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La prova di forza di Conte in Aula resta a metà. E il Pd lo spinge a un nuovo governo

I responsabili Nencini e Tabacci mettono nero su bianco la richiesta: "Serve un nuovo esecutivo". La diserzione di Nencini apre un problema dentro Italia viva

Valerio Valentini

La fiducia c'è, ma zoppica un po'. Senza la riconciliazione con Renzi, il premier s'avventura su un sentiero stretto. "Per dare forza all'operazione responsabile, bisogna fare un altro governo", dicono nel M5s. E il Pd spinge il capo del governo a confrontarsi col Quirinale. Ma Giuseppi tentenna

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Poco prima che la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, ufficializzi che i Sì alla fiducia sono 156 (tanti quanti la somma dei No, 140, e degli astenuti renziani, 16, con un assente nel M5s, due in Forza Italia e uno in Italia viva), il ministro grillino si abbassa la mascherina e si accascia su una sedia, in un anfratto riservato dell’ammezzato di Palazzo Madama, stremato da una ricerca di responsabili che s’è trasformata in una caccia all’uomo. “Il punto è che ormai con Renzi siamo andati oltre il punto di non ritorno. Riprenderlo a bordo, significherebbe mandare in subbuglio il M5s. Ma per non rendere necessario il suo rientro, c’è bisogno che l’operazione coi responsabili sia robusta. E però, per renderla robusta, servirebbe fare un nuovo governo, per farli sedere al tavolo come chiedono”. Manca un “però”, ancora. “Giuseppe non vuole, non si fida. Resisterà finché potrà”. Poi squilla il telefono, l’inseguimento riprende. “Balle”, si sfogano sulle chat i deputati grillini. “La verità è che sono i nostri ministri a suggerire a Conte di non dimettersi, così i loro posti sono blindati”.

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Poco prima che la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, ufficializzi che i Sì alla fiducia sono 156 (tanti quanti la somma dei No, 140, e degli astenuti renziani, 16, con un assente nel M5s, due in Forza Italia e uno in Italia viva), il ministro grillino si abbassa la mascherina e si accascia su una sedia, in un anfratto riservato dell’ammezzato di Palazzo Madama, stremato da una ricerca di responsabili che s’è trasformata in una caccia all’uomo. “Il punto è che ormai con Renzi siamo andati oltre il punto di non ritorno. Riprenderlo a bordo, significherebbe mandare in subbuglio il M5s. Ma per non rendere necessario il suo rientro, c’è bisogno che l’operazione coi responsabili sia robusta. E però, per renderla robusta, servirebbe fare un nuovo governo, per farli sedere al tavolo come chiedono”. Manca un “però”, ancora. “Giuseppe non vuole, non si fida. Resisterà finché potrà”. Poi squilla il telefono, l’inseguimento riprende. “Balle”, si sfogano sulle chat i deputati grillini. “La verità è che sono i nostri ministri a suggerire a Conte di non dimettersi, così i loro posti sono blindati”.

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Come che sia, il problema sta lì. Perché Conte, prima di decidersi a una soluzione che anche i ministri del Pd gli suggeriscono - e cioè andare comunque al Quirinale, nelle prossime ore, e rimettere nelle mani del capo dello stato il mandato per avere un reincarico - vuole la garanzia della sua insostituibilità. E così la conta in Aula si trasforma in una lotta muscolare. E quando le trattative si complicano, a metà pomeriggio, Rocco Casalino, il portavoce del premier,  catechizza i cronisti: “Drammatizzate, dite che abbiamo già i manifesti pronti con la faccia di Conte. Così i senatori indecisi si spaventano e votano Sì”. Ché il pallottoliere di questo sbracato martedì segna solo l’inizio delle grandi manovre: ma Conte intende entrarci a testa alta, nell’arena delle trattative, per evitare che diventi una palude.

 

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E allora, benché Lorenzo Guerini e Dario Franceschini rassicurino i loro senatori che i numeri ci saranno anche senza Matteo Renzi, che “l’udc  Saccone e il psi  Nenecini sono già d’accordo”, e che altri due di Iv ( Grimani ed  Comincini) “arriveranno” nei prossimi giorni, poi un po’ tutti, nel governo, usano toni perentori, con gli indecisi: “Ma chi se ne frega se venite domani, in maggioranza? E’ oggi che conta, da domani avremo la fila e voi non varrete più nulla”. E’ la politica, per carità. La stessa che suggerisce a premier di citare, nel suo intervento di replica, tutti i senatori rimasti a metà del guado: ecco il riferimento alle politiche demografiche sollevato da Tiziana Drago, ecco l’encomio a Paolo Borsellino per allietare Mario Giarrusso; ecco la lusinga a Gaetano Quagliariello e quella a Riccardo Nencini, “fine intellettuale” che, se si decidesse al grande salto, lasciare Renzi senza gruppo parlamentare. Gianluigi Paragone, che pure ne ha viste, se la ride: “Siamo al mercante in fiera”.

 

Ma dopo il mercato, c’è da dare fiato a un’operazione che, vista così, appare di corto respiro. Ma per farlo - siccome “i democristiani non appoggiano governi di cui non fanno parte”, come ricorda Gianfranco Rotondi - serve imbandire la tavola di un nuovo esecutivo. A Conte glielo ha detto perfino  quel Bruno Tabacci che alla Camera gli sta allestendo una pattuglia di ex grillini: “Non basta il semplice passaggio formale di un doppio voto di fiducia”, gli ha detto, nell’Aula di Montecitorio, lunedì. “E’ necessario che lei guidi un nuovo governo”. Il socialista Nencini, nell’ebbrezza che deve procurargli tutto questo improvviso parlare al plurale di “socialisti”, al Senato suona la stessa campana: “In questi mesi abbiamo sostenuto il suo governo da apolidi, senza farne parte”. E insomma alla via del Conte ter, sia pure riluttante, il giurista di Volturare sembra doversi rassegnare, gestendo il rodeo che s’aprirà nel M5s al solo parlare di ridefinizione delle gerarchie interne. Il tutto in dieci, massimo quindici giorni. E sapendo che l’oltranzismo grillista dovrà ingoiare il rospo di un pezzo di FI, se vuole rigettare il boccone amaro del renzismo. Difficile? “Ma del resto, quando parlavo di un sentiero stretto, intendevo dire che è stretto per tutti”, spiegava ieri Nicola Zingaretti.
 

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