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Il ritratto

Il sovrastante del Pd

Ex ministro della Giustizia, dell'Ambiente. E' il candidato a qualsiasi nuova carica. Non è il funzionario ma la funzione

Carmelo Caruso

Non è solo il vice del partito democratico. E' l'uomo di cui non può fare a meno il segretario. Ex ministro, collegamento con la vecchia generazione della sinistra. Protagonista della crisi. Chi è Andrea Orlando

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"Stiamo attendendo una risposta da Andrea Orlando”. Dicono che a volte è accaduto. Assicurano che è successo. C’è chi conserva il ricordo come il compimento di una impresa. In ogni redazione di questo paese difficile c’è un giornalista che tutti i giorni ha la missione di chiedere un’intervista al vicesegretario del Pd, all’ex ministro della Giustizia, al “massimo dirigente” del partito. Il mandato è sempre il solito: “Ci serve una voce di peso, insomma uno come Orlando”.

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"Stiamo attendendo una risposta da Andrea Orlando”. Dicono che a volte è accaduto. Assicurano che è successo. C’è chi conserva il ricordo come il compimento di una impresa. In ogni redazione di questo paese difficile c’è un giornalista che tutti i giorni ha la missione di chiedere un’intervista al vicesegretario del Pd, all’ex ministro della Giustizia, al “massimo dirigente” del partito. Il mandato è sempre il solito: “Ci serve una voce di peso, insomma uno come Orlando”.

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In tutti i quotidiani esiste almeno un cronista che gli ha spedito un messaggio e coltivato la speranza di un suo segnale. Si hanno solide testimonianze. C’è chi al mattino era convinto di potercela fare solo perché aveva ottenuto questa promessa: “Sentiamoci fra un paio d’ore”. Sapete cosa fa? Visualizza i messaggi. Ma ragiona sul messaggio. Ha garantito colloqui ma li procrastina. E’ vero che in televisione si presenta e che rilascia dichiarazioni, ma sorveglia la parola scritta che è la calce del pensiero: “E io da ragazzo volevo fare il muratore. Mi è sempre sembrato un mestiere bellissimo. Mi piace il bianco dell’intonaco”.

 

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Non è per presunzione che si dilegua, ma assicurano per raccogliersi. Non è perché vuole fuggire che non si lascia trovare. Orlando valuta la necessità dell’intervento. Orlando processa Orlando. Gli venga riconosciuto come titolo di merito più del titolo di onorevole, ministro e (vice) segretario. E’ tra i pochissimi uomini di sinistra che non ha mai dato alle stampe un libro su come la sinistra debba fare la sinistra. Non si è mai misurato con il pamphlet, non ha mai offeso la carta con testi destinati a gonfiare la vanità. Non ha mai pronunciato la frase snob del cretino che ha studiato: “Il mio programma politico ho avuto modo di esporlo nel libro …”. Orlando è la funzione. E’ il segretario di completamento, il consegretario, qualcosa di più del vice e qualcosa di meno del primo. E’ l’uomo senza il quale il segretario non potrebbe vivere.

 

Nel linguaggio agrario che Emanuele Macaluso padroneggiava, quel Macaluso di cui Orlando si è sempre detto allievo (“così come di Aldo Giacchè e Giorgio Napolitano”), rappresenterebbe la figura del sovrastante, l’amministratore solido e svelto, l’uomo di calcolo e di mano, il punto di riferimento sia dei contadini che del barone. Quando si è aperta la crisi di governo ha detto che: “In politica mai si può dire mai”. Intendeva che Conte non doveva dire mai senza Matteo Renzi. Era chiaro: negoziava. Quando Renzi ha chiesto ai suoi di attendere e di non rilasciare dichiarazioni ostili, è stato Orlando a pronunciare la frase esplosione: “Se il disegno di Iv è l’omicidio politico del Pd, non ci sono i margini per proseguire”. Ha precisato che non si può ragionare con chi si è dato la missione di assassinare una comunità. Ma aveva pure spiegato che “non c’è nessun Conte o morte, il punto è semplice e tutto politico, il crollo di Conte rischia di essere la fine di una alleanza”.

 

E’ stato dato, e nello stesso tempo, tra gli aperturisti e gli inflessibili, una sorta nec Conte nec sine Conte vivere possum, come tra coloro che non hanno mai chiuso la porta (in segreto) a Renzi malgrado lo abbia combattuto e sfidato: “Ho sempre avvisato sui rischi dell’uomo solo al comando e sulla prepotenza. Io sono diverso”. Alle primarie venne sconfitto da lui ma è entrato nel governo con lui, alla Giustizia (“Sapevo che ero destinato a perdere ma dovevo farlo”). Orlando è la ventosità, l’obliquità. Ha 51 anni. E’ nato La Spezia. Il golfo gli ha moderato il carattere mentre il sale gli ha increspato i capelli. Per un ex ministro del Pd possiede una straordinaria qualità: “Riesce a cambiare linea prima che la linea cambi”. E’ il giovane cresciuto dai vecchi (Napolitano, Luciano Violante, Anna Finocchiaro, Pier Luigi Bersani, Piero Fassino) ma non è la ditta dopo la fine della ditta. “Non è corretto dire che sono il figlio di quella storia. Non sono un ortodosso. La mia sinistra non è quella intransigente. Mi ritengo un socialista europeista”.

