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La Spoon River dei partiti senza popolo nati in Parlamento

Pino Pisicchio

E' legittimo cercare di allargare il consenso parlamentare per un governo che deve fare scelte importanti, soprattutto in un passaggio drammatico. Ma sia chiaro che si tratta solo di un rimedio al presente difficile 

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La cosa singolare nell’analisi politica dei giorni nostri è data dall’applicazione di chiavi antiche e desuete per interpretare e pronosticare. Che dire, allora, della rincorsa ansiogena dei media al “partito di Conte”, seguendone il filo nelle aule parlamentari così, di default, senza comprendere che da anni si è spezzata nel paese la corrispondenza tra rappresentante e rappresentato e dunque dietro a ogni eletto non c’è un pezzo di società, ma solo l’espressione di un modesto solipsismo? Io non so se Conte farà oppure no un suo movimento in grado di proporre al popolo liste, programmi e filosofie di governo nel prossimo turno elettorale: sicuramente, però, quel partito non è oggi in Parlamento. In Parlamento ci sono deputati, in massima parte provenienti dalle file dei Cinque stelle che già votavano per il governo e che adesso si mettono sotto un simbolo per ottimizzare il loro peso politico, e senatori che erano in partibus infidelis – e che dunque spostandosi pesano il doppio – impegnati nel commendevole progetto di tener in vita la legislatura.

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La cosa singolare nell’analisi politica dei giorni nostri è data dall’applicazione di chiavi antiche e desuete per interpretare e pronosticare. Che dire, allora, della rincorsa ansiogena dei media al “partito di Conte”, seguendone il filo nelle aule parlamentari così, di default, senza comprendere che da anni si è spezzata nel paese la corrispondenza tra rappresentante e rappresentato e dunque dietro a ogni eletto non c’è un pezzo di società, ma solo l’espressione di un modesto solipsismo? Io non so se Conte farà oppure no un suo movimento in grado di proporre al popolo liste, programmi e filosofie di governo nel prossimo turno elettorale: sicuramente, però, quel partito non è oggi in Parlamento. In Parlamento ci sono deputati, in massima parte provenienti dalle file dei Cinque stelle che già votavano per il governo e che adesso si mettono sotto un simbolo per ottimizzare il loro peso politico, e senatori che erano in partibus infidelis – e che dunque spostandosi pesano il doppio – impegnati nel commendevole progetto di tener in vita la legislatura.

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Il consenso popolare di cui ognuno è portatore è legato alla lista in cui è stato eletto (e che ha abbandonato) e non alla persona. Pertanto ogni aggettivo nobilitante è carino a vedersi ma, onestamente, almeno in questa fase, c’entra poco. Del resto la storia dei “partiti solo parlamentari”, nati da scissioni, da secessioni o da sgocciolamento lavico, è lunga e ben illustrata nell’epopea delle Repubbliche italiane. A partire dalle creazioni parlamentari della Prima Repubblica, che conobbe sia a destra – la secessione dal Msi della Democrazia Nazionale di De Marzio e Delfino nel 1979, con 15 seggi alla Camera e 9 al Senato – sia a sinistra – il Manifesto, che nel 1972 sottrasse al Pci 5 deputati – ma proseguendo con l’alacre lavoro di scomposizione nella Seconda Repubblica (e qui basta solo scorrere numeri e nomi dei gruppi parlamentari all’inizio e alla fine delle sei legislature dal 1994 al 2013 per imbattersi in grappoli metastatici di formazioni politiche), il destino dei partiti nati in Parlamento e non sostenuti dal consenso popolare è stato sempre molto gramo. Più precisamente: il gruppo o la componente parlamentare non è quasi mai riuscita a fare il salto per diventare partito.

 

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Diciamo che, grazie a generose nicchie scavate nei sistemi elettorali della Seconda Repubblica maggioritaria (sic!) hanno potuto sopravvivere solo alcuni rari esemplari per qualche legislatura in forza di un solido, ancorché limitato, radicamento territoriale: il miracolo durato due legislature dell’Udeur mastelliano, e non a caso l’inossidabile Clemente è tornato ai fasti mediatici nell’ultima crisi. Ma per il resto un cimitero di partiti effimeri che brillarono nei pastoni dei tiggì per un solo giro per poi tramutarsi in ceppi nella sterminata Spoon River della politica italiana. Chi si ricorderà di Ecologisti democratici, di Liberal-democratici-nuovo Psi, di Repubblicani europei, della Sinistra democratica per il socialismo europeo, di Diritti e Libertà, di Repubblicani e Azionisti, tanto per restare nel più remoto di un elenco di sigle che ebbero rappresentanza parlamentare una ventina di anni fa? Ma per tornare alla Terza Repubblica, cioè appena ieri l’altro, che dire dell’Alternativa popolare-Ncd di Alfano, o della piccola costellazione di micro-partiti nata con l’implosione di Scelta civica, tra cui Democrazia solidale e Civici e innovatori, o della Direzione Italia di Fitto, o del Movimento per le autonomie, sigle di gruppi e componenti parlamentari nati per partenogenesi da formazioni più grandi, che sono serviti a confermare la mai smentita tendenza della politica italiana, al di là del sistema elettorale, a moltiplicare i simboli senza, però, crescere in consensi?

 

Certo, i sondaggi raccontano che nel paese c’è un pezzo importante di società ancora alla ricerca della propria rappresentanza politica. Vogliamo chiamarla col nome dell’Italia di quelli che non urlano e che per farsi un’opinione politica leggono ancora i giornali piuttosto che lasciarsi ipnotizzare dai talk-show o dai social? Vogliamo metterci dentro un senso civico, una sensibilità democratica che accoglie istanze liberali e solidariste, ambientaliste e un’apertura al mondo piuttosto che una chiusura ermetica attorno all’ombelico? Forse è l’Italia che non ha votato: sicuramente fatica a trovare un rispecchiamento nell’inquietudine di un ceto parlamentare in moto perpetuo. Distinguiamo, allora le cose: è legittimo cercare di allargare il consenso parlamentare per un governo che deve fare scelte importanti in un passaggio drammatico. Ma sia chiaro che si tratta solo di un rimedio al presente difficile. Il partito politico è cosa diversa.

 

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