rivolte interne al gruppo grillino del Senato, ha lasciato capire che Draghi farebbe bene a offrire allo stesso Conte un ruolo da ministro nel nuovo governo

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