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Prima e dopo Mare nostrum:

Sui migranti è un accerchiamento giudiziario

Luca Gambardella

I giudici vanno a interrogare Giuseppe Conte per la Gregoretti, mentre dall'Onu arriva la condanna per i morti del 2013

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Nel mezzo della crisi politica, oggi Palazzo Chigi si è trasformato per alcune ore nell’aula di un tribunale. Intorno alle 10,30 del mattino, il giudice di Catania Nunzio Sarpietro è entrato con dei faldoni sotto braccio e si è diretto nell’ufficio del premier dimissionario Giuseppe Conte per interrogarlo. Era presente anche Matteo Salvini, ex ministro dell’Interno e imputato di sequestro di persona nel caso Gregoretti, per il ritardo dello sbarco di 131 migranti a fine luglio del 2019 e omissione di atti d’ufficio.  Il presidente del Consiglio “è l’unico che ci possa dare indicazioni fondamentali per l’eventuale rinvio a giudizio di Salvini”, ha spiegato Sarpietro all’ingresso di Palazzo Chigi. E così, anche se solo per qualche ora, i vertici del governo gialloverde si sono ritrovati finalmente insieme, uniti da un procedimento penale dalle gravi accuse, il cui peso politico – oltre che giudiziario – è messo in ombra in queste settimane solo da pandemia e  consultazioni. 

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Nel mezzo della crisi politica, oggi Palazzo Chigi si è trasformato per alcune ore nell’aula di un tribunale. Intorno alle 10,30 del mattino, il giudice di Catania Nunzio Sarpietro è entrato con dei faldoni sotto braccio e si è diretto nell’ufficio del premier dimissionario Giuseppe Conte per interrogarlo. Era presente anche Matteo Salvini, ex ministro dell’Interno e imputato di sequestro di persona nel caso Gregoretti, per il ritardo dello sbarco di 131 migranti a fine luglio del 2019 e omissione di atti d’ufficio.  Il presidente del Consiglio “è l’unico che ci possa dare indicazioni fondamentali per l’eventuale rinvio a giudizio di Salvini”, ha spiegato Sarpietro all’ingresso di Palazzo Chigi. E così, anche se solo per qualche ora, i vertici del governo gialloverde si sono ritrovati finalmente insieme, uniti da un procedimento penale dalle gravi accuse, il cui peso politico – oltre che giudiziario – è messo in ombra in queste settimane solo da pandemia e  consultazioni. 

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I legali di Salvini hanno insistito nel volere dimostrare il coinvolgimento politico di tutto il governo in quei sei giorni che tennero lontana da un approdo sicuro una nave della Marina militare  carica di naufraghi. Per farlo, la difesa dell’ex ministro dell’Interno ha chiesto di mettere agli atti decine di mail scambiate fra Palazzo Chigi e altre cancellerie europee, in cui il nostro governo chiedeva la redistribuzione dei migranti a bordo della Gregoretti. Una tesi non sufficiente a stabilire che la responsabilità dei fatti fosse condivisa, ha obiettato Conte. Secondo il premier, il resto del governo, inclusi gli ex ministri delle Infrastrutture e della Difesa – Danilo Toninelli ed Elisabetta Trenta –, aveva preso le distanze dalla pericolosa perseveranza dimostrata da Salvini nel volere tenere i naufraghi a bordo della nave in condizioni sanitarie estreme. Le indagini chiariranno se c’è qualcosa di concreto dietro ai “non so” e ai “non ricordo” sospirati con imbarazzo da Toninelli al processo di Catania solo poche settimane fa. Per ora vale la sintesi azzardata oggi da Sarpietro all’uscita da Palazzo Chigi: “La coralità atteneva a una metodologia. I singoli eventi erano curati dai singoli ministri: nei vari casi il ministro Salvini prima e la ministra Lamorgese dopo”. 