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La sinistra gli ha infatti rimproverato di essere di destra. Nel 1989, da segretario della federazione giovanile di La Spezia, è stato “ammonito”, quasi espulso, dal segretario della Fgci, Gianni Cuperlo. L’accusa era di aver diviso l’organizzazione. Aveva promosso un’iniziativa con i giovani del Partito Socialista. I compagni erano con lui (“avevano votato a mio favore”) ma la segreteria nazionale contro di lui. Dovette lasciare la carica senza rivelare i motivi che diventarono “di studio”. Subito dopo venne eletto in consiglio comunale: “Con i voti della sinistra migliorista. Della destra della sinistra”. Ha una taglia 40 di scarpe. Non porta orologi. Usa il telefono ma con rigore: “La vicenda Palamara dimostra che la mia cautela è più che giusta”. L’unico oggetto feticcio che possiede è una cravatta rossa di Cenci. L' acquistò il giorno del giuramento di Napolitano. Quella che indossava si era sfilacciata. “Fu Sposetti a dirmi che un provinciale non poteva rimanere senza cravatta nel giorno più solenne. Da allora la conservo”. In questa settimana è stato indicato vicepremier, ministro della giustizia bis, sottosegretario alla presidenza, alla Difesa, agli Interni. Ha ragione quando scrive, su Twitter, che “nel fantasioso e psichedelico totoministri quotidiano c’era un ministero che non mi era stato ancora attribuito: quello dell’agricoltura”. Si è rimediato: è stato indicato anche come ministro dell’Agricoltura.

 

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Orlando è “spezia” democratica, il condimento esecutivo, il pesto dei governi. E’ finito alla Giustizia perché Renzi aveva indicato Nicola Gratteri che Napolitano non poteva mai accettare. Da ministro della Giustizia si è confrontato pure con Gratteri che è entrato in questi giorni nella crisi di governo come la variante Catanzaro. Si è iscritto alla Fgci a tredici anni, a 18 al Pci. A 12 anni leggeva “Metello” di Vasco Pratolini. Il suo primo giornale aperto è l’Unità (“amavo i corsivi di Fortebraccio”).

 

Il libro della maturità è “L’educazione sentimentale” di Flaubert. Lo scrittore è Conrad con la sua “La Linea d’ombra” che è il breviario degli inquieti, dei fuoriposto, di chi si tormenta nel decidere e allunga la giovinezza: “Il tempo va, fino a quando innanzi a noi si profila una linea d’ombra ad avvertirci che bisogna dire addio anche al paese della gioventù”. Ed è questa la sprezzatura che dicono piaccia alle donne che piacciono molto a Orlando. Viene classificato come un amante stendhaliano. Nessun matrimonio. Ha studiato al liceo scientifico Pacinotti di La Spezia. Non ha mai finito giurisprudenza ma è stato senza dubbio il migliore degli ultimi Guardasigilli. I garantisti più severi gli rimproverano di non aver messo fine al guasto delle intercettazioni. Ha provato però a frenarle e normarle perché “bisogna evitare il grande fratello permanente”. Si racconta che amasse fare il ministero dell’Ambiente. Lo è stato con Enrico Letta premier: “Avevo delle idee”.

 

Orlando non si è mai preoccupato di riscaldare le piazze perché conosce tutti i circoli del Pd di regione e provincia. “Non mi vergogno di essere stato funzionario, fra i mestieri che ho svolto, e ne ho svolti, metronotte, scaricatore, è quello che più rivendico”. E’ celebrato per la sua cultura enciclopedica su Sanremo. Iva Zanicchi, di cui Orlando si è detto fan, ha risposto: “Io sono pazza di Andrea”. Una volta gli chiesero se amasse i bagni di folla e lui ha risposto che amava “i bagnetti”. Modesto?

 

E’ figlio di due insegnanti, uno di ginnastica e l’altra di lettere. Il padre Enzo, nel 2012, per distribuire i suoi volantini elettorali si fratturò delle vertebre in un incidente stradale e quindi “dedico la mia vittoria elettorale a papà”. La madre si chiama Marta. Entrambi lo volevano insegnante, avvocato. Ha confessato che “erano scettici. C’è stato quasi un conflitto per la mia decisione di fare politica come professione. Credo che si sia risolto solo quando sono stato indicato ministro”. E’ alla quarta legislatura, ma ha coperto tutti i sottoreparti del partito. Responsabile organizzazione, enti locali, portavoce della segreteria nazionale con Walter Veltroni, commissario nella Napoli delle primarie scandalo. Lo mandò Bersani. Dicono che somigli ad Alessandro Natta ma solo perché è ligure come lui. Era di Oneglia che è il loro mare comune. Orlando è di pianta meridionale. I nonni erano casertani. Il nonno paterno, Salvatore, era un manovale di ferrovia di fede socialista. Fu trasferito in Liguria per punizione. Il nonno materno era sottoufficiale di marina.

