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Il bello della responsabilità: non c’è opinione definitiva che non si riveli provvisoria

Claudio Cerasa

Per immaginare l’esito di questa pazza crisi di governo è necessario ricordare la naturale predisposizione dei protagonisti della politica a considerare perfettamente negoziabili anche le dichiarazioni teoricamente meno negoziabili. Esempi

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L’importante è la responsabilità, no? La ragione per cui, in questa pazza crisi di governo, tutto è ancora possibile e tutto può ancora mutare da un momento all’altro non ha a che fare solo con l’imprevedibilità di questo Parlamento, non ha a che fare solo con il logoramento dei rapporti tra i leader, non ha a che fare solo con la stanchezza pandemica, non ha a che fare solo con la paura delle elezioni ma ha a che fare con una particolare caratteristica della politica contemporanea che coincide con un’attitudine che sarà bene tenere a mente nelle prossime settimane: la naturale predisposizione dei protagonisti della politica a considerare perfettamente negoziabili anche le dichiarazioni teoricamente meno negoziabili. Oggi tutto sembra essere bloccato, tutto sembra essere fermo, tutto sembra essere complicato e tutti cerchiamo di leggere il futuro concentrandoci sulle posizioni teoricamente granitiche di Giuseppe Conte (“mai più con Renzi”), di Luigi Di Maio (“mai più con Italia viva”), di Nicola Zingaretti (“c’è solo il voto senza questo governo”) e di Matteo Renzi (“Conte è un vulnus per la democrazia”) ma la verità è che la storia recente di questa legislatura ci ha insegnato che non c’è dichiarazione teoricamente definitiva che non sia tecnicamente provvisoria e che non ci sia imperativo assoluto che non sia fatto per essere poi successivamente negoziato.

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L’importante è la responsabilità, no? La ragione per cui, in questa pazza crisi di governo, tutto è ancora possibile e tutto può ancora mutare da un momento all’altro non ha a che fare solo con l’imprevedibilità di questo Parlamento, non ha a che fare solo con il logoramento dei rapporti tra i leader, non ha a che fare solo con la stanchezza pandemica, non ha a che fare solo con la paura delle elezioni ma ha a che fare con una particolare caratteristica della politica contemporanea che coincide con un’attitudine che sarà bene tenere a mente nelle prossime settimane: la naturale predisposizione dei protagonisti della politica a considerare perfettamente negoziabili anche le dichiarazioni teoricamente meno negoziabili. Oggi tutto sembra essere bloccato, tutto sembra essere fermo, tutto sembra essere complicato e tutti cerchiamo di leggere il futuro concentrandoci sulle posizioni teoricamente granitiche di Giuseppe Conte (“mai più con Renzi”), di Luigi Di Maio (“mai più con Italia viva”), di Nicola Zingaretti (“c’è solo il voto senza questo governo”) e di Matteo Renzi (“Conte è un vulnus per la democrazia”) ma la verità è che la storia recente di questa legislatura ci ha insegnato che non c’è dichiarazione teoricamente definitiva che non sia tecnicamente provvisoria e che non ci sia imperativo assoluto che non sia fatto per essere poi successivamente negoziato.

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E così per provare a capire fino a che punto le posizioni apparentemente granitiche di oggi possano diventare meno granitiche del previsto può essere utile mettere insieme alcune posizioni apparentemente inflessibili, dei leader protagonisti del negoziato politico del momento, divenute improvvisamente flessibili. E’ successo con il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che nel giro di pochi mesi ha cambiato in modo sostanziale le sue posizioni sul M5s e su Giuseppe Conte. Nel febbraio del 2019, dal palco della convenzione nazionale del Partito democratico, Zingaretti disse, con tono solenne: “Ve lo dico davanti a tutti e ve lo dirò per sempre: mi sono persino stancato di dire, e lo trovo umiliante, che non intendo favorire nessuna alleanza o accordo con i Cinque stelle: li ho sconfitti due volte e non governo con loro”.

 