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Le indagini internazionali 

 
L’accerchiamento giudiziario delle istituzioni italiane non riguarda solamente la presidenza del Consiglio e il ministero dell’Interno. Ci sono anche il ministero delle Infrastrutture – per quanto concerne la Guardia costiera – e quello della Difesa, entrambi coinvolti in un procedimento penale in corso già da sette anni e che si sta avvicinando alla prescrizione. Si tratta del processo istruito per la morte di 268 profughi siriani, tra cui cento bambini, annegati nel Mediterraneo l’11 ottobre 2013 e per il quale siedono oggi fra gli imputati ufficiali della Marina militare e della Guardia costiera. Quel giorno, nonostante le richieste di soccorso inviate dal peschereccio che imbarcava acqua mentre si trovava a 61 miglia da Lampedusa, il comando di Roma (Mrcc) decise di non intervenire. Così il pattugliatore militare Libra, ad appena un’ora di navigazione, rimase fermo e in attesa di ordini per cinque ore, abbastanza perché  il barcone con a bordo 480 persone colasse a picco. Di più: secondo le intercettazioni diffuse dall’Espresso in questi anni, l’Mrcc intimò a nave Libra di allontanarsi ancora di più dal peschereccio. I pm di Roma avevano chiesto l’archiviazione per la tenente di vascello della Marina militare, Catia Pellegrino, richiesta rigettata ad agosto dello scorso anno dal giudice per le indagini preliminari. Nel frattempo dall’Onu sono arrivate gravi accuse a carico dell’Italia.  Con un report dall’enorme portata giuridica, mercoledì la commissione per i Diritti umani delle Nazioni Unite ha accusato il nostro paese di “non aver saputo proteggere il diritto alla vita di 200 migranti”. L’Onu ha scritto che l’Italia “non ha saputo rispondere alle richieste di aiuto inviate dall’imbarcazione che stava affondando”.  “Anche se l’avaria della nave non è avvenuta nella zona di ricerca e salvataggio (sar) dell’Italia, le sue autorità dovevano dare il loro supporto. L’intervento ritardato ha avuto invece un impatto diretto sulla perdita di centinaia di vite umane”. In sostanza, l’Onu ha chiarito che le operazioni di salvataggio vanno compiute da chiunque ricevi una richiesta di aiuto in base alla prossimità rispetto all’imbarcazione in difficoltà. Se la nave italiana era la più vicina al peschereccio che imbarcava acqua doveva intervenire, a prescindere dal fatto che il barcone si trovasse in acque sar maltesi. 

 

Ma al di là delle valutazioni giuridiche, ci sono anche quelle politiche. “L’Onu arriva tardi su una questione su cui si sta già confrontando la giustizia italiana”, dice Monica Nardi, ex portavoce del governo Letta che in quei giorni si trovò ad affrontare l’emergenza migranti. “Dopo quella tragedia avviammo ‘Mare nostrum’, su cui proprio l’Onu spese parole di apprezzamento perché salvò moltissime vite. E rilanciammo la riforma del Regolamento di Dublino. Ricordo quanto l’Italia fosse sola in quei giorni, mentre il Mediterraneo era un cimitero. Lanciammo la missione e chiedemmo aiuto all’Ue, ma l’unico paese che contribuì fu la Slovenia che inviò una nave, un paese che ha pochi chilometri di costa”. 
Se è vero che lo sforzo delle forze armate  fu senza precedenti nel salvare vite, le responsabilità soggettive per i fatti del 13 ottobre 2013 restano da appurare. Ora il report della commissione Onu mette in  difficoltà sia la Marina militare sia la Guardia costiera. Interpellate dal Foglio, nessuna delle due è riuscita ancora a emettere un comunicato per commentarlo. Oggi è iniziato il dibattimento nel processo a carico dell’allora comandante della centrale operativa della Guardia costiera, Leopoldo Manna, e dell’ufficiale responsabile delle operazioni del Comando in capo della squadra navale della Marina, Luca Licciardi. L’accerchiamento giudiziario non accenna a concludersi. 

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