 

La casa di La Spezia, quella dove Orlando torna, è la casa popolare dei nonni, una “casa Fanfani”: “L’hanno riscattata. Adesso è mia. Ci tengo. Ci sono legato”. A Roma abita nei pressi di via della Scrofa. Un bilocale. “Ma da ministro mi avevano assegnato un appartamento di servizio a Regina Coeli. Diciamo che non era il caso”. Ha una sorella e neppure gli amici conoscono il suo nome. “E i nomi è meglio che non si dicono. Ci tengo alla mia riservatezza”. Si chiama Silvia: lavora in uno studio d’architettura. Orlando compra gli abiti in una sartoria di Napoli, in via Toledo. Beve vini toscani. Si riguarda le commedie all’Italiana di Risi, Scola (“C’eravamo tanto amati”) e poi i “Quattrocento colpi” di Truffaut. Acquista saggi storici come quelli di Cristopher Lasch  “La rivolta delle élite”. Riapre “Il secolo breve” di Eric Hobsbawm.

 

Non spedisce enews ma ha un profilo Twitter “Andreaorlandosp” dove sp, che sta per la sua città d’origine, è un po’ come il baffo per gli uomini, una distinzione, la virgola che evidenzia. Non hai mai portato la barba. Preferisce camminare anziché guidare l’automobile. Ha una Fiat Bravo “ma non so se parte”. A Roma, si muove in monopattino. Mangia tortelli e carciofi al guanciale, pasta e fagioli. Ha delle trattorie di riferimento che nella Capitale frequenta. L’osteria dell’Ingegno a piazza di Pietra, “Non solo Pasta” di via della Stelletta perché è cucina ligure. Ogni mercoledì, fino a quando è stato possibile, si è unito ai pranzi “miglioristi” in compagnia di Napolitano, Macaluso, Sposetti, Petruccioli, Cervetti. Si incontravano all’Osteria del Sostegno che non è solo un nome ma un’attività dello spirito e un impasto di affetti. Nel Pd c’è una corrente che non è in realtà una corrente. E’ quella degli orlandiani e non vengono lasciati soli da Orlando. Quando Renzi è stato eletto segretario del Pd e voleva escluderli dalle liste, gli ha risposto: “Se tieni fuori loro, esco pure io”. Giulio Calvisi è stato nominato, nel governo Conte II, sottosegretario alla Difesa. Giuseppe Provenzano, che è mezzo Provenzano e mezzo Orlando, è una sua scoperta. La sua portavoce di oggi, Laura Cremolini, era la portavoce di Orlando. Orlandiani sono Andrea Martella, Antonio Misiani, Anna Rossomando.

 

Vincenzo Amendola è invece il “caro amico Enzo”. E’ un album di sinistra. Orlando non ha mai voluto rompere con il passato: “Io non farò mai la guerra alle generazioni”. E’ infatti presente a tutte le celebrazioni, gli anniversari dei padri. Sulla tomba del sindacalista Di Vittorio. Al cimitero del Verano per un ricordo a Palmiro Togliatti che è “stato artefice della costruzione della democrazia” senza negare l’adesione allo stalinismo. E però, come raccomanda Orlando, “la storia non è mai in bianco e nero” e Togliatti “incarna le contraddizioni più drammatiche”. Non è vero che è serioso. Ha solo militato in un partito che non ha sempre amato il sorriso. Nel 2012 ha dovuto giustificarsi con il segretario Bersani perché, a Napoli, aveva partecipato a una festa in discoteca: “Ho fatto un errore. Ho visto degli addobbi sopra le righe ma tipici delle feste in discoteca che non ho l’abitudine di frequentare”. Da bambino giocava a calcio nel quartiere Fossitermi, mezzapunta. Daniele Marantelli, un simpatico ex deputato comunista, garantisce che sia bravo: “Riesce a fare dei numeri. Come in politica”.  La verità è che Orlando è l’ultimo anello di collegamento fra il Pci più fantasioso e il Pd del dopo Renzi. “Ma io voglio essere valutato per quello che ho fatto e non per la tradizione che esprimo”. Con Nicola Zingaretti c’è un “rapporto di lealtà e libertà”. E dunque più lo spingono in avanti e più salta come saltava l’acciuga nel libro di Nico Orengo. Doveva entrare nel Conte II e invece ha detto “preferisco occuparmi del partito”. E’ insomma la ruga giovane, il freddo caldo, lo sfrontato ma composto. Non teme infatti la contraddizione. E’ la contraddizione. A volte sembra il più acceso liberale. Altre volte come l’ultimo custode dei valori. E’ il tesoretto della sinistra. Orlando è il suo materialismo storico della dialettica.

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