Pochi mesi dopo, era l’agosto del 2019, subito dopo la crisi innescata da Matteo Salvini, Zingaretti disse: “Si vada alle Camere e poi si aprano le urne per dare la parola agli italiani”. Pochi giorni dopo sarebbe nato il governo con il M5s e per quel governo Zingaretti pose una condizione iniziale. Siamo al 21 agosto 2019: “Discontinuità vuol dire che ovviamente non vogliamo e non possiamo entrare in un governo che propone il Conte bis, il proseguimento di un governo che abbiamo combattuto. Tutti si facciano carico della necessità di avviare un nuovo governo”. La storia è andata come è andata (e il Pd ha usato i suoi veti iniziali sul governo e su Conte per ottenere il più possibile all’interno del nuovo governo) ma la storia ci dice che non c’è dichiarazione perentoria che non sia fatta per trattare più che per chiudere, e lo stesso discorso vale anche per altri pezzi da novanta della trattativa. Pensate a Luigi Di Maio. Di Maio oggi dice, ufficialmente, “con Renzi abbiamo chiuso” ma Di Maio in fondo è lo stesso Di Maio che fino a qualche tempo fa, prima di considerare il Pd come un alleato strategico, considerava il Pd come il partito della piovra e come il partito di Bibbiano (“non voglio avere nulla a che fare con il partito di Bibbiano”, tuonò nel luglio del 2019); è lo stesso che fino a qualche tempo fa, prima di considerare i parlamentari voltagabbana come dei “costruttori”, considerava i parlamentari che cambiano casacca di partito come degli orrendi voltagabbana (“molti governi si sono tenuti in piedi e hanno fatto approvare le peggiori porcate, proprio grazie ai voltagabbana”, affermò nel gennaio 2017); è lo stesso che fino a qualche tempo fa, prima di considerare come dei traditori della patria i politici contrari all’Europa, riteneva l’uscita dell’Italia dall’euro una possibilità degna di essere percorsa (“voterei per uscire dall’euro”, disse nel maggio del 2018); è lo stesso che fino a qualche tempo fa, prima di considerare Sergio Mattarella il pilastro della democrazia italiana, suggerì di organizzare un impeachment contro Mattarella (maggio 2018); è lo stesso che fino a qualche tempo fa, prima di cercare di far entrare il M5s nel gruppo di Macron al Parlamento europeo, appoggiava la rivolta dei gilet gialli contro il presidente Macron (gennaio 2019); ed è lo stesso che, prima di considerare l’opposizione di Silvio Berlusconi come un buon esempio di “responsabilità”, considerava il partito di Berlusconi come “il partito della mafia”. Lo stesso vale per Giuseppe Conte, che negli ultimi due anni ha dato prova di essere estremamente flessibile nelle sue convinzioni. Nell’ottobre del 2018, prima di dirsi fieramente antipopulista, si descrisse, all’inaugurazione della Scuola di formazione politica della Lega, come “orgogliosamente populista”. Nel luglio del 2018, tre anni prima di andare in Parlamento e dire che “l’agenda dell’Amministrazione Biden è l’agenda del governo italiano”, disse, al termine di un incontro bilaterale alla Casa Bianca, che “il nostro governo e l’Amministrazione Trump sono entrambi governi del cambiamento”. Nel luglio del 2019, pochi giorni prima di andare in Parlamento a verificare l’esistenza di una maggioranza alternativa a quella gialloverde, disse, in un tweet: “Che io possa andare in Parlamento a cercare maggioranze alternative o che io voglia addirittura dare vita a un mio partito è pura fantasia”.

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Nel settembre del 2018, tre anni prima di andare in Parlamento a cercare i voti per formare un’alleanza di governo “contro le derive nazionaliste e le logiche sovraniste”, disse all’Assemblea generale dell’Onu, a New York, che “quando qualcuno ci accusa di sovranismo e populismo amo sempre ricordare che sovranità e popolo sono richiamati dall’articolo 1 della Costituzione italiana”. Lo stesso vale per Matteo Renzi, arrivato a guidare un piccolo partito dopo aver combattuto per anni contro i piccoli partiti, arrivato a fare una scissione del Pd dopo aver combattuto per anni, da leader del Pd, contro gli scissionisti del Pd, arrivato a governare con il M5s dopo aver combattuto per anni contro il M5s, arrivato a mettere in discussione Conte dopo averlo spinto come premier nell’agosto del 2019, arrivato a dire di non avere pregiudiziali sul nome di Conte pochi giorni dopo aver detto che il governo Conte è stato, testualmente, “un vulnus per la democrazia”, e che si trova a sua volta all’interno di un paradosso mica male, a proposito di contraddizioni: coloro che per una vita hanno combattuto contro Berlusconi, pur di non fare un governo con Renzi sarebbero disposti anche domani mattina a fare un governo con Berlusconi. Oggi tutto sembra essere bloccato, tutto sembra essere fermo, tutto sembra essere complicato. Ma la verità è che non appena i protagonisti della partita politica di oggi capiranno che le proprie posizioni inflessibili rischiano di far precipitare la legislatura verso lo scenario delle elezioni anticipate, anche le più inflessibili tra le dichiarazioni politiche troveranno un modo per cambiare verso e diventare flessibili. L’importante è farlo dicendo che la svolta non avviene per opportunismo ma avviene sempre sulla base di un principio capace di rendere giustificabile anche la meno giustificabile delle svolte: è la responsabilità, bellezza. 

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